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diretto da Romano Luperini

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Le intermittenze possibili della storia: su Mio padre la rivoluzione di Davide Orecchio

 Favole al telefono fu il primo libro che mio padre mi regalò, la mia prima lettura autonoma all’inizio degli anni ‘80: l’Omino di niente divenne ben presto uno dei miei eroi di carta, una infatuazione narrativa vera e propria. E deve essere stato così anche per Davide Orecchio, se in uno dei racconti di Mio padre la rivoluzione proprio l’omino di niente “piove nell’alta fantasia” di un Gianni Rodari perduto nella “foresta di Lenin”, nella «torbiera della falsa coscienza, dell’infantilismo, dell’avventurismo, del deviazionismo» in cui lui stesso aveva rischiato di perdersi durante un viaggio realmente compiuto da Rodari sulle rive del Volga nel 1969. Il potere salvifico delle narrazioni («Posso uscire da qua solo con una favola») è uno dei centri di irradiazione di questo curioso e originalissimo libro di racconti sulla storia del comunismo e del nostro rapporto, postumo e monco, con quella tradizione.

Mio padre la rivoluzione si articola infatti in undici racconti dove storia e letteratura, ricostruzione evenemenziale e fantasia collaborano, edificando una dimensione parallela – la dimensione della storia controfattuale – dove le cose sono andate in modo ben diverso da come ci raccontano i libri, le fonti e i reportages giornalistici: in questo universo possibile, Trockij non è stato ucciso da un sicario di Stalin nel 1940, ma sarebbe ancora vivo nel 1956, tanto da poter commentare i fatti del XX Congresso del Pcus; Stalin e Hitler vengono a coincidere in un singolare (ma non del tutto improprio) giano bifronte; Robert Zimmerman non diventa Bob Dylan ma compone canzoni rivoluzionarie.

Se per Michel de Certeau la scrittura della storia aveva a che fare con un rito funebre, con una negromanzia e con un cerimoniale volto a resuscitare il passato, qui Davide Orecchio – senza dimenticare quella nobile lezione – la spinge verso il suo punto di rottura: per operare quella magia a cui alludeva Certeau è necessario infrangere il patto che fonda la narrazione storica, occorre affrontare l’abisso e la vertigine del non-accaduto o del possibile che non si è realizzato. Le fonti utilizzate da Orecchio sono le medesime dello storico (fanno fede le accurate note finali ai singoli racconti in cui interagiscono biografie, saggi storici, diari dei protagonisti…); ma quelle fonti sono volte a costruire un panorama che non coincide con quello tràdito: emblematico il caso del Breve corso di storia del partito comunista, di cui Orecchio immagina oltre alla prima edizione del 1938 dove si consacra la vittoria di Stalin, una seconda e una terza edizione (in realtà mai pubblicate) in cui si rende conto della crisi irreversibile dei sistemi totalitari. La sola giustapposizione, nel racconto intitolato Cast, di citazioni tratte dai testi della tradizione comunista (dal Manifesto di Marx ed Engels alla Storia della rivoluzione russa di Trockij, da John Reed ad Hannah Arendt, da Lenin a Victor Serge), mette in luce con la forza dell’evidenza tutte le contraddizioni insite in una storia che sta alle nostre spalle, e sulle cui spalle siamo cresciuti, prima del crollo del Muro. Una storia, tuttavia, che avrebbe potuto essere diversa: decostruirla e ricostruirla in una direzione alternativa, passare dall’attuale al potenziale, non è solo un’operazione demistificante (nulla di nichilistico nella manipolazione dei fatti messa in opera da Orecchio, come è stato opportunamente notato), è piuttosto un’operazione metodologica utile a renderci avvertiti del fatto che la storia non è un insieme di fatti, banalmente collegati da nessi di causa-effetto. La storia, e questo è il suo interesse, è dialogo col presente, domanda sul mai avvenuto.

Leggere oggi i diari del sindacalista americano Abraham Plotkin, che visse a Berlino tra il 1932 e il 1933 e fu testimone dell’ascesa nel nazismo, ha propriamente questo scopo:

«è già dicembre quando un pubblico nazionalsocialista entra a migliaia, ad ascoltare il mezz’orco Goebbels entra anche Plotkin curioso e spugnoso e siede in platea, sulla tavolozza della vita berlinese ragazze in uniforme, uomini in divisa, “la scena politica tedesca premia il business delle uniformi”, le bandiere, il canto, il saluto teso, gli stendardi ma Goebbels lo delude e, deluso, Plotkin si conforta: “avevo sentito dire che era bravo, sì Goebbels è bravo, sa dare spettacolo, ma il suo discorso non aveva un inizio, non aveva una fine, ha solo detto che c’è una tregua in Germania, e i nazisti mantengono la parola data, è tutta qui la minaccia? Cercavo una balena, ho trovato un lattarino” ed esce e a distanza di altre ore e altri metri il sindacalista Schultz rassicura Plotkin che “noi socialdemocratici, noi del sindacato, abbiamo fiducia, ci siamo liberati di Von Papen, ci stiamo per sbarazzare di Hitler, Schleicher lo seguirà, infine avremo libero il campo”.

 – Coro –

Hanno fiducia? Si sono liberati? Si stanno per? È quello che abbiamo sentito? È quello che hai letto? Seguitiamo. Come seguitano i mesi».

La giustapposizione delle riflessioni (liberamente adattate) dei diari di Plotkin a un’anonima voce corifea, che – come da un punto di vista postumo – interroga il procedere dei giorni e delle opere, crea quell’effetto di straniamento indispensabile per farci riflettere sull’ineluttabilità dei fatti: commenta ancora il coro, poco oltre, che «Ogni previsione sarà sconfessata. Ogni speranza, delusa, ogni gesto non agito sarà rimpianto»: siamo a dicembre 1932, e tra meno di due mesi il Reichstag di Berlino sarà incenerito dai nazisti.

È necessaria la pazienza del tempo per cogliere la voce intermittente della storia, per discernere «l’avventura degli spiriti onesti» che sognano per sé e per i propri figli un mondo migliore, una Itaca plausibile e raggiungibile, dalle maestranze dello sterminio che cancellano «l’innocenza del mondo».

Per recuperare quell’innocenza, almeno per il breve intervallo della lettura di un libro, Davide Orecchio sa che non c’è altra via se non «modificare quello che vede con quello che pensa e che sente»: i diritti dell’immaginazione sono continuamente riconfermati per la loro capacità di risollevare «l’astenia della storia», per tornare a credere come Ivar Oddone, trasfigurato da Calvino nel Sentiero dei nidi di ragno e da Orecchio nel racconto Partigiano Kim:

«se è giusto non avere interesse per le menzogne, è sbagliato non avere interesse più a nulla, interessarsi solo al recinto di sé, e questa debolezza presente e futura fiotta nel vaniloquio dell’egoismo, nel turpiloquio del me ne frego, che poi vuol dire me ne frego di me, di noi, di voi, dei miei padri, dei miei fratelli, dei figli miei, uccido la storia, dunque uccido me».

Resuscitando il ‘novecentodiciassette, Orecchio resuscita quella parte di noi perduta nel disinteresse, restituisce il diritto di parola a quel coro-mondo che annichilito dalla voce dei potenti, può e deve tornare a interrogarsi sul mondo.

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