Skip to main content
Logo - La letteratura e noi

laletteraturaenoi.it

diretto da Romano Luperini

len 20171121 005

Cambiare il mondo, cambiare le interpretazioni

 Qualcuno mi ha detto

che certo le mie poesie

non cambieranno il mondo.

Io rispondo che certo sì

le mie poesie

non cambieranno il mondo.

Qualche giorno fa ho letto questa poesia di Patrizia Cavalli in una classe seconda. Si tratta del testo di apertura, eponimo, della prima raccolta della poetessa, Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974). Il dialogo tra me e la classe intorno ad esso merita di essere riportato.

Dialogo in classe

Professore: «Il senso di questa poesia di Patrizia Cavalli è quasi interamente generato dalla costruzione (quasi) simmetrica in due strofe, dove tornano parole identiche che però sono state, si dice, “risemantizzate”, cioè non vogliono più dire la stessa cosa: quell’apparentemente banale certo e la frase che dà il titolo alla raccolta – perciò è importantissima – le mie poesie non cambieranno il mondo. Vediamo una cosa alla volta. Cosa significa “le mie poesie non cambieranno il mondo” nella prima strofa?»

Studentessa 1: «Che non diventerà famosa»

P: «Ma non parla mica di diventare famosa. C’è scritta un’altra cosa, riuscire a “cambiare il mondo” o no. Altre idee?»

S 2: «Un’altra persona le dice che è inutile scrivere poesie»

P: «Perfetto, e perché sarebbe inutile?»

S 2: «Perché non arriverà da nessuna parte»

P: «Ma non è molto diverso, se capisco quel che vuoi dire, dal “diventare famosa” di cui ha già parlato la tua compagna»

S 2: «Sì, è vero»

S 3: «Vuol dire che non sarà ascoltata come altri che hanno già scritto libri importanti»

P: «Nel senso che chi scrive libri importanti lascia il segno, “cambia il mondo”, mentre lei non ci riuscirà?»

S 3: «Sì»

P: «Ma, di nuovo, ribatti sullo stesso punto. No, bisogna cambiare prospettiva. Proviamo a vedere… se vi dicessi che negli anni in cui questa poesia è stata scritta molti di voi, molti dei ragazzi della vostra età, credevano nella rivoluzione, cosa pensereste? Che cosa poteva significare “rivoluzione”?»

Tutti gli studenti: «…»

P: «Per esempio, nella scuola, trasformarla in un luogo dove si imparasse in modo creativo, libero, diciamo pure completamente rovesciato rispetto alla scuola esistente; nella società in generale, una trasformazione radicale, per esempio la fine dello sfruttamento sul lavoro. Voi ci credereste?»

[Metà degli studenti non dà particolare segni di reazione, l’altra metà scuote la testa]

P: «Pensate che le cose non possano cambiare più di tanto?»

[La metà degli studenti che scuoteva la testa, più qualcuno di quelli che aveva taciuto, acconsente]

P: «Bene, questa poesia è stata scritta in quegli anni, quando si credeva nella possibilità di un cambiamento radicale delle cose. La persona che nella prima strofa si rivolge alla poetessa contesta spietatamente questa idea…»

S 4: «… lei nella seconda strofa lo ammette»

P: «Certo. E con che tono lo fa?»

S 4: «Vuole essere gentile…»

S 5: «… e vuole essere umile»

P: «“Gentile” nel senso che vuole dare ragione al suo interlocutore e “umile” nel senso che sa che non deve montarsi la testa, altro che “cambiare il mondo”?»

S 4 e 5: «Sì»

P: «Ok, dal punto di vista della poetessa, soggettivo, lei non si monta la testa. Ma torniamo al punto politico, collettivo. Io ho provato a spiegarvi cosa potesse significare, concretamente, “rivoluzione”, ma capisco che sia molto difficile capirlo oggi, in un senso concreto. Allora cerchiamo un esempio vicino a noi, che ci permetta di avvicinarci a quel concetto: perché una poesia non può fare la “rivoluzione”?»

S 6: «Un ecologista che vuole cancellare l’inquinamento. Ha ragione, ma non è possibile…»

S 7: «… le poesie le leggi, cambiano il tuo pensiero, non il mondo»

P: «Ok. Quindi le parole, dell’ecologista o della poetessa, servono a farti riflettere, a far maturare te stesso, ma cambiare il mondo è più complicato, o impossibile?»

S 6 e 7: «Sì»

[…]

Mi fermo qui, anche se la discussione è continuata. Di qui in poi, infatti, è stata decisamente più lineare e prevedibile e siamo arrivati a fissare, senza troppi problemi, un’interpretazione condivisa e stabile. Vorrei sfruttare questo aneddoto per affrontare due questioni: una riflessione generale sulle condizioni e il farsi dell’interpretazione; quello che questo episodio rivela delle assunzioni culturali con le quali i nostri studenti avvicinano testi di un passato, come si è visto, nient’affatto lontano.

Qual è il senso letterale?

Possibile che leggere sei versi brevissimi, apparentemente semplicissimi, sia così complicato? Al di là del fatto che le poesie di Patrizia Cavalli sono di quelle solo apparentemente semplici, in effetti io stesso non mi aspettavo il fraintendimento da cui si è generato questo dialogo imprevisto, quello per cui il problema non è la “rivoluzione”, ma il “diventare famosi” (che però è forse idea  più internamente articolata di quanto non sembri di primo acchito: ci torno fra poco). Ho dovuto perciò improvvisare, seguire una via imprevista per arrivare a un’interpretazione fondata del testo. Procediamo con ordine.

Penso di non prevaricare la poesia con assunzioni personali idiosincratiche, se dico che la sua interpretazione “letterale” è questa: un senso comune diffuso, espresso da «qualcuno», ricorda a chi scrive poesie che con le parole e la letteratura non si cambia il mondo; la poetessa, che non pretende affatto di aspirare a tanto («certo sì»), lo ammette pacatamente. Sono tanto convinto di questa interpretazione che, quando la leggo e quando l’ho letta in classe, faccio in modo di enfatizzare con la lettura il valore polemico del primo «le mie poesie non cambieranno il mondo» (“certo, voi ‘impegnati’ pensate sempre di fare grandi cose, prendetevi meno sul serio”, col tono del risentimento ur-democristiano e poi ur-berlusconiano così tipico del nostro paese) e il valore “umile” del secondo, come ha giustamente osservato una studentessa: io scrivo, ma so bene che «poetry makes nothing happen», come diceva Auden. 

Dunque, perché quel fraintendimento? Quando ho letto per la prima volta Le mie poesie non cambieranno il mondo avevo più o meno 25 anni. Avevo una laurea in lettere e leggevo poesia. Mi era chiarissimo il conflitto tra engagement politico degli intellettuali e polemica contro di esso (Auden, ma anche il «disingaggiato amico» di Fanfara di Montale, in Satura: raccolta che esce nel ‘71, appena tre anni prima di quella della Cavalli); anzi, proprio in quanto “letterato” quel conflitto mi metteva personalmente a disagio, perché anche io continuavo a interrogarmi, a volte quasi angosciosamente, sull’impotenza della letteratura e delle parole a cambiare alcunché. Per valori generazionali assomiglio molto più ai miei studenti disimpegnati che ai nostri padri engagés, ma, studiando lettere, mi ero riconesso a un passato e a una storia che mi parlavano di valori diversi; poi amavo le parole dei libri e dovevo giustificare questo amore inutile davanti al mondo. A farla breve: per me si trattava di un testo di assoluta trasparenza, letterale e storica. Ma senza quella trasparenza storica, tocca constatare che viene meno persino quella letterale. Questa poesia non è affatto “immediata” per i nostri studenti.

Comprensione letterale e orizzonte storico

«Cambiare il mondo» è una frase dal senso letteralmente chiaro solo in apparenza. È piuttosto la sintesi dei valori di un’intera epoca. In un’epoca con valori diversi, va chiosato a lungo, a meno di non accontentarsi della nota storica a piè di pagina.

Non ci stupiamo del fatto che senza la mediazione dei commenti, cui dobbiamo aggiungere la mediazione dei lettori esperti di primo grado (i critici) e dei lettori esperti di secondo grado (gli insegnanti), Dante non sarebbe comprensibile a scuola. Quanto ho raccontato dimostra però che la distanza può annidarsi persino in un testo di appena quarant’anni fa e insidiare quella che, a prima vista, apparirebbe la comprensione letterale. 

Quella tra ricezione e interpretazione, come ha mostrato chiaramente l’ermeneutica letteraria, non è una distinzione oggettiva, atemporale: la storia, i contesti, le ideologie, i valori, l’immaginario, spostano il confine tra di esse e lo rendono più simile a una sfumata zona di transizione, a un continuum, che non a un’interruzione tra oggetti concettualmente discreti. 

Nel corso della lettura entra in gioco l’immaginario del lettore. Esso è indubbiamente in correlazione con quello dell’opera. Il piacere della lettura nasce dai movimenti – dunque dalla libertà e dalla flessibilità – dell’immaginario del lettore, di continuo sollecitato da quello del testo. Nell’immaginario messo in moto dalla lettura agiscono tuttavia anche il vissuto e l’orizzonte ideologico del lettore […]. La fase semantica (riflessivo-ideologica) è già presente nella ricezione, mentre, d’altra parte, anche nell’interpretazione agisce la spinta dell’immaginario (R. LUPERINI, Il dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica materialistica, p. 12).

Per questo è necessario non dare per scontato nemmeno il più immediato livello della comprensione letterale e della parafrasi del senso “immanente” del testo. I nostri studenti e noi leggiamo nello stesso testo significati diversi. I nostri studenti non sono consapevoli delle proprie presupposizioni, noi delle nostre. Dando per scontate le nostre, potremmo pensare che loro stiano leggendo il nostro stesso testo. Ma questa ricchezza e instabilità nella messa a punto del senso si rivela solo se la comprensione e l’interpretazione sono costruite insieme alla classe.

Privato e pubblico

Quale reazione abbiamo noi adulti davanti all’incapacità degli studenti di capire una frase “ovvia” come le mie poesie non cambieranno il mondo? Probabilmente diremo che i ragazzi oggi sono apolitici, incapaci di impegno collettivo, chiusi in un mondo dove esistono solo gli individui. Poco importa che la sfumatura sia critica verso di essi (“non sono più come i giovani di un tempo”) o assolutoria (“ci credo che siano così, con quello che hanno intorno…”): l’interpretazione è la stessa.

Riprendiamo il tema del “diventare famosi”. Non c’è dubbio che esso vada inteso innanzitutto nel senso più superficiale e venale: ottenere popolarità. Chi è popolare ha molti lettori, spettatori, follower, visualizzazioni… Chi è popolare guadagna soldi ed è un vincente.

Tuttavia, io credo che per riuscire a spiegarci davvero come sia stato possibile che un concetto come quello di impegno politico sia stato sovrapposto a quello della fama sia necessario guardare un po’ più a fondo. Che cosa mai potrà  accomunarli? Il personaggio popolare è pubblico ed è proprio perché è pubblico che il suo messaggio può arrivare a più persone. Il termine inglese audience, d’altra parte, ha sia il senso specificamente televisivo e massmediatico che mantiene anche nel suo uso italiano, sia quello di “pubblico” (di un teatro, ad esempio). L’audience, quindi, non è altro che l’insieme delle persone cui parliamo, è il tu e il voi cui ci rivolgiamo, quella seconda persona che nel linguaggio ci fa uscire dal solipsismo dell’io che parla. 

Così riesco a spiegarmi meglio quella sovrapposizione a prima vista così bizzarra. E quello che mi sembrava un fraintendimento bello e buono dei miei studenti, una dislettura, diventa invece, ricontestualizzato, proprio il punto sul quale fare leva per stabilire un nesso tra la parola pubblica come viene intesa in un’epoca di impegno politico (il comizio, l’assemblea, la “presa di parola” del Sessantotto) e la parola pubblica in un’epoca nella quale parlare agli altri presuppone la mediazione di un sistema dei media che ci procura fama e celebrità. 

Che bel percorso sull’engagement e il “disingaggiamento” politico potrebbe venire fuori dalla scoperta di questo terreno in cui identità e alterità storica si intrecciano. Scavando nelle interpretazioni, maneggiando i significati, confrontando gli immaginari e le categorie, l’impossibilità di mettere in comunicazione presente e passato, passione collettiva e individualismo dell’io, si rivela solo apparente. Politicamente non è molto: non cambierà il mondo, certo. Ma in anni nei quali la convinzione che il mondo possa solo essere tecnicamente amministrato, cambiare le interpretazioni e imparare quanto siano mutevoli, fluide, passibili di nuove configurazioni, ci suggerisce l’idea che la realtà non sia già data, ma costruita con il nostro concorso.

Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2017, nuvola.

{module Articoli correlati}

Comments (1)

Rispondi a Giovanna Soldi Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenti recenti

Colophon

Direttore

Romano Luperini

Redazione

Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Annalisa Nacinovich, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato

Caporedattore

Daniele Lo Vetere

Editore

G.B. Palumbo Editore