
L’ossessione funebre e oltremondana di Labbate – Recensione a Suttaterra
Due sono i modelli “eccessivi” cui attinge Orazio Labbate per il suo romanzo Suttaterra (Tunuè): l’immaginario biblico ed evangelico, tra visionarietà apocalittica e stazioni della Via Crucis, e quello catabatico, con un viaggio nell’oltretomba che ricongiunge il protagonista Giuseppe Buscemi all’ amata Maria.
La donna defunta chiama Giuseppe a raggiungerlo con un’inaspettata missiva nella quale fissa per loro un appuntamento a Gela, luogo delle nozze e della lontana luna di miele:
Aveva ritirato una busta, nel pomeriggio, dalla cassetta della posta. S’era ripromesso di aprirla più tardi. […] La lettera diceva: Arriverai dal mare e ci rivedremo nel nostro posto speciale. Tra un mese. La tua Maria.
“Come può una morta scrivere una lettera?” (p. 16)
Inizia così il nostos verso l’originaria città siciliana: un viaggio lungo e onirico a bordo di una petroliera dal nome beneaugurante, Christmas, destinata a giungere in un porto dominato da un luciferino petrolchimico, unico dettaglio realistico a resistere in quello che sembra a tutti gli effetti un romance d’altri tempi contaminato da un gotico contemporaneo che trova i suoi padri rispettivamente in David Linch e in Thomas Ligotti (un’intervista di Labbate a Ligotti si può leggere al seguente link http://www.minimaetmoralia.it/wp/orrore-dintorni-intervista-thomas-ligotti/ )
Fin dall’onomastica la vicenda, raccontata in quattro capitoli preceduti e seguiti da Prologo ed Epilogo, manifesta un’ascendenza biblica, per quanto il frutto dell’amore dei due giovani – Giuseppe e Maria – portato in grembo dalla giovane sposa, sia destinato a non vedere la luce. Ma è l’ardore religioso, evidente anche nel logo della copertina – dove su uno sfondo rosso mattone si staglia un cuore mariano fiammeggiante di carità trafitto da un pugnale gocciolante sangue – a caratterizzare l’indole visionaria e perfino farneticante di Giuseppe: cresciuto dal padre Razziddu, il predicatore al centro del primo romanzo di Labbate, “Lo Scuru” (2014), l’uomo è intriso di una religiosità accesa e fervida, nutrita più dalla venerazione per la Madonna dell’Alemanna che per il Cristo dei Puci, idoli siculi cui è rimasto fedele nonostante l’espatrio.
Ma, si anticipava, l’altro modello che lavora sullo sfondo del romanzo di Labbate è, mutatis mutandis, la catabasi; da una parte la “chiamata” oltremondana che Maria rivolge a Giuseppe, dall’altra il ritorno e la permanenza a Gela procedono per tappe che rimandano non solo a una dolorosa Via Crucis, ma anche alla discesa “suttaterra”, appunto, verso un Ade: un mondo distorto, allucinato, metamorfico, iridescente, incandescente, multiforme. La lunga enumerazione allude ad una discesa agli inferi costellata di tappe successive che sembrano generarsi l’una dall’altra:
Dal cielo ammaliatore di quella già lunga notte cadevano ora grossi coriandoli di brace, come quelli che si vedono ai bordi dei più imponenti incendi. Giuseppe lasciò che uno si posasse sulla sua mano. Riconobbe, in mezzo ai bordi che andavano carbonizzandosi, un santino. E nel volto pallido, dalla barba e dai capelli rossicci, che c’era raffigurato, riconobbe, impaurito in massimo grado, il Signore dei Puci, il Cristo di Butera di cui spesso farneticava suo padre. Dall’altra parte del cartoncino, un minuscolo calendario già quasi tutto eroso dal fuoco, e una pubblicità del macellaio Costa, immortalato mentre impugnava le zampe di un piccione dissanguato a testa in giù. Dietro l’energumeno, appeso al muro della stanza e troppo piccolo nella fotografia perché occhi profani ne potessero distinguere le forme, ma chiarissimo a quelli di Giuseppe, stava un poster della Madonna dell’Alemanna. (p. 85)
Il brano riportato è esemplare della modalità narrativa di Labbate: nella sua pagina un’immagine si inanella a quella successiva e l’una si genera dall’altra senza soluzione di continuità. Sta in questo flusso ininterrotto di immagini la forza e, al tempo stesso, il limite di questo romanzo nel quale la trama sembra contare meno del virtuosismo stilistico e linguistico che innesca.
Viene da chiedersi cosa stia al fondo del romance metafisico-religioso riproposto in Suttaterra: se il soprannaturale letterario è indice dei diversi gradi con cui in un’opera si manifesta la logica dell’inconscio e delle contese tra quest’ultimo e il principio di realtà, se il “fantastico” nelle sue varie forme entra, insomma, sulla pagina a rivelare “uno scandalo, una lacerazione, un’irruzione insolita, quasi insopportabile nel mondo reale” (https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/663-il-soprannaturale-letterario-di-francesco-orlando.html), quale strappo doloroso manifesta in Labbate? La risposta sembra trovarsi in uno dei traumi collettivi che caratterizza i nostri giorni, e che nello scrittore diventa l’indicibile che si fa incubo, dimensione onirica, irrealtà visionaria: il femminicidio. L’ossessione di Giuseppe per Maria, donna assolutizzata, idolatrata, adorata non può sostenerne la presenza in vita per il timore che il mondo la “contamini”: in modo tale da celebrarne ritualmente in ogni pagina la cancellazione mortuaria. Esemplare è il passaggio in cui l’uomo crede di averla ritrovata a Gela in un night dove si esibisce come ballerina:
“Maria, sei davvero tu? Ti ho contemplato in questo anno come un’immagine sacra custodita nel mio solo ricordo, e adesso devo vedere la tua carne infuriarsi al cospetto di tutti? E dov’è il frutto del tuo ventre? L’hai venduto o barattato? E con quale essere ti sei compromessa nel frattempo? Perché ti dibatti come la più vile delle femmine? Cosa ti hanno fatto?” si disse Giuseppe conturbato, logorandosi di uno sprezzo che lo incattiviva. (pp. 90-91)
Poco importa sapere se quell’entraîneuse sia Maria, se religioso e demoniaco siano destinanti all’osmosi cui la frase di Cioran citata nel paratesto allude. Le domande che turbinano nella mente di questo odierno Orfeo sono destinate a restare senza risposta per dare spazio a una visionarietà dai risvolti lugubri che va di pari passo con l’originale dominio della lingua: la ricchezza lessicale – con la ripresa di termini ormai desueti e di gusto decisamente ottocentesco come “rimembrare”, “conturbato” -, le arditezze sintattiche di cui sono sintomo le frequenti inversioni, le ricercatezze foniche evidenti in ravvicinate paronomasie rischiano di divenire una prova di maestria fine a sé stessa: un forma di “barocco siciliano” che ha i suoi padri in Bufalino e in Consolo ma che può saturare per eccesso l’esperienza del lettore.
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