
Contro la subalternità della scuola. Il dibattito sull’Appello sulla scuola pubblica/7
Ho firmato l’Appello per la scuola pubblica e ne condivido tutti i passaggi, che si inquadrano in un’idea di scuola che vive ancora nella pratica quotidiana, nella disponibilità culturale, umana, didattica, di tanti docenti, pur in mezzo a ostacoli e difficoltà di ogni sorta. Oggi questa pratica quotidiana (che certo avrebbe bisogno di essere sostenuta da ambiziosi interventi pubblici, da riforme capaci di mettere la scuola al centro della società) è sotto attacco, in funzione di modelli economicistici e tecnicistici, oggi considerati indiscutibili. Tutti gli interventi riformistici recenti, e in modo conseguente la cosiddetta Buona scuola, tendono a una riduzione del rilievo vitale della scuola, della dimensione dialogica, circolare, problematica del rapporto scolastico, dei suoi obiettivi di crescita critica, culturale, umana: sembrano ricondurre la funzione della scuola a quella di formare flessibili scaglie di “capitale umano”, produttori/ consumatori subalterni alle esigenze del mercato, alle modalità di comunicazione e di rapporto che esso impone, alle presunte antropologie “postumane” che esso prospetta.
Tutti i punti di cui l’appello mette in evidenza la criticità si inquadrano in questo orizzonte: così l’insistenza sulle competenze, fissate su categorie predefinite, secondo generici parametri cognitivistici, ai danni della concreta densità delle discipline; così la retorica dell’innovazione, affidata ciecamente alle tecnologie digitali, con iniziative che rischiano di condurre non certo a un loro uso critico, ma a un appiattimento subalterno al loro dominio; così l’illusoria alternanza scuola/lavoro, a cui invece andrebbe opposto un ingresso del lavoro nella scuola, una sua conoscenza nelle classi; così la valutazione, che si riduce ad un annullamento della specificità umana del rapporto scolastico, sostituita da parametri numerici e quantitativi, secondo il modello delle agenzie di rating e seguendo l’imperante ossessione statistica, per cui di tutto si fa classifica; così l’incongruo impiego del CLIL, Content and Language Integrated, che tende a impoverire e banalizzare i contenuti disciplinari (mentre invece andrebbe potenziato lo studio specifico della lingua inglese, nel suo ambito disciplinare).
Abbiamo bisogno di una scuola della conoscenza e dell’esperienza, che non può non avere un valore politico (giustamente rivendicato dall’appello): è il valore della costruzione del futuro, che una piccola politica, rivolta al consenso immediato e subalterna a quelli che oggi si considerano i valori correnti, non è in grado di concepire. Ma è più che probabile che il futuro richieda alle giovani generazioni non una flessibile disponibilità di consumatori, ma una avvertita capacità critica, una disposizione a confrontarsi con la resistenza della realtà: cose che solo una vera scuola pubblica potrebbe adeguatamente promuovere.
IMMAGINE
Fauxreel, Faces of Reagent Park, 2015
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Verissimo
Il Prof Ferroni, con cui ho discusso la mia tesi di laurea nel lontano 1989, focalizza con garbata tenacia i problemi della scuola attuale, vittima di sottili provvedimenti, come direbbe Dante, che, tessuti a ottobre, non arrivano a novembre. Ci vorrebbe il coraggio di emanciparsi dall’ossessione delle agenzie di rating che misurano e non valutano e di ammettere che non è indispensabile lasciare traccia del proprio governo in ogni riforma scolatica!
I complici
Grazie prof. Ferroni per questa sintetica e lucida analisi dei mali della scuola contemporanea. Purtroppo questi mali hanno potuto prendere piede grazie alla complicità, spesso cieca, di tanta gente di scuola che non vede alcun male in tutte queste virate dalla scuola della Costituzione e dello sviluppo della persona.