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diretto da Romano Luperini

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When the going gets though,the thoug get going. Insegnare Inglese in un Istituto professionale.

 In queste acque

Insegno Inglese in un Istituto professionale e quest’anno, come lo scorso, inizio con due prime. La partenza è sempre piena di insidie e falsi movimenti. Così accade che quella che per le prime tre lezioni appare una classe motivata, entusiasta e collaborativa, al quarto incontro mostri il lato oscuro della forza. Tensione, aggressività e polemiche su tutto. Ogni proposta didattica rifiutata, la mia, come quella di altri docenti. Basta pochissimo per scatenare discussioni violente tra le ragazze della classe. La sensazione è che, dopo dieci giorni dall’inizio della scuola, si sia aperta una voragine tra noi e loro e forse anche tra molte di loro. In questo clima oppositivo la mia lezione centrata sull’interazione continua, sull’ascolto e la comunicazione, diviene scontro e discussione sul senso del lavoro insieme, sulle aspettative reciproche e inevitabilmente sulle regole di convivenza. Nel conflitto deflagrano, finalmente, le individualità di questo gruppo. Emergono storie personali e familiari di grande sofferenza, vissuti scolastici complicati e lo fanno come vulcani che si sollevano da acque all’apparenza tranquille. Decido di stare in queste acque senza rinunciare a fare lezione.

Errori

Con dispiacere elimino l’interazione in lingua: inutile cercare di farle comunicare tra loro se non vogliono, simulando dialoghi che non le interessano, per di più in una lingua che poco padroneggiano. Non vogliono mettersi in relazione o non sanno farlo. Lo accetto, per ora. Cerco un’altra strada e decido di concentrarmi, come fosse un esercizio zen, sulla descrizione degli oggetti. Ho chiaro che non è un obiettivo inutile poiché dovranno saper descrivere in inglese gli abiti che andranno a creare, dovranno saper motivare le loro scelte creative e conoscere quindi gli aggettivi, il loro uso, la loro collocazione nella frase, gli intensifiers. Scelgo il loro oggetto totem, il cellulare, e lo metto al centro del tavolo, con il più classico degli spidergram dividiamo gli aggettivi in categorie. Che un oggetto possa avere così tanti aspetti da descrivere stupisce, prendono appunti, collaborano alla costruzione di questo grafico da copiare nel quaderno, finalmente al sicuro da sollecitazioni comunicative. Mi pare possa funzionare e per la volta successiva chiedo loro di fare una foto a un oggetto cui sono particolarmente affezionate per poi utilizzarla in classe. Penso così ad un aggancio emotivo, mentre consegno uno schema per orientare la descrizione. Secondo errore dopo quello dei dialoghi e dei role play così usuali nella mia materia. La volta successiva, nessuna ha portato la foto richiesta. Resto di stucco, ma come? Sempre con il cellulare in mano, sempre a postare foto su Instagram? Scatta la consueta polemica, una ragazza con voce piena di rabbia mi dice che lei sta in comunità e non ha nulla a cui è affezionata da fotografare lì. Al netto della sua sofferenza, so che è una scusa come le altre: “non ho memoria nel cellulare”, “mia madre non vuole che io fotografi le mie cose”, “ho il cellulare rotto”, “non avevo capito che fosse per oggi”. Un classico boicottaggio. Avevo preparato il materiale per rendere più dinamico il lavoro, non ho nemmeno l’usuale piano B, tanto ero sicura che avrebbe funzionato.

Word chain

E ora? Potrei costringerle a descrivere un oggetto qualsiasi, ma sarebbe come ammettere la sconfitta che pure mi brucia. Mi scrutano, si aspettano una ritorsione perché sono davvero sconcertata e seccata. Non aspettano altro che io imponga qualche noioso esercizio di grammatica a cui abilmente sottrarsi, tergiversando in attesa della campanella. Non voglio farmi incastrare, mi viene in mente un gioco, così scarto di lato e lo propongo. È una word chain che uso spesso a fine lezione per ripassare un po’ di lessico: ogni studente pronuncia una parola in inglese che inizi con lo stesso suono con cui finisce la parola pronunciata in precedenza, ma prima di aggiungere la propria deve ripetere tutte quelle che sono state dette. Più il gioco va avanti e più diventano le parole da memorizzare e ripetere. Poiché non voglio dare l’idea che sono pronta a mollare il lavoro sugli oggetti vincolo il gioco: le parole dovranno essere nomi di oggetti di uso comune. Sul principio sono diffidenti e impacciate. La prima parola è detta, nell’attesa generale risuona anche la seconda, manca la ripetizione della prima, qualche risata, ricominciano, non riescono a seguire le poche regole, si confondono, ma tornano indietro e ricominciano. Qualcuna solleva lo sguardo, qualcuna furtivamente abbandona un cellulare con cui giocherellava. La terza parola si aggiunge, poi la quarta, ma senza ripetere le prime tre e allora si ricomincia, risate. Le osservo. Ciascuna attende la parola dell’altra e cerca quella che potrebbe seguire, iniziano a guardarsi, non fosse altro che per memorizzare la parola che viene detta. Ci vuole un po’ perché il gioco proceda scorrevole. Non sanno darsi il turno, dimenticano i vincoli, però non mollano e ricominciano. Per la prima volta le vedo guardarsi in viso senza tensione, mentre aspettano che chi è di turno pronunci la parola, sono concentrate a memorizzare la sequenza, ridono agli sbagli guardandosi negli occhi. Di colpo il gioco, in questo contesto, mi appare pieno di potenzialità: le costringe a mettersi in relazione, a concentrarsi, a pensare, ad attendere curiose cosa possa venir detto. Dopo il primo giro vogliono continuare. Chiedo loro di commentare il gioco, qualcuna dice di aver imparato termini nuovi, con riluttanza ammettono di essersi divertite, qualcuna osserva come ci abbiano messo tanto a organizzarsi per seguire le poche regole.

Un lavoro concluso, inaspettatamente

La volta successiva portano la foto, ma vogliono mostrare il gioco all’insegnante di sostegno che è in compresenza con me. Glielo spiegano e iniziano. Anche la collega resta colpita dalle dinamiche che questo semplice gioco di ripasso lessicale, riesce a innescare. Colpisce come riescano, finalmente, a connettersi. Mi rendo conto che tra poco questo giochino esaurirà il suo fascino, allora proietto la slide con lo spidergram degli aggettivi e propongo di giocare ancora: ciascuna diventerà un oggetto parlante che si descriverà, la classe dovrà indovinare di che oggetto si tratta. Riciclo un vecchio gioco come “Guess what I am”, la prima volontaria arriva e inizia a descriversi: “I’m little, I’m white…”. Prima di iniziare mi ha sussurrato il nome dell’oggetto da indovinare così diventiamo complici. Di fianco a lei, con una mano sul suo braccio, suggerisco discreta quando le mancano le parole o la incoraggio quando si imbarazza. Ognuno viene a fare il suo indovinello e sperimenta per qualche minuto la possibilità di avere contemporaneamente l’attenzione dei compagni e il mio sostegno. L’ora scivola via riempita di frasi in inglese. Qualcosa è cambiato perché la volta successiva non oppongono resistenza alla richiesta di produrre una descrizione articolata dell’oggetto scelto da loro e alla fine sono soddisfatte di vedere i loro testi raccolti in un Padlet, una bacheca virtuale in cui inserire testi e immagini. È un lavoro concluso, inaspettatamente.

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