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Le telecamere a scuola e mio zio

 

 I pranzi con mio zio

Quando ero bambino, per le feste comandate, pranzavamo tutti a casa di mia nonna. La tavolata era grande, a capotavola da perfetta sarda sedeva lei, a fianco mio nonno, a seguire i miei e poi gli zii e le zie, infondo noi bambini, a fare casino e annoiarci con la speranza di uscire fuori prima possibile. In realtà, quando arrivava il momento, io uscivo sempre per ultimo e a volte non uscivo proprio, per un motivo semplice: non volevo perdermi lo spettacolo postprandiale di mio zio.

Complice l’agnello arrosto, sicuramente il vino e il fomento del palco familiare, dopo il dolce mio zio iniziava a disquisire con il suo vocione sull’universo mondo: politica («tutti ladri, e ora ti dico perché, per questo, questo e quest’altro motivo»), fatti di cronaca («tocca ammazzalli tutti, e ora ti dico perché, per questo, questo e quest’altro motivo»), fatti del paese («il sindaco non capisce una sega, e ora ti dico perché, per questo, questo e quest’altro motivo»), parrocchia («il prete c’ha l’amica e il conto grosso in banca, e ora ti dico perché, per questo, questo e quest’altro motivo») etc etc.

Il tutto andava avanti almeno un paio d’ore, con una decimazione inesorabile dei commensali ammutoliti a ogni tentativo di replica, tutti tranne mio padre che teneva botta, e alla fine restava l’unico seduto al tavolo, per andare avanti nel duello. O meglio, mio padre e io bambino, che pur in silenzio restavo seduto all’angolo a bearmi delle sentenze di mio zio, perché mi sembravano semplici e inattaccabili, perché mi sembravano matematiche, perché mi sembravano giuste, perché mi sembravano potenti e a prova di chiunque: «uno più uno fa due, come darti torto zio e che pastefrolle tutti gli altri, sono loro che non capiscono, e poi mica lo reggono il tuo vocione e la tua verità!».

 Quando poi sono diventato adolescente e fino a quando è vissuta, i pranzi da mia nonna sono continuati, come sono continuate le grandi comparsate di mio zio. Al posto di mio padre però a un certo punto mi sono messo io e ho iniziato a discutere allo sfinimento con lui, per il semplice motivo che crescendo le sue adamantine e geometriche verità mi sono sembrate essere sempre più fallaci, semplificatorie, distorte, perché: «uno più uno fa due, dipende zio, e il punto non è la pastafrolla o quanto battere i pugni sul tavolo, ma forse che al di là del vocione potrebbe essere stupida se non pericolosa la tua verità».

Le telecamere a scuola

Quando ieri sera ho letto della definitiva approvazione dell’utilizzo delle telecamere a scuola, a partire dalle scuole per l’infanzia ma con l’annunciato proposito di coprire a breve tutti gli ordini scolastici, mi è venuto subito in mente il mio comunque amato zio.

Nell’ipotetico pranzo (che purtroppo non esiste più) dopo il dolce, dopo la politica, i fatti di cronaca, i fatti del paese, la parrocchia, probabilmente mio zio avrebbe tirato fuori l’argomento. Di certo avrebbe tirato fuori anche lo smartphone (conoscendolo non avrebbe mancato l’upgrade tecnologico) e su Youtube mi avrebbe mostrato qualche video di maestre criminali che picchiano bimbi indifesi e poi mi avrebbe inchiodato al suo: «è così, guarda che roba, certo che fanno bene, che altro vorresti ribattere tu che vuoi fare il progressista di sto’ cavolo. La pacchia è finita eh».

Va detto che a rinforzare la fantasia di ieri sera sulla rediviva cena parentale, portavo nell’animo un recentissimo scambio con una collega, che per altro stimo, la quale alla mia sottolineatura sul micidiale portato culturale e politico delle eventuali telecamere in classe, aveva derubricato il tutto con una frase degna di mio zio: «io non ho nulla da nascondere, mettessero tutte le telecamere che vogliono, sono una brava insegnante, io».

Oltre il dopopranzo

Ecco, il problema mi pare proprio questo: oggi la logica egemone è quella di mio zio.

Perché io a mio zio, alla fine dell’immaginato pranzo avrei pure potuto provare a farglielo un discorso di questo tipo: «ma non lo capisci zio che mettere le telecamere a scuola significa non solo mettere sotto stato di polizia il luogo dove si costruisce il senso stesso di domani, che significa violentare un patto educativo sacrale e delicato, che affida all’istituzione scolastica la formazione dei nostri figli proprio perché è solo nella fiducia reciproca e solo in questa che attecchisce la possibilità di educare? Ma non lo capisci che mettere le telecamere a scuola significa aprire una falla all’insegna della “scuola e gli insegnanti che non sono degni”, per cui oggi controllerò i tuoi criminali scapaccioni, ma domani, perché no, il tuo agire, il tuo dire, il tuo valutare? Che significa alimentare quella confusione esiziale tra ciò spetta o non spetta a scuola, famiglie, società? Ma non lo capisci che mettere le telecamere a scuola implica il delegittimare quello che resta un presidio vitale di libertà per un Paese democratico, ovvero il luogo dove si cura e si libera il futuro? Che insinuare il fallimento di una classe docente formata dallo Stato e dalle sue strutture apra al dimostrare che altre agenzie, ma soprattutto altre logiche siano necessarie, magari quelle determinate dalle esigenze e dagli imperativi del mercato?».

Ma so che mio zio non mi capirebbe (come non ha capito la mia collega), che batterebbe i pugni sul tavolo, che nemmeno varrebbe il rivendicare il mio essere insegnante ma anche padre di figli che la scuola ha cresciuto e che io ho accompagnato fin dall’asilo nido e per i quali ho sentito tutto il privilegio di potere affidare quella fetta di educazione che è e solo deve essere della scuola, proprio a partire da quel lasciarmi del tutto fuori dalla porta della classe.

Sì, so che mio zio non mi capirebbe, che oggi in tanti non mi capirebbero, come mi pare sembra a volte non voglia capire questo Paese, questo tempo, ogni volta che su temi che travolgono il nostro presente si ignora la necessità imprescindibile della visione complessa e del guardare più in là della pancia e ci si accomoda, come alla fine di un pranzo troppo abbondante, nella sonnolenza ferina dell’ «ora ti dico perché, per questo, questo e quest’altro motivo».

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