Il mestiere del traduttore /2 – Stefano Valenti
Tradurre Germinale
Se scrivere è riscrivere, se tradurre è riscrivere, allora tradurre è scrivere.
Non ho mai creduto che il traduttore possa essere definito autore dal momento che manca dell’identificazione totale con quanto scrive. Ma credo che tradurre sia per l’autore una palestra definitiva. Per quanto mi riguarda, prima di iniziarmi alla traduzione, all’età di trentanove anni, non avevo mai scritto niente, niente di narrativo per intenderci, perché mai niente, niente di narrativo, è richiesto a uno studente nel sistema scolastico italiano.
E mi sia consentito un rapido fuori tema; curioso, o forse non lo è, che la prima voce del racconto autocelebrante il sistema del capitale, lo storytelling, sia la narrativa, una disciplina tanto ignorata dalla didattica, tanto fraintesa, i cui meccanismi restano sconosciuti ai più che la subiscono.
Ma torniamo a noi, a me e alla traduzione. Il momento apicale della mia attività traduttiva è arrivato trascorsi anni di riscrittura narrativa di genere, e di saggistica politica, e si è manifestato nella reinterpretazione di una serie di testi dal forte impatto sociale e civile, prima fra tutte la ritraduzione per i Classici Feltrinelli de Germinale di Emile Zola (ndr E, Zola, Germinale, tradotto da S. Valenti, Milano, Feltrinelli, 2013).
Mi chiedo che ne sarebbe stato della mia attività narrativa se non avessi dovuto tradurre quei testi della migliore produzione civile europea e americana, che cosa ne sarebbe stato de La fabbrica del panico, di Rosso nella notte bianca, se non avessi tradotto Germinale.
Il romanzo, il tredicesimo del Ciclo de I Rougon-Macquart (1871-1893), pubblicato come feuilleton tra il novembre 1884 e il febbraio 1885, e poi come romanzo nel marzo dello stesso anno, descrive la dura vita dei minatori della seconda rivoluzione industriale nella zona mineraria del nord della Francia, oltre che l’organizzazione politica e sindacale della classe operaia.
Nel 1884, per scrivere il romanzo, Zola visita la miniera della compagnia mineraria di Anzin, la più importante dell’epoca, e ricostruisce nel personaggio di Lantier il sindacalista Emile Basly.
Prima di ogni altra cosa Germinale è un romanzo sociale. Zola stesso dice Il vero socialista è colui che nomina la miseria, colui che mostra il tuffo nell’orrore della fame, perché è da là dentro che dobbiamo tirare fuori il popolo, dall’ignoranza, dal fango. È da lì che dobbiamo cominciare.
Dobbiamo cominciare dalle terribili condizioni del lavoro in miniera. Il lavoro dei bambini che, nella seconda metà dell’Ottocento, aveva inizio a otto anni.
Ma non basta, dice Zola, perché la miseria è fin dentro ai rapporti umani, dove tutti sfruttano tutti. Nei rapporti di coppia, nel matrimonio, nei rapporti economici. Nella sessualità violenta, vissuta come modalità priva di romanticismo e dolcezza.
In Germinale l’autore evoca in tutto il suo orrore la profondità della fame. Il nutrimento che possono trarre i minatori è ridotto al minimo necessario, alla sopravvivenza. Si alimentano di pane, di qualche legume nella minestra. E di carne non ne mangiano mai. L’urlo Pane è la principale rivendicazione dei minatori.
Nelle case dei borghesi, invece, il cibo è variegato. Hanno il denaro per potersi pagare pesce, carne, frutta e vino. E a volontà. È il cibo ad accentuare le differenze tra borghesi e minatori, tra ricchi e poveri.
Il popolo in basso, dice Zola, nell’ignoranza e nel fango. I borghesi ben pasciuti in case riscaldate.
Ma Germinale, ambientato negli anni intorno al 1865, è anche un romanzo politico, nel quale una borghesia corrotta e indifferente dirige l’economia con la benedizione di un clero reazionario. Una borghesia che è nuova nobiltà di regime, padrona che riconosce il monarca e ne favorisce il culto.
La miseria, la violenza, la fame, l’ignoranza, le miserabili condizioni di vita, la condizione femminile. In Germinale ritroviamo il presente dell’infinita crisi del capitale, ritroviamo la lotta del capitale e del lavoro. Ma ritroviamo al contempo il metodo dell’autore, il progetto narrativo, la ricerca testuale, le regole del romanzo.
Nel tradurre Germinale ho imparato a scrivere narrativa. La traduzione, la più approfondita modalità di analisi e comprensione del testo, è diventata il mio laboratorio di scrittura, ed Emile Zola il mio educatore. Ne ho imitato il passo, la voce, ne ho fatto calchi da personalizzare.
Le regole della buona narrativa le apprendo copiando Zola, riproponendolo, facendolo mio. L’ossessione per la ricerca sinonimica, la cultura dell’identità del personaggio, la costruzione del progetto attraverso un’ampia raccolta bibliografica, sono tutte tappe di un cammino di apprendimento nel cominciare a scrivere La fabbrica del panico. Niente è lasciato al caso, niente è improvvisato, come Zola coi minatori, trascorro il mio tempo con gli operai della Breda ammalati di mesotelioma, ne assumo le necessità, costruisco la figura narrativa di mio padre dentro la vasta cultura del progetto di Zola, dentro il metodo di Zola.
Che cosa riassumere della traduzione, se non la profonda influenza culturale che esercita sul mondo della narrativa, se non l’educativa fatica dell’esercitazione, se non il dovizioso paradigma della riproposizione del testo, se non, per quanto mi riguarda, l’apprendimento degli stilemi del racconto. Quando mi chiedono quale sia la migliore preparazione all’attività di narratore, di autore narrativo, rispondo con convinzione l’analisi compulsiva dei romanzi e, quindi, la traduzione, la ricerca dei modelli della forma.
La traduzione di Germinale ha richiesto due anni, due anni di studio del metodo narrativo, due anni che, oggi posso dirlo senza timore di essere smentito, hanno rappresentato il mio viatico al mondo del racconto narrativo, un master in scrittura, col più grande dei docenti; nella grande parafrasi della vita che è tradure ho appreso a diventare uomo. Quando ho terminato la traduzione ho pianto. È stato un pianto liberatore che raccontava un percorso di maturazione. Ero infine diventato autore.
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