
Marco Balzano, Resto qui. Storia della mia copertina / 2
Soglia di accesso ai testi, “il vestito dei libri” (J. Lahiri) è luogo di intersezione privilegiata fra immagine e scrittura. Da un’idea di Luca Ricci, che ha inaugurato la serie con il suo ballon d’essai, prende avvio, con uno scritto di Marco Balzano e continuerà nelle prossime settimane, un ciclo di interventi d’autore riguardante la storia delle copertina dei loro libri.
Si sa che la copertina è l’ultimo passo prima di chiudere un libro e mandarlo in stampa. Prima ci sono le discussioni, il più delle volte estenuanti, sul titolo. Questo romanzo è un caso particolare perché la copertina era in qualche modo “telefonata”. La storia, infatti, è quella di un paese sommerso, Curon Venosta, in Sudtirolo, a pochi chilometri dal confine svizzero e austriaco. Il campanile che torreggia sull’acqua di quello che sembra un lago e che invece è una diga dismessa colpisce chiunque passi di là. È un’immagine che a prima vista desta meraviglia – a me sembrava di entrare in un quadro di De Chirico – per poi lasciare spazio a un’inquietudine crescente. Si realizza che se lì c’è un campanile attorno doveva esserci stata una comunità, donne e uomini, radici. Allora ci si sporge dal pontile e, se si è fortunati, si intravedono ancora le fondamenta dei masi, l’erba scura e la sabbia. Non abbiamo mai avuto dubbi che la copertina dovesse avere questa immagine. Piuttosto siamo stati indecisi se inserire anche un pontile e lasciare il campanile sullo sfondo. Il pontile, è vero, avrebbe dato più profondità all’immagine, rendendola quasi tridimensionale e prendendo per mano il lettore per portarlo in quel cosmo sconosciuto. Ma avrebbe anche ricordato le frotte di turisti che lo usano per farsi un selfie, come se quel reperto a cielo aperto fosse una banale attrazione turistica e non un relitto di una distruzione violenta, non il resto di un progresso antidemocratico, dissennato e nemmeno lungimirante visto che la diga è diventata, appunto, un paradossale luogo del turismo di massa. E poi quell’elemento isolato, senza tracce di presenza umana, comunica un’inquietudine senz’altro maggiore. Chi lo guarda si chiede cos’è questa immagine, se è reale o se è un fotomontaggio. Chi conosce il luogo, invece, da quel lago di lacca su cui campeggia la punta di una chiesa, ritrova qualcosa, coglie un’atmosfera sospesa, la stessa con cui si apre il libro.
Sono invece contento che il titolo del romanzo non sia stato quello che avevo proposto. Questa storia è una storia di resistenza. La resistenza di una donna attraverso le parole. Una resistenza per nulla eroica, piuttosto una dimostrazione oltranzista di dignità: Trina si aggrappa alle parole anche quando è certa che non la salveranno. Per questo volevo intitolare il romanzo Fino alla fine. Con l’editore abbiamo lavorato sui concetti chiave del libro e siamo arrivati in fretta a indicare nel verbo “restare” il più importante di tutti. Parlo del titolo perché riguarda in modo assoluto la copertina. C’è un dialogo tra titolo e immagine. I due elementi si parlano e dicono che è una storia di resistenza perché restare vuol dire anche resistere e perché Resto qui, in questo caso, significa resto qui nel niente, dove non c’è più terra: punto i piedi “fino alla fine”, anche se ormai sotto c’è solamente l’acqua. Così in effetti fa Trina, il cui nome deriva da una vecchia fotografia che uno degli ultimi testimoni di questa vicenda mi ha mostrato quando sono andato a intervistarlo. È una vecchia fotografia color seppia, che ritrae una donna in ginocchio sul tavolo di casa sua, le mani uncinate al cornicione della finestra. È una donna ormai anziana, con un fazzoletto rosso in testa, il viso pieno di rughe ma gli occhi ancora accesi. L’acqua ha già sommerso ogni cosa, il paese è già stato sgombrato, molte case fatte saltare col tritolo. Casa sua sicuramente è già allagata, l’acqua deve essere salita quasi fino al tavolo, le sue gambe, che non si vedono, devono essere bagnate almeno fino ai polpacci. È stata lei l’ultima a lasciare il paese. Quando riguardo quella foto penso che in fondo le uniche parole che potesse dire Trina sono proprio quelle del titolo.
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