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diretto da Romano Luperini

Monica Galfre Tutti a scuola

Parlare di scuola /2. Su Tutti a scuola! di Monica Galfré

 

 Continuità e discontinuità storiche 

In uno smilzo e affascinante libretto del 2014 Jacques Le Goff si domandava se avesse senso dividere la storia in epoche e, ricostruendo l’origine della nostra necessità di periodizzare, suggeriva che questa non fosse un a priori della conoscenza storica (Faut-il vraiment découper l’histoire en tranches?, Seuil; ma l’edizione italiana invertiva l’ordine dei fattori: Il tempo continuo della storia, Laterza).

Il libro di Monica Galfré, Tutti a scuola! L’istruzione nell’Italia del Novecento (Carocci, 2018) è diviso in due parti: A ciascuno la sua scuola, che abbraccia la storia della scuola dall’Italia giolittiana fino alla caduta del fascismo; La scuola di tutti, che affronta i decenni repubblicani fino agli anni Ottanta-Novanta. Tuttavia questa classica periodizzazione, che ha come data discriminante il 1945, è contraddetta nella sostanza. Almeno per tutti gli anni Cinquanta è ancora forte la continuità con la scuola fascista, sia per l’impianto generale – le funzioni che alla scuola erano attribuite, le prassi quotidiane, i valori degli insegnanti –, sia per la manualistica, che fu solo superficialmente defascistizzata, anche per lo strapotere editoriale delle case editrici che avevano prosperato durante il Ventennio: su tutte la quasi monopolistica Mondadori. Così è solo a partire dagli anni Sessanta e dalla data tutt’altro che esclusivamente simbolica del Sessantotto che «si passerà da una scuola modellata sulle gerarchie e sulle divisioni sociali a un’idea di istruzione concepita come veicolo di democratizzazione, progressivamente sempre più uguale per tutti» (p. 180). Questo, fra le altre cose, grazie alla «fine  dell’organicità politica, sociale e culturale dei professori con il potere e della loro omogeneità culturale e sociale con gli studenti» (p. 233); grazie all’introduzione della scuola media unica (1962), la quale, benché non vada letta con trionfalismo, «trasforma il sistema scolastico italiano in uno dei più aperti d’Europa» (p. 202); infine grazie all’avocazione allo Stato della scuola materna (1968), che è una prima inversione della tradizionale tendenza a prestare più attenzione al segmento delle scuole superiori e a delegare l’istruzione agli enti locali, anche in termini di oneri finanziari.

Galfré valorizza soprattutto continuità e lunga durata, a riequilibrare ogni discontinuità troppo semplicistica: le sue pagine sono percorse da un filo rosso di tenace fiducia nei confronti della scuola italiana, contro la tendenza diffusa a cercare nel passato un punto di inizio di una qualche “decadenza”. All’imperfetto ma  effettivo e invisibile lavoro della scuola italiana dobbiamo più di quanto la nostra abitudine a preferire il meglio al bene non sia capace di ammettere.

Costanti

La storia della nostra scuola è caratterizzata dalla costanza di alcuni dati di fatto e di alcune interpretazioni fortunate, che tendono a stingere nel luogo comune. Tra i dati di fatto: il persistente sottofinanziamento (che però non significa disinteresse perenne: ci sono state fasi in controtendenza, senza però che questo fattore strutturale sia mai stato intaccato); l’indecisione tra intervento dello Stato e autonomie locali, che per lungo tempo ha spinto a delegare l’onere dell’istruzione a Province e Comuni, e negli ultimi anni in particolare è servito a giustificare un «alleggerimento di un bilancio sempre più insostenibile, sottoposto infatti a continui ridimensionamenti, se per i tagli effettuati dal ministro Mariastella Gelmini si è parlato di minimi storici» (pp. 316-317); il fenomeno del precariato (in un momento di improvvisa espansione del corpo docente dovuto alla riforma della scuola media unica, il rapporto tra docenti di ruolo e docenti precari fu di 35 a 65); l’indecisione nella ripartizione delle competenze sulla formazione professionale tra enti locali, ministero della Pubblica istruzione e ministero del Lavoro.

Per quanto riguarda le interpretazioni di lungo corso, sono interessantissime le pagine che Galfré dedica alla scuola fascista. Nel periodo tra le due guerre, un momento «decisivo per le dinamiche della scolarità» (p. 25), laddove altri paesi europei vivevano l’esperienza di regimi democratici, l’Italia conosceva una «modernizzazione autoritaria» che ha lasciato una duratura impronta sulla nostra scuola. È stato poi necessario alla retorica repubblicana postbellica sottolineare la sanità di ampi settori della società: da qui, l’idea che la scuola fosse rimasta sostanzialmente estranea alla fascistizzazione o l’illusione che «la ristrutturazione dell’amministrazione scolastica che Gentile compie nell’ambito della sua riforma» non sarebbe altro che «il guscio autoritario di un disegno culturale sostanzialmente “liberale”» (p. 63). Anche la partecipazione degli insegnanti e dei funzionari della scuola alla persecuzione razziale, spiega l’autrice, è stata sottovalutata. 

La questione della penetrazione del fascismo nella scuola è però difficile da districare. Ad esempio i programmi di Lombardo Radice per la scuola elementare erano pedagogicamente lungimiranti, attenti alla viva capacità di scrittura dei bambini; persino la ben nota politica linguistica repressiva del fascismo era dovuta più alla pressione dei prefetti o dei locali quadri del Pnf che a esplicite indicazioni dei programmi, i quali al contrario mostravano una particolare attenzione alle lingue alloglotte nei territori di confine. Tuttavia i diari della vita di scuola dei bambini risultano pieni degli stereotipi retorici del regime, come il culto della Grande Guerra. Questa stereotipia rende difficile stabilire quanto il fascismo coi suoi valori sia penetrato nella mentalità comune. E mi pare che si tratti di un problema che forse supera persino le possibilità di ricostruzione storica, poiché la sua risoluzione presuppone che sia possibile decidere univocamente quale rapporto si stabilisca nell’animo umano tra libertà e coazione o anche soltanto imitazione sociale. 

Anche l’abuso della «categoria di crisi per il caso italiano, che non conosce soluzioni di continuità […], in un’ottica storica rischia di confondere le acque, invece di favorire la comprensione» (p. 299). La categoria della “crisi”, insieme al paradigma del «paese mancato» (Crainz), rischia come si è detto di avallare una lettura storica sempre concentrata su ciò che è mancato all’Italia, più che su ciò che è stato fatto. La scuola italiana è sempre stata al centro di una distorsione percettiva: «la tendenza a scaricare [su di essa] le colpe delle crisi più drammatiche dell’Italia unita, o almeno di processi ben altrimenti complessi, che nella situazione scolastica hanno solo una delle loro manifestazioni», pretesa che «non è d’altra parte proporzionale [al]l’importanza che le è stata realmente riconosciuta, soprattutto in termini di risorse», (pp. 14-15). 

Corsi e ricorsi storici 

A partire dagli anni Novanta, “autonomia” è diventata una parola mantra:

La buona dose d’ingenuità con cui molti attribuiscono una sorta di potere taumaturgico all’autonomia – una parola allora usata più per le emozioni che suscita che per i fatti che esprime – tradisce la scarsa consapevolezza degli effetti cui essa può dar luogo in un paese disomogeneo come l’Italia, dove il richiamo al territorio può trasformarsi in ricatto e dove l’imperativo del contenimento della spesa continua a penalizzare l’istruzione» (p. 316). 

È stupefacente constatare come molti degli auspici della legge Bassanini sull’autonomia (1997) di fatto riecheggino parole d’ordine che possiamo trovare già nella riforma Gentile. Ecco allora che l’autonomia presentata come naturale destino di una certa fase storica appare per quello che è: soltanto uno dei termini di una perenne e complessa dialettica tra Stato, società e scuola, che è stato ideologicamente assolutizzato negli ultimi decenni.

Specificità del caso italiano è poi che l’autonomia scolastica (come anche la “libertà di insegnamento”) siano stati durante tutta la Prima repubblica un cavallo di battaglia cattolico, da usare in senso antistatalista, ovvero antifascista e anticomunista. La “libertà della scuola e nella scuola” ha perciò avuto ed ha ancora oggi un significato plurimo: valorizzazione della società civile contro le ingerenze dello Stato, sostegno statale all’iniziativa cattolica, apertura al privato, dialettica tra centralizzazione statale e principio della sussidiarietà …

Sempre alla riforma Gentile dobbiamo risalire per scoprire un precedente singolarmente simile alla “razionalizzazione” imposta dalle riforme degli ultimi decenni, che hanno, un passo alla volta, portato alla creazione di istituti comprensivi e di istruzione superiore e minacciato la chiusura o definanziato scuole di montagna e di piccoli centri, in nome di una efficienza del “grande” contro il “piccolo” che evidentemente cozza con la stessa storia e geografia italiane, da sempre legate ai centri urbani piccoli e medi. Già sotto il fascismo, la volontà efficientista e meritocratica ante litteram di chiudere le scuole “a scarso rendimento” si tradusse nella oggettiva penalizzazione di regioni già svantaggiate, che allora significava a economia quasi esclusivamente agricola. Se nella Val d’Elsa fiorentina e senese la presenza di un urbanesimo diffuso garantì la preservazione della rete di scuole locali, in regioni come la val d’Aosta o la Basilicata la riforma si tradusse addirittura in un arretramento dei tassi di scolarizzazione: eterogenesi dei fini in effetti assai prevedibile delle politiche “di efficienza”. 

La “qualità” dell’istruzione

Nel 1985 il documento A Nation at Risk inaugura una nuova fase della storia della scuola mondiale: constatando l’apparente fallimento del sistema educativo americano, per l’incapacità di mantenere le promesse di una progressiva espansione delle possibilità inclusive e di mobilità sociale, quel documento sancisce le «dimissioni dello Stato» (Bourdieu) e l’estesa avanzata delle politiche neoliberali. Le ricerche internazionali sulla “qualità” dell’istruzione e l’ossessione per le classifiche tra sistemi scolastici diventano un fattore centrale del discorso pubblico sulla scuola, nell’illusione che una presunta “obiettività” statistica sia in grado di additare meriti e demeriti dei sistemi scolastici: nel 1985 la scuola elementare italiana risulta al vertice della classifica dell’Educational Testing Service insieme a Taiwan, cristallizzando nella percezione comune una narrazione che dura tuttora e che andrebbe sottoposta a seria riconsiderazione, come la speculare narrazione dell’Italia che si ritrova sempre e comunque “sotto la media europea”.

Che cosa c’è di nuovo nella crisi degli anni Ottanta, al punto di divenire una chiave di lettura imprescindibile? Senz’altro il dato nuovo è che la dichiarazione di crisi appare chiaramente funzionale a screditare il sistema vigente e, dopo averne decretato il fallimento a legittimare le ipotesi di riforma in nome del principio ‘meno Stato, più mercato’. Rispetto a quanto avviene negli USA, da cui prende le mosse l’esigenza di misurare il rendimento sulla base di parametri che si vogliono oggettivi o almeno condivisi, la situazione sembra rovesciata: qui non è la crisi che genera le ipotesi di riforma, ma sono le ipotesi di riforma che ‘inventano’ la crisi, almeno nei termini in cui è presentata. I segnali di sofferenza sono innegabili, ma molto dipende dai criteri di rilevazione e interpretazione, che non sono mai neutri (p. 299).

La ricerca di un sistema “di qualità”, che maschera sotto la connotazione ideologica positiva il fatto che tale qualità non è un indicatore neutro, ma è costruita dagli strumenti stessi che intenderebbero rilevarla, non fa i conti con l’impossibilità di astrarre i sistemi scolastici dai contesti nazionali nei quali sono posti. In effetti, anche il mito della scuola come luogo separato dalla società e dalle sue contraddizioni è duro a morire, sia che tale separatezza sia intesa come idealistica superiorità, sia che essa sia fondata sulla pretesa che sia possibile avere una scuola di qualità e inclusiva in una società che non lo è. Anche su questi problemi più che mai attuali, la lettura del libro di Galfré fornisce una enorme quantità di informazioni e meditate considerazioni.

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