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Il gioco del rovescio. Su Racconti italiani scelti e introdotti da Jhumpa Lahiri

 Mentre il mio lavoro su questo progetto si avvicinava alla fine, in Italia si votava per eleggere un nuovo governo. I partiti xenofobi guadagnano consensi e si diffonde la violenza neofascista nei confronti degli immigrati, mentre il governo si ostina a negare la cittadinanza ai figli di genitori stranieri nati in Italia. Nonostante questa realtà inquietante, l’Italia è diventata la mia seconda casa, e gli italiani hanno per lo più accolto con calore i miei sforzi di esplorare la loro letteratura e cimentarmi nella loro lingua con la sensibilità di chi viene da fuori. A dispetto di chi vuole chiudere le frontiere e creare un Paese in cui vengano ‘prima gli italiani’, l’identità dell’Italia – compresa la definizione stessa di ‘italiani’ – si sta trasformando radicalmente, e la letteratura, da sempre aperta agli influssi esterni e arricchita da questi cambiamenti, continua a sperimentare strade nuove. (Introduzione, p.27).

Guardarsi da un punto di vista alieno

L’antologia di Racconti di italiani che Jhumpa Lahiri aveva concepito, curato e dato alle stampe per la Penguin Classics, destinandola a un pubblico anglofono, esce adesso per Guanda e, in questa edizione, offre forse al lettore italiano (e non solo al lettore amante del genere letterario del racconto), una chance in più: l’occasione – come scrive la curatrice – di guardarsi da un punto di vista alieno, più di quanto non abbiano fatto altre operazioni editoriali simili. Lahiri si rifa dichiaratamente a una di queste in particolare, cioè alla raccolta dei Racconti italiani del Novecento curata da Enzo Siciliano (1983; 2001), alla quale ricorre non solo mutuandone alcune indicazioni fondamentali (le origini del racconto italiano, la differenza tra novella e racconto), ma soprattutto il brivido di intravedere dall’alto la grande distesa dell’oceano (narrativo, s’intende) solo scorrendo l’indice di quei mattoncini blu. E tuttavia, nonostante il debito (per così dire) metodologico nei confronti di Siciliano, Lahiri non esita ad ammettere che altri le ha fatto da guida: Vittorini è stato il mio faro mentre lavoravo a questo libro; Vittorini di Americana. Ci stupisce poco, a ben pensare: l’obiettivo di Americana – osserva Lahiri – era di far conoscere al pubblico italiano le grandi voci della letteratura statunitense; e lei – londinese di origini bengalesi, formazione statunitense e cattedra di scrittura creativa a Princeton –, nel disegnare il progetto originale della sua antologia si è posta probabilmente l’obiettivo uguale e opposto. Ma è a Vittorini che Lahiri continua a guardare non solo nel disegno generale dell’opera, ma nell’introdurre ciascuno dei quaranta racconti inclusi nella raccolta, nel tentativo non di evadere da una realtà a lei nota, quella all’interno della quale è cresciuta e si è formata, ma di stabilire, attraverso la letteratura, un legame con un mondo nuovo e di trasformare l’ignoto in qualcosa di familiare.

Tante voci diverse

La stessa Lahiri ci indica nella Introduzione le due regole e i tre criteri di selezione che hanno orientato la sua raccolta. Le regole sono state drastiche e semplici: levare dalla lista tutti gli autori viventi; stabilire un numero, un tetto massimo. Più interessanti i criteri: mettere insieme il maggior numero di autori che hanno ispirato e alimentato il mio amore per la letteratura italiana, e in particolare per i racconti; creare un’antologia che io e altri docenti saremmo stati entusiasti di adottare come libro di testo e che gli studenti sarebbero stati entusiasti di leggere; includere una grande varietà di stili. A questi – espliciti – aggiungerei quelli sottotraccia, delineatisi in seconda battuta, quando l’elenco dei papabili s’era fatto nutrito: mi sono concentrata soprattutto sul Ventesimo secolo; il mio legame con Roma e il mio amore per l’Italia meridionale hanno influenzato le mie scelte; ho privilegiato le donne, gli autori trascurati e meno conosciuti e quelli che hanno interpretato con particolare passione e virtuosismo la forma breve; artisti che per tutta la vita si sono interrogati e si sono ridefiniti, i cui percorsi sono stati segnati dallo sperimentalismo, linguistico o stilistico.

La lingua, entità circondata da mura, ha in questa operazione una rilevanza particolarissima: Lahiri in un primo momento ha dovuto reperire le traduzioni dei racconti selezionati, o tradurre lei stessa in inglese quelli per i quali le traduzioni non erano disponibili, immergendosi dunque nel tessuto anche (non solo) diacronico della lingua italiana, come probabilmente il lettore italiano non fa. D’altra parte lei stessa ci avverte da subito: questo volume non presuppone un lettore colto:

Noi che leggiamo e amiamo la lingua italiana, che vi apparteniamo per motivi personali o professionali, non siamo necessariamente italiani per origine famigliare, né viviamo necessariamente in Italia. Più ci penso, più sospetto che ci siano persone in ogni Paese del mondo – studenti e studiosi di lingua italiana di ogni età e ogni contesto, figli, nipoti, e altri parenti di italiani all’estero, anche membri della diaspora italiana – che potranno apprezzare quest’antologia. Più ci penso e più mi convinco che il lettore italiano è una figura trasversale e perfino globale. (Avvertenza, p.12)

Il peso attribuito alla lingua risulta ulteriormente rilevante alla luce del privilegio accordato da Lahiri al Ventesimo secolo: quando si parla di letteratura italiana del Novecento – osserva la scrittrice – non si può prescindere dalla questione della lingua giacché – prosegue – tutto il Ventesimo secolo può essere considerato come uno scontro frontale tra il muro che il fascismo aveva tentato di erigere all’Italia e alla sua cultura e le persone – tra cui molti degli autori qui presenti – che, pur correndo gravi rischi, erano determinate ad abbatterlo. Dunque la lingua italiana, stratificata e densa, “piuttosto un complesso di lingue che una lingua sola” (ci ricorda Lahiri citando Leopardi dello Zibaldone), dunque lo sperimentalismo linguistico, deve esserle apparso come serbatoio di sensi; perfino e più in generale l’unico vero terreno a cui appartengono tutti gli autori, per il resto contrassegnati dal marchio doloroso dell’isolamento e della solitudine.

Eccoli, dunque, i magnifici quaranta: Alvaro, Arpino, Banti, Bianciardi, Bilenchi, Bontempelli, Buzzati, Calvino, Campo, Cassola, Cialente, D’Arzo, De Céspedes, Deledda, Delfini, d’Eramo, Fenoglio, Flaiano, Gadda, Ginzburg, Landolfi, Levi, Manganelli, Morante, Moravia, Ortese, Palazzeschi, Parise, Pavese, Pirandello, Ramondino, Romano, Saba, Savinio, Sciascia, Svevo, Tabucchi, Tomasi, Verga, Vittorini; disposti però – in omaggio a quest’ultimo – in ordine alfabetico inverso.

Un senso di meraviglia persistente

Ora io, davanti a questa rassegna, ho dovuto in primo luogo contenere la tentazione fortissima di rifare la lista a modo mio e zittire dentro di me le proteste per gli esclusi o per chi, pur incluso, vi figura con un racconto che a me appare meno significativo di altri. Ho dovuto accettare i criteri di Lahiri, quelli che mette in campo esplicitamente e quelli che dichiara sottotraccia via via; chiedendomi – semmai – quali criteri avrei adottato io, qualora mi fosse stata offerta l’opportunità seducente e rischiosa di redigere un’antologia del genere; o se, mantenendo gli stessi criteri, sarei approdata agli stessi esiti. Ma questa sarebbe materia per un’altra riflessione, e – almeno per il momento – la serberò per me.

Gran parte di queste scrittrici, di questi scrittori, mi sono familiari per studio o per amore e in un buon numero anche per essermi conterranei; ma un piccolo gruppo c’è – lo confesso – che non avevo mai avuto occasione di leggere (D’Arzo, Delfini, d’Eramo – per esempio). Eppure scorrerli uno dopo l’altro è stato come leggerli tutti e ugualmente per la prima volta, con quel senso di meraviglia persistente che Lahiri racconta di aver provato alla prima lettura in italiano di Se questo è un uomo: la verità e la bellezza folgorante di quelle pagine erano destinate a non esaurirsi dentro quella narrazione, ma a determinare una nuova libertà di lettrice e di scrittrice. Non tutti i racconti – lo ammetto – hanno avuto su di me questo effetto folgorante; e tuttavia, nel loro insieme, mi hanno riservato qualche sorpresa: come fossero un ininterrotto racconto sull’atto di raccontare (che è quel che Lahiri scrive a proposito di Malpasso di Cialente). 

In assenza di un tema o di un’epoca o di un’area geografica a far da connettore, ho sperimentato la libertà insolita di corrispondenze solo apparentemente sbrigliate, guidate – com’erano – dai sensori di qualcuno che, prima di me, aveva battuto quella strada ascoltando con attenzione voci e suggestioni, e lasciandovi – come certi bambini delle favole – sassolini o altri segni per ripercorrerla con una consapevolezza nuova. Ho provato a raccogliere questi sassi bianchi, seguendo innanzi tutto le indicazioni contenute nelle introduzioni che Lahiri scrive per ciascun racconto: scritti brevi, appena una pagina o poco più, ma è lì che meglio si coglie il valore, si direbbe la fede profonda riposta dalla scrittrice nella parola e nella sintassi, nel loro potere di dare forma a ciò che appare indistinto o sfuggente, o di suggerire la forma diversa e sempre possibile di ciò che appare noto e circoscritto; la prima lezione da porgere agli allievi di un corso accademico di scrittura creativa, ai quali – non va mai dimenticato – questa raccolta è originariamente indirizzata (la prima versione dell’antologia mi sarà utile per insegnare).

Mi sarà utile per insegnare

Questa attenzione speciale alla forma dà ragione della grande varietà di stili che Lahiri, selezionando i racconti, persegue con una certa lucidità didattica e non con la pedanteria didascalica di chi metta insieme una campionatura. Scorrendo i racconti, ci si accorge subito che non si tratta della pedissequa registrazione di un “esemplare” per ciascuna presunta categoria d’appartenenza; anzi, abbiamo già osservato una dichiarata preferenza accordata, piuttosto che agli accoliti, agli sperimentatori, di cui la scrittrice non manca mai di ricostruire – pur nello spazio contenuto che si è concessa per introdurre ciascun racconto – l’itinerario di formazione artistica, specie se esso si snoda fuori dai binari consueti. Il lettore non troverà pertanto e genericamente un racconto “verista”, uno “futurista”, uno “surrealista”, “neorealista” etc., ma atteggiamenti narrativi diversi, come altrettante posture di ascolto e osservazione del reale. E’ proprio questa luminosa istanza didattica (accanto alla testimonianza d’amore per la letteratura italiana) a conferire alla raccolta peculiarità.

La triade tematica di tempo, luogo e memoria, che Lahiri indica come principio costitutivo della ultima raccolta di Tabucchi, si scopre in realtà asse portante di tutta la riflessione didattica. E’ come se Lahiri insegnasse a chi aspira alla pratica della scrittura creativa la aristotelica praxis: il mythos, il racconto (ci insegna a sua volta Aristotele nel capitolo VI della Poetica) non è che mimesis, rappresentazione dell’azione, di quel movimento le cui coordinate principali (in fisica come in letteratura) sono spazio e tempo; un movimento che a volte è viaggio fisico o dolorosa parodia di esso (Sciascia, Il lungo viaggio; Pavese, Viaggio di nozze, per citarne alcuni), a volte itinerario non meno difficile nella memoria (Ortese, Un paio d’occhiali, De Céspedes, Invito a pranzo, sempre per fare giusto qualche esempio). E la memoria non è sempre quella mitica di Tomasi (La sirena): più spesso è “perigliosa palude” (Ramondino, La torre), o contenitore di simboli dolenti (Bilenchi, Un errore geografico), o profondissima malinconia (Parise, Malinconia); e sempre (sempre) il risultato di una costruzione (Lahiri lo scrive introducendo Mio marito di Ginzburg), col suo portato inevitabile di straniamento e solitudine, di cui partecipano a uguale titolo uomini, donne, animali (Saba, La gallina; Arpino; La babbuina), cose (Savinio, Bago; Palazzeschi, Silenzio).

Tempo, luogo, memoria, come altrettanti sassi bianchi, guidano il lettore in questa varietà: sono le coordinate entro cui si definisce la vicenda, la storia, l’identità di ogni uomo, di ogni donna; ma sono – anche – gli strumenti che devono guidare uno scrittore (una scrittrice) alla ricerca della propria identità narrativa; giacché, forse, non basta vivere (tempo, luogo, memoria), per raccontare; e mai si deve correre il rischio di raccontare troppo:

Vivere giorno dopo giorno, in fondo non è difficile se non si è troppo esigenti: il mondo è un teatrino a cui partecipa anche chi sta dietro le quinte, alla peggio c’è sempre la risorsa di dormire e dormendo sognare, la signora X sogna moltissime cose, per esempio, quando ha l’emicrania, bellissime musiche. Cambiano le scene: lezioni di canto, partite di tennis, noiosissimi giochi d’impegno, il bridge, la canasta, con amiche occasionali che osservava incuriosita dimenticando le carte da pessima giocatrice che era. E cominciò a chiacchierare, lei, la silenziosa di un tempo. Senza rendersene conto quella sua nuova loquacità prendeva il ritmo del racconto gratuito: raccontava i suoi ricordi di bambina, le città dove aveva passato l’infanzia, e quanto aveva amato una sua incantevole zia, morta giovane. Parlando parlando, divagava, favoleggiava. Un po’ stranite, le giocatrici finivano per trascurare picche e quadri e l’ascoltavano, calamitate. Sì, non c’erano dubbi, la signora X giocava malissimo ma raccontava bene: un rilievo non privo di malizia giacché era sottinteso che raccontava troppo. (Anna Banti, La signorina).

La misura del racconto (la cui importanza viene variamente ribadita nelle introduzioni) è forse l’indicazione didattica più forte: misura quasi etica, assai lontana dalla consegna di un numero massimo di righe, invocata oggi (nelle scuole, ma non solo) come garanzia di efficacia ed essenzialità.

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