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diretto da Romano Luperini

donati paesaggio infanzia

Il «contado interiore» di Alba Donati. Tu, paesaggio dell’infanzia. Tutte le poesie 1997-2018 (2)

Alba Donati ha vinto la venticinquesima edizione del Premio Metauro, presieduto da Umberto Piersanti, con il libro Tu, paesaggio dell’infanzia, che il nostro redattore Daniele Lo Vetere aveva recensito poche settimane fa. Ripubblichiamo la sua recensione. Ecco la motivazione del premio: “La poesia di Alba Donati, con un linguaggio epico, tra vincoli contadini e ripari tutt’altro che idilliaci, racconta la durezza del mondo”.

 

Che cos’è il «contado interiore» di cui parla Alba Donati in una delle sue poesie?

Le prime parole che leggiamo nel suo libro d’esordio (La Repubblica contadina, 1997), sono un exergo eliotiano: «E non la vita di un uomo / soltanto», che ha il proprio doppio nella «vita immensa di ognuno» della poetessa (L’azzurro di Osip, in RC). 

Fin dall’inizio la Donati, pur senza perdere nulla della forza individuale, ha dato in pegno la propria voce a chiunque potesse garantirle la possibilità di trascenderla, facendola diventare coro e comunità, o eco di voci passate e incubazione materna di quelle future. 

Le qualità primarie del poeta sono innanzitutto silenzio, disponibilità all’ascolto, francescano pauperismo intellettuale:

Devo lo scrivere alle poche

cose avute in dono dalla sorte

una povertà possidente

di boschi d’ottobre e brina

di dicembre, di rose di maggio

e soffitte arredate di ragni

e vecchi cappotti.

Devo tutto al niente, al caso

come è giusto che sia

(Scrivere quattro, in Tu, paesaggio dell’infanzia, l’ultima raccolta, finora inedita);

 

Devo tutte le mie poesie

ad altre poesie

al vuoto che ha fatto in me

la parola di qualcun altro 

(Scrivere, in TPI);

 

Per arrivare qui dovete lasciare,

sì lasciare, ogni avere, che sia

oscura miseria ogni parola, tralasciate 

domande mal fatte, se volete arrivare

al posto dove maggio impazzisce

e le sere hanno donne alle finestre

se volete che ogni canto sia allegrezza

e scusa al mondo, in padre madre e parenti tutti

(Ballata della Repubblica Contadina, in RC).

Questa apertura a tutto ciò che sta al di là della propria povera-ricca misura personale si manifesta innanzitutto in un sentimento del tempo che è grande, collettivo, secolare, e insieme minimo, intimo, personale, e che si divide tra naturale continuità intergenerazionale e interruzioni drammatiche. La vita, in sé, sarebbe «cosa semplice / come una data festiva scivolata / dal conteggio dei giorni» (Mammina nostra di terra, in RC), ma la storia non è la natura, bensì quello strano mistero fatto di evoluzioni, involuzioni e discontinuità, di tragedie collettive e private, in cui la Storia e la storia di ciascuno raramente trovano un’armonia. Così della morte del padre si può dire, illogicamente rispetto alla misura del tempo del singolo ma con logica poetica conseguente, che «ci torturerà per secoli» (È caduto come un fiocco di neve, in RC: corsivo mio) e si può cantare una madre «derubata da guerre e libertà di costumi, madre tramonto di civiltà» (L’azzurro di Osip, in RC), che ha in sorte un’esistenza in bilico tra vita in tempo di guerra e vita in tempo di pace, tra storia e post-storia.

Alba Donati non ama le astratte distinzioni concettuali: sembra non prendere troppo sul serio quella che forse è davvero l’ossessione di tutta la modernità, la distinzione tra io e non-io, l’ossessione di tracciare confini intellettualmente chiari tra soggettivo, da un lato, e oggettivo (o intersoggettivo) dall’altro. Persino la distinzione – per noi moderni fondante – tra religioso e mondano, laico e religioso, viene meno. In un’altra poesia il tempo è quello rituale della messa domenicale, anzi, più precisamente, «quel tempo / che dopo la comunione si fa domestico», nel silenzio della mattina fuori dalla chiesa, nei gesti del prete che ripone pissidi e lini e lava le mani: una ritualità che si manifesta ai margini sacro, che ne possiede ancora la qualità di festiva sospensione, ma che può essere naturalmente sovrapposto al tempo laico in cui dopo l’amore ci si riveste, si ricompone il letto e ci si predispone «a un saluto sereno» (Del rito sacrale mi incanta quel tempo, in Non in mio nome, 2004).

La repubblica contadina

Scrive la madre:

Si dice che ogni vita migliora quella precedente

ma anche la ripete nella sua parte più disperata

chi viene dopo è più sofferente, e, credimi, Alba

una vita non è sufficiente per capire qualcosa

ma due sono necessarie per vedere almeno un sorriso

lampeggiare in fondo agli occhi, schiarire un poco la mia vita

(Lettera a mia figlia, in RC). 

Alba Donati non erige filosofie della storia unitarie, non cerca significati intellettuali univoci e chiusi: misura sempre ogni riflessione non su una astratta “condizione umana”, ma su questa o quella vicenda, così che la ripetizione tragica del destino e la tensione verso il meglio – due concettualizzazioni della storia logicamente fra loro contraddittorie (ah, i difettivi sillogismi…) – possono coesistere come in questi ultimi versi e come, di solito, capita nella vita di ognuno. Se a noi moderni non è dato credere a quella che Aristotele chiamava “entelechia”, lo stato perfetto, il fine, cui ciascun ente tende nel proprio sviluppo, una sua minima traccia è ancora rinvenibile in questo sorriso che lampeggia al fondo dello sforzo spesso fallimentare di migliorarsi di generazione in generazione: quella che il caustico e nichilista Montale avrebbe forse definito «traccia madreperlacea di lumaca» qui diventa testimone invisibile e appena percettibile del senso che l’essere almeno in due, madre e figlia, garantisce. I nomi dei propri cari, si dice in un’altra poesia, sono un puntello nel buio (Risveglio, in TPI).

Nella sua prima raccolta Alba Donati disegnava l’utopia di una “repubblica contadina” nella sua piccola comunità di Lucignana, sulle Apuane; ma, poi, in tutte le raccolte successive, ha continuato a parlarci da interni domestici o da finestre aperte, la mattina, sulla natura che rinasce ogni giorno nel ramo davanti a casa, per una gioia assoluta e puntuale, duratura e istantanea: «tutto tutto conferma che sia possibile rimanere / felici a lungo, almeno a lungo ogni mattina» (Aprire la finestrella, in TPI).

Il «contado interiore» è perciò tante cose: è la vita minuziosamente amata di uno di quei mille, minuscoli, campanili italiani che continuano imperterriti ad esistere nonostante la storia si faccia nelle città («Di qui alla città passa un’epoca. / Si parla da un millennio a un altro millennio»: Gap, in IC); è anagrafe reale e pascoliano nido (la poetessa, si precisa nella nota biografica, «vive tra Firenze e Lucignana»); è, soprattutto, quel luogo fisico e mentale in cui, a partire dal Prelude wordsworthiano, narrazione e ricordo, infanzia e età adulta, storia personale e mitopoiesi coincidono senza essere mai analiticamente discriminabili.

Io, noi

Dicevo della disponibilità di Alba Donati a cedere la propria voce. Il suo non è mai ventriloquismo mimetico o dialogismo prosastico, bensì una commossa attitudine in cui la distinzione tra parole proprie e altrui, o tra le parole dei vivi e dei morti, si sfa dolcemente in una comune modulazione. Il confine tra io e noi è sempre sfumato, i ruoli e il tempo sono reversibili e collettivi: «ma avremo corpi di ossa levigate per camminare / nei secoli e avanzare nel bene comune» (Ci incontrammo nella calma, in Non in mio nome, 2004), dice Valerio, il fratello del padre mai conosciuto, perché morto investito da una piena causata dalla distruzione di una diga da parte dei tedeschi pochi giorni dopo la Liberazione. Valerio è un antenato, ma ha eternamente 11 anni, così è possibile prendersene cura come se fosse un bambino:

Valerio dammi tempo, ti liscerò i capelli

volterò i tuoi occhi verso il cielo

laverò i tuoi piedi nell’acqua più fresca 

(Di colpo le cose erano sparite, in NMN). 

D’altra parte la sua condizione di essere nominabile (e ricreabile) per via linguistica può spingere a supporre che, «stufo dei suoi anni», possa crescere fino ad averne trenta (Il ponte, in RC). Ancora: la voce/memoria di Valerio può mescolarsi fino a sovrapporre le proprie tracce subacquee a quelle di Giulia, una ragazza morta durante un alluvione nel 1996 in Alta Versilia («Ho impiegato così tanto / a conoscerti, per vedere con i tuoi occhi / e per parlare con la tua voce»: Lo sai Valerio, sarà perché qui, in NMN) o può essere invocata/convocata a testimone in un’altra poesia dedicata agli esperimenti sui bambini nei campi di concentramento nazisti.

Questa trasfigurabilità poetica, fondata sulla fede certa nella contiguità se non addirittura continuità di ogni aspetto della realtà, non è solo ipotesi letteraria, gioco simbolico. Certo, anche l’arte ne è parte, ma solo a patto di non dare troppa importanza alla reciproca esclusione tra vita e letteratura che è tema di tanto Novecento. La letteratura (persino quella letteratura al quadrato che è la critica) è in fondo e prima di tutto esperienza intima di lettura («prima di conoscerti ti conoscevo / come succede in casa, tra le pareti domestiche, con le figlie e le madri»: Per Enzo Siciliano. 2, in IC). Il monumentale Petrarca, padre di ogni tentazione di autosufficienza della parola poetica, può essere spiegato alla figlia Laura Rosa in cucina, con un cagnolino ai piedi del letto che sovraintende all’idillio (Scic moni. Laura, Petrarca e un cagnolino, in IC); d’altra parte quell’omonimia della figlia con l’archetipo letterario di ogni donna in poesia non è casuale, ma frutto di un’intuizione ovvero reminiscenza  platonica che ha colto la madre in una passeggiata sotto i platani: «tu – piccola celluletta, idea, sostanza / forgiata in quelle stanze primitive / tutta nuova e scintillante» (Camminavo sotto i platani, in TPI).

In effetti, nella filiazione di madre in figlia i ruoli si confondono, perché ciascuna madre è, è stata, sarà anche figlia (figlia madre figlia madre figlia in NMN) e perché la madre è eterna origine:

nascerò in aprile e sarò gloria di lei e gloria delle madri delle madri

che indietro, nel pulviscolo del tempo, intoneranno un canto millenario

(Per Angela, in NMN).

Il Male

L’idillio con cagnolino e il contado interiore di Alba Donati sono però un rifugio molto parziale dal male, di volta in volta concretizzato nello sterminio nazista, nel vuoto o nulla che si apre ogni notte nell’esistenza di ognuno, nel massacro di bambini di Beslan (cui è dedicato un intero poemetto, a conclusione e palinodia proprio di Idillio con cagnolino). Se Adorno ha parlato di impossibilità della poesia novecentesca dopo Auschwitz – conseguenza logica in effetti inoppugnabile se si asseconda la dialettica di questo filosofo acuminato che punta a murarsi vivo dentro il pensiero con le proprie mani – Donati solleva le proprie fragili e creaturali obiezioni, un po’ ovunque nelle sue poesie, ma tematicamente nella sezione Il lupo antiadorniano di Idillio con cagnolino

Il male è il lupo cattivo sempre vinto nelle favole della figlia, che è umano tramite grazie cui la poetessa spera di poter salvaguardare qualche traccia di bene. Ma la malvagità di Lupo Ezechiele si connette, vertiginosamente, al male come negazione dell’Essere di Sant’Agostino:

Il lupo soffia una volta, due volte,

tre volte – ma inutilmente! – dici tu

come se sapessi cosa significa quel resto

di nulla che è ogni gesto violento

di ogni essere umano che soffia

contro un altro essere umano 

(Il lupo, in IC). 

Tuttavia «questa strategia, pur nella sua validità magica, denuncia la sua fallacia» (Chiara Fenoglio, in «Paragone», agosto-dicembre 2015): è un atto di fede, una naturale felicità perduta e che si può sbirciare e preservare solo nell’altrui infanzia o nella memoria della propria, è un gesto apotropaico che spera di difendere un piccolo cerchio d’ordine e di affetti mentre il nulla intorno divora tutte le cose:

Sento che mi sfugge il sentimento delle cose

mentre tutto muove un mancamento.

Allora prendo con le mani il lenzuolo

e traccio una linea intorno al nostro letto:

questo è il confine! Faccio ordine, notte! 

(Lucignana, in IC).

Il male della Donati è «né radicale né ontologico, ma bestiale nell’accezione aristotelica e dantesca» (Giorgio Ficara, nella Postfazione al volume), perché è cancellazione di quella facoltà umana che è la capacità di distinguere, ovvero di dare valore e senso alle cose: parifica e rade al suolo come il terremoto, per il quale «tutto è equivalente. / Se sia una bambola, un bambino / o un cane non fa differenza» (non si tratta di un terremoto qualsiasi, ma di quello in Abruzzo: la poesia di Alba Donati è sempre particolare, mai generale, si nutre di fatti e contingenze). Sempre sotto questo rispetto andranno lette le polemiche qua e là affioranti contro la televisione e la totalitaria connessione virtuale dei nostri giorni: il nostro rifiuto di accettare zone d’ombra e di discontinuità nel rapporto con l’esperienza produce una continuità malata che, lungi dal garantirci un di più di verità o intensità, ci disconnette dalla naturale continuità del senso delle cose. 

Felicità leggermente in vantaggio

Ma la grazia perfetta della poesia di Alba Donati è in questo: nonostante la quantità di male che non intende allontanare dal proprio sguardo, nonostante la nostalgia di un piccolo mondo antico, non è né nichilistica né regressiva. La salva una profonda, meravigliosa, prossimità al mondo così come è sempre stato e così come è oggi – perfettamente contemporaneo –, prossimità che suggerisce a ogni lettore una formula semplice e antica: parlare e agire ogni giorno, con misura, senza strappi, per una sorta di garbato stoicismo senza la fanfara dell’eroismo: «serena felicità / la forza contenuta / la calma attenzione. / La presenza diramata come foglia» (Prima quando non c’eri, in TPI). Dobbiamo difendere, infatti, una felicità sempre «leggermente in vantaggio» sulla paura (Ora paura/ora felicità, in TPI), una felicità, come si dice in una poesia dedicata – guarda un po’ – a un videogioco, «che procedeva alla grande / dal nulla, come deve essere» (Nintendo, in IC).

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