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Medicina e letteratura /2: Thomas Mann fra corpo e storia

Se, come ha affermato Susan Sontag, tutte le culture umane tendono a trattare “le malattie come metafore”, forse nessuno scrittore del Novecento europeo ha fatto della malattia un mito letterario quanto Thomas Mann. Del resto, a fine Ottocento, in un rampollo dell’aristocrazia commerciale di Lubecca, la stessa vocazione artistica poteva essere avvertita come simmetrica all’inoculazione di un agente patogeno.

Mann ha metaforizzato due flagelli epidemici: il colera, che raggiunge l’Europa solo nel XIX secolo proveniente dall’Asia, e la tubercolosi, le cui caverne polmonari, già note alla medicina del Cinquecento e a Fracastoro, solo nell’immaginario dell’Ottocento divengono emblema di un male “intellettuale”, segno dell’acume della mente a detrimento del corpo, e figura di una “diversità” sociale.

Nel racconto lungo La morte a Venezia (1912) il desiderio stesso di un viaggio nella città lagunare nasce nell’anziano protagonista, lo scrittore Von Aschenbach, “come un attacco di malattia”: Venezia, dalla tolda del traghetto imperiale proveniente da Pola, lo accoglie avvolta in un’”afa senza sole”, in una nebbia appiccicosa, equivoca e torbida, che preannuncia il colera. Le autorità cittadine tengono segreta l’epidemia finché possono, per salvaguardare “la grande e multiforme industria del turismo” ma, col favore dalla canicola, “si sono già inquinati i generi alimentari”. A fronte dell’incombere del colera secco, migrato con i suoi sintomi spaventosi dalle paludi del Gange a quelle Adriatiche, all’Hotel des Bains del Lido il senile Aschenbach vive una grottesca passione per il ragazzino Tadzio, il cui sguardo docile e disarmante e il cui corpo fragile e malaticcio travolgono ogni impalcatura razionale dell’uomo di cultura, lo inducono a sognare una regressione selvaggia e tribale. In balìa del suo demone, l’intellettuale si sottopone a cosmesi per coprire con uno strato posticcio i segni della vecchiaia, e insegue e spia senza più ritegno il bambino per le calli veneziane “dove vagava dissimulata la morte oscena”. Finché, morente per il colera, assiste sulla spiaggia del Lido a una rissa sulla sabbia, in cui l’oggetto del suo desiderio viene sottomesso nella lotta, con crudele violenza, da un ragazzo più robusto.

Il grande romanzo-saggio La montagna incantata (1924) (oggi La montagna magica, Meridiani Mondadori, a cura di Luca Crescenzi, traduzione di Renata Colorni, con un saggio di Michael Neumann), ha un titolo probabilmente tratto da Nietzsche: “Ora si apre a noi il monte magico dell’Olimpo e ci mostra le sue radici”. Per Nietzsche, il monte dell’Olimpo era il mondo di Apollo: il mondo della violenza e delle tenebre, miracolosamente capovolti in armonia ed equilibrio. Tra le due rappresentazioni di malattie c’è tuttavia di mezzo la violenza della storia che fende e problematizza l’acronia biologica del corpo: La montagna è separata da Morte a Venezia dall’ecatombe della Prima Guerra Mondiale. Hans Castorp, giovane borghese in formazione, va a trovare il cugino ricoverato ma si ammala a sua volta di tisi e non si stacca per sette anni dal sanatorio svizzero di Davos, microcosmo sociale in sé completo, dove il giovane può intraprendere un’educazione sentimentale (grazie a una malata, Madame Chauchat) e intellettuale. Qui la malattia è ad un tempo, ambiguamente, degenerazione e rigenerazione: razionalità illuministico-borghese e irrazionalismo totalitario si combattono nel sanatorio, come gemelli esangui, tramite le voci di due ospiti del luogo di cura, tra loro divisi in una lotta mentale: l’umanista Settembrini e il Gesuita Naphta. Sono due figure che allegorizzano, in forma di degenti tubercolotici, l’intera vicenda della moderna cultura europea. La ragione del progresso si esprime mediante l’accumulo discorsivo di Settembrini, le istanze opposte tendono invece all’ombra e al silenzio. L’equilibrio, l’”incanto” del microcosmo pedagogico montano, si rivelano un’illusione: sono destinati infatti ad andare in pezzi con lo scoppio della Grande Guerra. Lasciata la montagna, Castorp, come migliaia di giovani intellettuali europei, si trova coinvolto nel macello mondiale.

Mann, nella rappresentazione metaforica della malattia, assume dunque come mito letterario la lezione di Nietzsche che condensava nel concetto di “corpo” tutto il rimosso della ragione cartesiana. L’evento della malattia poteva far riemergere il linguaggio del corpo, il più grande dolore poteva provocare il beneficio del sospetto e della folgorazione. Del resto, già nell’Idiota di Dostoevskij il principe Myskin affermava che solo nel momento dell’attacco epilettico, solo nell’istante il cui la malattia si presenta improvvisa e vittoriosa, “si può dare tutta la vita”.

Se la ragione occidentale aveva frainteso il corpo, la malattia poteva ottenerne la riabilitazione. Ma la storia spariglia brutalmente le carte del mito: la grande, insensata morte collettiva dei conflitti globali del Novecento, inaugurati nel 1914 e non ancora conclusi, assai più delle epidemie, sembra aver fagocitato, ridotto in poltiglia e digerito sia la salute che la malattia, sia la scienza che l’ arte, sia le ragioni della civilizzazione che quelle del corpo. Mann, con lo sguardo chiaroveggente dei più grandi scrittori, pare averlo saputo già all’inizio del secolo. Quando, nelle ultime pagine de La montagna incantata il lettore è chiamato ad abbandonare il tempo e lo spazio separati e sospesi della montagna e della malattia e a scendere con Castorp in pianura, ad affrontare il tempo della storia, si imbatte infatti in un orrore e in un male definitivi, non più redimibili nel mito o nell’istante epifanico, perché del tutto ingovernabili con gli strumenti mentali della cultura, della filosofia e della letteratura:

Dove siamo? Che cos’è questo? Dove ci ha gettati il sogno? Luce crepuscolare, pioggia, immondizie, bagliori d’incendio nel cielo grigio, continui rimbombi nell’aria umida, rotta da canti aspri, da ululati furibondi e infernali che terminano la loro traiettoria con scoppi, spruzzi, fragori e schianti. (…) Ci troviamo in pianura e c’è la guerra.

 

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