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Anatomopatologia di una vita lavorativa: l’ipotesi di Giorgio Falco

 Fin dalla copertina – dove campeggia il “prelievo” da una fototessera ripresa a distanza di trent’anni e illuminata da un cono di luce – Giorgio Falco si presenta nel suo ultimo libro come un anatomopatologo «in un laboratorio di esperimenti» (p. 263) e il documento a cui può attingere per la ricostruzione della sua ipotesi sulla sconfitta del lavoro è il libretto rilasciatogli dall’ufficio di collocamento «ubicato nella palazzina di fianco alla scuola elementare […] in cui […] fino a una dozzina di anni prima giocavo durante le ricreazioni» (p.114). Il motivo di interesse di questo recente memoir Ipotesi di una sconfitta – è dunque suggerito fin dal titolo, allusivo a un’implosione del mondo del lavoro che va ben oltre l’autore e che coinvolge l’intera nazione, contrapponendo l’Italia del boom economico a quella contemporanea.

Tale polarità trova la sua rappresentazione esemplare fin dal primo capitolo, dedicato alla figura del padre. Emigrato a Milano dalla Sicilia a metà degli anni Cinquanta, il padre di Falco ha esercitato per tutta la vita il medesimo lavoro, presso la medesima azienda, l’Atm (Azienda trasporti milanesi), dapprima guidando gli autobus lungo la linea extraurbana del Naviglio Grande, in seguito come impiegato nella stessa azienda. Ha portato avanti la professione di autista con puntualità quasi maniacale («era ossessionato dall’orario, […] era come se accompagnasse regnanti il giorno dell’investitura» p.5), affascinato dalle voci alle sue spalle – all’alba quelle degli operai seguite, al turno successivo, da quelle degli impiegati, dei commessi, degli studenti. Questa lunga fedeltà, coronata negli anni Ottanta dalla festa di pensionamento organizzata nel deposito dei bus con altri due colleghi e di cui l’autore conserva il filmino, restituisce, a distanza di tempo, «un pezzo di Novecento che scompariva» (pp. 33-35). La figura del padre, sempre identica a se stessa, abitudinaria, fedele non solo al deposito ma anche al gruppo di colleghi che lì intorno orbitano, aleggia su tutte le esperienze successive del figlio – il trait d’union è rappresentato dalle utilitarie che il padre, ormai in pensione, presta al figlio per i suoi svariati impieghi –  e funge da contraltare rispetto al destino lavorativo frammentato dell’autore: da lavorante a cottimo per l’assemblaggio di spillette a venditore porta a porta di abbonamenti a La Repubblica, da commesso in un outlet a rappresentante di scope in saggina, da magazziniere a istruttore di una squadra di basket, fino al “salto” in una ditta di telefonia negli anni in cui il traffico telefonico mobile è agli albori («Ancora una volta, un lavoretto, uno stipendio minimo, – registra lucidamente Falco –  ma con una serie di benefit, come l’assistenza sanitaria ereditata dal Novecento quasi finito senza che me ne rendessi conto» (p. 251)). Il suo rimpallo da un lavoro all’altro dà il senso del progressivo ma inesorabile passaggio a un’epoca nuova, in cui quella del padre risulta sconfitta, superata e in cui a sparire non è tanto il mito del posto fisso quanto piuttosto quello del lavoro percepito come “casa comune” in cui le aspirazioni del singolo coincidono con quelle dei colleghi, tra i quali si istituiva una forma di solidarietà.

 

A questo proposito risultano paradigmatici, per opposizione, i rapporti tra colleghi nell’azienda telefonica dove Falco si impiega e dove si moltiplicano le figure di dominio tra pari mentre si azzerano la complicità e l’accordo tra i lavoratori; l’organizzazione interna del lavoro neoliberista si fonda, infatti, su una catena gerarchica dal numero crescente di livelli intermediari che moltiplicano i rapporti di dominio secondari:

La teamleader, il minimanager e la manager ci chiamavano ragazzi, era uno dei pochi momenti nei quali diventavamo persona plurale […]. Siete l’eccezione aziendale, ripeteva la manager durante le riunioni. La crème de la crème, aggiungeva il minimanager. […] Il minimanager era una figura istituita per distanziare la manager dalla teamleader […] la manager fingeva di frazionare o delegare una parte del proprio potere, per rinsaldarlo. (pp. 260-261)

Esce allo scoperto, in Ipotesi di una sconfitta, la metafora dell’acquario che Falco aveva usato in Oscar, uno dei “quadri” ambientanti a Cortesforza e ritratti ne L’ubicazione del bene (2009). I pesci combattenti di cui si parla in questa breve storia sono i protagonisti della sfida settimanale cui i colleghi assistono quando si ritrovano nella villetta di uno di loro per far gareggiare in un enorme acquario tropicale i loro animali, scommettendo ciascuno sul proprio. Oscar, insieme agli altri pesci, sono gli alter ego marini dei colleghi d’ufficio: l’asettico e rispettoso ambiente di lavoro non consente loro di distruggersi a vicenda, nonostante la latente competitività che li divora. Demandano così ai loro aggressivi animali il compito di stabilire chi sia il leader della settimana entrante: «ognuno di noi scommette sulla vittoria del proprio pesce, non puntiamo soldi, con i combattimenti dei nostri pesci acquisiamo chiarezza nei rapporti lavorativi» (G. Falco, L’ubicazione del bene, Torino, Einaudi, 2009, p. 59).

Con la sua caratteristica scrittura chirurgica, Falco si muove tra queste dinamiche come un «ricercatore in un laboratorio di esperimenti comportamentali» (p. 263) e ritrae con precisione tratti caratteriali e “abitudini sociali” di capi e colleghi, tra i quali spicca la figura di una teamleader ribattezzata Solo Cattiveria, emblema della working girl lombarda:

Aveva assorbito la retorica della donna milanese emancipata grazie al lavoro. La bassa scolarizzazione, unita all’orgoglio di essere ignorante, era un valore condiviso da gran parte della politica e della nazione, e anche l’azienda di telefonia l’aveva ritenuta una risorsa utile. […] Il cervello di Solo Cattiveria, a eccezione di un’infatuazione ancora forte per la merce, era sgombro e pronto a farsi invadere dall’enorme mole di procedure aziendali spesso in contraddizione tra loro. (p. 271 e p. 274)

Dopo l’esordio narrativo di Pausa caffè (2004), considerato uno degli esempi migliori di narrativa sul precariato, in Ipotesi di una sconfitta Falco torna, dunque, a confrontarsi con il lavoro determinando  – con il fluviale Works (2016) di Vitaliano Trevisan –  un cambiamento sostanziale nella rappresentazione di questo tema: dalla solipsistica testimonianza dell’instabilità e della flessibilità si passa infatti ad estesi memoir dove  l’autobiografia professionale diviene anche autobiografia di una nazione in decrescita. Infatti se nella prima «raccolta di sessantanove piccole atrocità» ogni lavoratore «parlava per conto proprio, senza passato e senza futuro, solo nel presente tambureggiante» (p.268), nell’ultimo libro la narrazione di Falco diventa corale e sembra assommare su di sé tutte queste voci, la loro solitudine, il loro senso di impotenza e di frustrazione. In tale parabola neppure l’approdo alla scrittura – sancito dalla consegna delle dimissioni – sembra davvero liberatorio:

Ero libero, svuotato e atterrito. La fine del lavoro non significava comunque essere sani. Dopo alcuni brevi decenni terminava la mia avventura di lavoratore. Sapevo che non avrei più trovato alcun lavoro. Rimaneva la letteratura. (p.327)

La forza cognitiva dell’ultimo libro di Falco sembra risiedere dunque nel riuso del tema paterno al servizio della rappresentazione del lavoro e nella felice ambiguità con cui viene raffigurata “l’energia lavorativa”, a un tempo forza propulsiva della vita associata e interiorizzazione delle logiche di dominio e di sottomissione:

Mio padre mi aveva dato la sua macchina, lui andava a lavorare a piedi, era rientrato dopo il cancro, gli ultimi mesi lavorativi prima della pensione. […] Mi ero fermato al primo autogrill dopo la barriera […] Avevo preso un caffè e sentito la forza, più che della caffeina, dell’ideologia del lavoro, dell’unico mondo possibile che si manifestava lungo il bancone: le schiere di muratori sempre più originari dell’Est europeo […]; gli agenti di commercio, i venditori di qualcosa; i quadri aziendali che estraevano dalle tasche i primi, giganteschi telefoni cellulari […] ; e insomma, nonostante le mie remore, anch’io, con giacchetta e cravatta, ero quell’energia. (p.194)

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