
Mi hanno chiesto la parola
A inizio maggio entro di lunedì mattina nella mia quinta meccatronica, tutta maschile, tutta tornio biella pistone, tutta sogni di ferro Alfa Romeo Giulia e Golf GTI. Entro e come ogni anno in questo periodo, dopo sgobbate più o meno subite tra Pirandello, Ungaretti, Svevo, mi si para davanti come una sberla la parete verticale di Montale. La settimana precedente ho già iniziato ad attrezzare l’improba scalata: vi racconto la vita, di Arletta-Mosca-Clizia-Volpe («ma come ha fatto professò, questo è brutto come na’ disgrazia»), il Nobel («chi l’aveva vinto l’anno scorso professò?», «Ishi… Dylan, due anni fa l’ha vinto Bob Dylan», «Ah. E chi è Bobbedilàn? Mai sentito», «Non ci credo», «Mai», «Nessuno di voi?». Nessuno). Vita, donne, Nobel, per ritardare un po’ la musata al varco dei testi: le parole, le formule, le sillabe storte. Quelle che noi imparammo a non chiedere più, ma che la mia quinta meccatronica (tutta maschile, tutta tornio biella pistone, tutta sogni di ferro Alfa Romeo Giulia e Golf GTI) mi chiederà, eccome se me le chiederà, anzi pretenderà di fargliele capire («e se poi ce esce all’Esame professò?»), il tutto non appena avrò intimato loro: «aprite il libro di Letteratura a pagina 360».
Così, al buio
Fino a un istante prima di entrare in classe sono indeciso se fare un’introduzione generale a Ossi di seppia, dare qualche cenno di poetica e limitare i danni iniziali con un Meriggiare pallido e assorto di mestiere: potrei registrare le reazioni (nel caso, improbabile, ce ne siano) e poi programmare qualche altra lezione con i testi canonici, infondo negli anni passati mi sono sempre mosso più o meno in questo modo, con risultati accettabili. Ma sono stanco, sento tutto il peso di un anno faticoso, intenso, il fiatone di ore battagliate per non cedere un centimetro del posto occupato dalla letteratura nella mia classe. Così, come mi accade quando sento venire meno le forze, decido di accelerare anziché rallentare: «anzi no. Andate a pagina 366. Prendete la poesia I limoni. L’introduzione a Ossi di seppia la faremo la prossima volta. Iniziamo con un testo d’ingresso, così, al buio, per capire quello che ci aspetta». Appena un attimo dopo già mi maledico. L’ultimo segreto, lo sbaglio di Natura, il punto morto del mondo, l’anello che non tiene. Adesso mettili un po’ nel mezzo di una verità se ne sei capace.
Fossi e anguille
Proietto il testo sulla Lim. Prima strofa va via bene. I fossi loro li conoscono, le anguille pure. E poi i poeti laureati. «Avete presente quelli del classico? Ecco, facciamo che loro sono quelli dei bossi ligustri e degli acanti. Loro e D’Annunzio.
Noi invece dell’Itis siamo come Montale: fossi e anguille». Sorridono, seguono, qualcuno si distrae, ma la maggior parte di loro c’è. Via con la seconda strofa. Sento che bisogna accelerare ancora, per miracolo tace in classe la guerra, tace anche la guerra che mi porto dentro, quella che un giorno sì e l’altro pure mi interroga sul perché continuare a cercare in una sezione di meccatronici, oggi, nel 2018, quell’aria che quasi non si muove e la nostra parte di ricchezza. Lascio andare le parole, le faccio mie, racconto Montale come lo raccontassi a me stesso, finisco per emozionarmi e mi incarto. Un attimo di silenzio, imbarazzato. Poi uno di loro scoppia a ridere, «non c’ho capito gnente professò». Rido anche io, potessi riderei fino alle lacrime, «e ci credo, non c’ho capito niente pure io. Ma quanto è bella questa cosa, è una dolcezza inquieta, e per Montale è l’odore dei limoni. Aspetta almeno la prossima strofa».
Nel varco
A questo punto lascio andare tutto, ma chissenefrega, via, le briglie sciolte. Fuori c’è l’aria d’oro dell’estate che arriva. E loro lo possono capire, lo devono capire, glielo devo fare capire quel momento, quel silenzio in cui le cose s’abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto e ci si aspetta di scoprire uno sbaglio di Natura, il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità. «L’avete vissuto anche voi un momento così, certo che l’avete vissuto. Dai, ne parlavamo l’anno scorso con Leopardi, ricordate L’infinito, quel momento in cui tutto si ferma. Quello che è capitato anche a voi, sul motorino, prima di andare al diciottesimo dove c’era anche lei, o quando dopo un brutto voto sull’autobus v’è sembrato tutto sbagliato eppure non vi distruggeva. Il tempo lì s’è fermato, certo che s’è fermato. A me m’è capitato tante volte, mi capita, capita a voi, lo so. Un odore, la strofa di una canzone nell’auricolare, o al cinema, quando la musica forte accompagna l’immagine più bella. Magari adesso, qui». Mi guardano e c’è quiete. «Sì prof, ho capito che intende. Insomma, cioè. Ecco, sì, esiste quella cosa lì, però, insomma. È un casino dirla». Sorrido. Ma l’illusione manca.
L’azzurro a pezzi
L’ultima strofa ridiventa normale. La maggior parte di loro inizia a distrarsi. L’inverno della città, che ha nascosto i limoni dentro una corte, entra in classe. Devo faticare per arrivare in fondo. L’ultimo verso, qualche risata sulle trombe, ma non quelle di prima. Suona la campanella, accidenti, è già passata un’ora. «Facciamo cinque minuti di pausa». Mi siedo dietro la cattedra e penso a quanto successo. È stata una buona ora di lezione o una pessima ora di lezione? Sono stato un bravo insegnante o ho rubato il loro tempo? Le conoscenze, le competenze, il metodo, gli alunni che picchiano gli insegnanti, la rete, le semplificazioni, un poeta riemerso attraverso un verso. Insegnare letteratura in un tecnico, la complessità, non mollare la complessità, misurare gli apprendimenti, la poesia più difficile di tutte, la più bella, diciottenni chini su schermi aperti sul mondo tanto grande e tanto piccolo, tutti i miei dubbi di insegnante e di persona. Guardo fuori dalla finestra, vedo l’azzurro a pezzi.
Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2018, Il tuo incubo peggiore.
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