Il ribaltamento come matrice conoscitiva Studio di una figura in 2666 di Roberto Bolaño
La versione integrale di questo articolo si può leggere qui:
http://rivistafigure.it/?p=155
Ringraziamo la rivista “Figure” per averci concesso questo estratto.
Il personaggio principale di 2666 di Roberto Bolaño è Hans Reiter ma il suo nome lo si scopre solo una volta giunti a leggere l’ultimo dei cinque romanzi di cui l’opera si compone. Fino a La parte di Arcimboldi, infatti, il nome attraverso cui conosciamo questo sfuggente perno della narrazione è Benno von Arcimboldi, scrittore contemporaneo tedesco di nicchia.
Il quinto romanzo si confronta quindi finalmente con questo fantasma, ossessivamente ricercato nella prima parte da un gruppo di critici letterari (La parte dei critici), relegato poi progressivamente ai margini della storia nelle tre articolazioni narrative successive (La parte di Amalfitano, La parte di Fate, La parte dei delitti), in cui la perdita di centralità tematica è proporzionale al moltiplicarsi di richiami indiretti allo scrittore, che portano a confondere il suo personaggio con altri, in una serie di abbagli che disorienta chi legge. Del resto l’ambientazione principale di questi tre romanzi è il deserto messicano, quale luogo più idoneo a una distorsione allucinata della realtà?
Il disorientamento effettivamente è una delle esperienze principali provocate da questo libro e una conferma di ciò potrebbe già essere nel nome scelto per il suo pseudo-protagonista: Arcimboldi, appunto. Hans Reiter, soldato tedesco coinvolto suo malgrado nella seconda guerra mondiale, se ne appropria una volta tornato alla vita civile, quando la ricostruzione frettolosa delle città mima l’esigenza di una parallela ricostruzione delle identità e riconversione delle coscienze dalla violenza alla pace. Il soldato Reiter ha ucciso un solo uomo in guerra; in seguito ha scritto e ora necessita di una macchina da scrivere per completare la sua opera e di un nome che nasconda il suo passato con cui proporsi al futuro: Arcimboldi.
Arcimboldi o Arcimboldo Giuseppe è un pittore milanese del Cinquecento. Di fronte ai suoi quadri, l’osservatore contemporaneo potrebbe trovarsi in bilico fra l’attrazione e la ripulsa: da lontano la composizione dei primi piani di Arcimboldi appare geniale e metaforica (un cipollotto come guancia; la pera è il naso; i capelli sono grappoli d’uva); avvicinandosi però, mentre si sgretola l’unità in un brulichio informe, non è escluso che si manifesti una sorta di disgusto. La forma fugge nei quadri di questo manierista italiano, esce dal campo visivo lasciando identità vuote, fantocci grotteschi, pezzi irrelati. Altre sue opere insistono sullo stesso concetto attraverso il meccanismo del ribaltamento: siamo di fronte a una natura morta di carni arrosto o al ghigno sdentato di un uomo-soldato bestiale? Una figura si confonde o manifesta nell’altra mentre l’oscillazione percettiva scava cunicoli di incertezza alla base del concetto di realtà.
Nel momento in cui sceglie di adottare questo nome, Hans Reiter non conosce né ancora ha potuto osservare i dipinti dell’ artista italiano; ha potuto leggere però alcune descrizioni delle sue opere nelle pagine di diario di un soldato ebreo dell’Armata Rossa, Ansky, di cui ha occupato l’isba disabitata durante la ritirata dell’esercito tedesco dalla disastrosa campagna di Russia e di cui ha recuperato le memorie casualmente, cercando delle bende per medicarsi la gola trapassata da un proiettile. Il soldato tedesco, reso afasico da una ferita di guerra, acquisisce così la voce di un avversario ebreo in uno scambio vertiginoso di identità: carnefice e vittima; offeso e offensore.
Si legge, riguardo ad Ansky:
Quando non ce la faceva più, Ansky tornava ad Arcimboldo […] La tecnica del milanese gli sembrava il massimo dell’allegria. La fine delle apparenze. L’arcadia prima dell’uomo. Non tutti i quadri, è chiaro, perché certi gli sembravano quadri del terrore, ad esempio Il cuoco, un quadro alla rovescia, che appeso da una parte è un grande vassoio di metallo pieno di carni alla griglia […], e appeso al contrario ci mostra il busto di un soldato, con casco e armatura, e un sorriso soddisfatto e temerario a cui mancano dei denti, il sorriso atroce di un vecchio mercenario che ti guarda, e il suo sguardo è ancora più atroce del suo sorriso, come se sapesse delle cose di te, scrive Ansky, che tu nemmeno sospetti. (794)
Allegria e terrore sono emozioni contrapposte e fra loro contradditorie; Ansky le avvicina per esprimere l’effetto che un unico autore può suscitare in lui; Hans Reiter ne sceglie la complessa compresenza facendo suo il nome di quest’artista. Entrambi sembrano commentare in tal modo il tratto di storia che condividono: una storia violenta quale fu quella del conflitto mondiale, in cui le categorie del reale slittano e si sconvolgono, così come nell’epoca pre-barocca a cui risale il pittore italiano erano state rivoluzionate dalle scoperte scientifiche che privavano la terra e l’uomo della propria secolare centralità. Bolaño potrebbe a sua volta aver suggerito l’importanza di questa contraddizione, affidando al personaggio Reiter-Arcimboldi il ruolo di protagonista – seppur spesso decentrato e disperso – di questo ciclo narrativo. Potrebbe aver quindi tracciato un ponte fra passato e presente nel segno di una violenza (reale o conoscitiva) che riposiziona lo sguardo sul contemporaneo.
L’allegria si lega alla composizione artificiosa e magnifica del reale, al gioco astuto e intelligente che nell’intreccio di materiali, forme, storie, intuisce ironicamente un’unità sempre pronta a rivoluzionarsi. Il terrore è suscitato dal ribaltamento improvviso, che non solletica l’ego dell’osservatore, blandendo le sue capacità interpretative, ma lo coglie alla sprovvista, lasciandolo disorientato e sconvolto. Il ribaltamento è inquietante come un incubo, come l’inconscio di un uomo che a singhiozzi emerge, come il rimosso di una nazione; la spazzatura gettata nell’angolo e dimenticata, che però in qualche modo ti descrive, ti commenta. Queste esperienze possono avvertirsi separatamente, oppure collocarsi l’una nell’altra, in un conturbante rapporto speculare, per cui l’una è l’altra, se guardata da una diversa prospettiva.
Si trovano numerose figure di rovesciamento nelle pagine di questo romanzo: una, già rilevata, è quella che fa sì che un tedesco si insinui nella storia e nel punto di vista di un ebreo. Si potrebbe aggiungere un’immagine significativa, che possa fermare nella memoria la sensazione legata a questo tipo di esperienza: siamo in un sogno, quindi in un contesto di distorsione della realtà, se la realtà è quella della veglia. Nel sogno ci sono due specchi; una donna – la stessa che sogna – si osserva al centro della fuga prospettica che questi, in quanto posti uno di fronte all’altro, provocano. Il campo degli specchi la intrappola, le impedisce di muoversi. In questa posizione forzata – che è anche osservazione forzata – emerge dalla moltiplicazione labirintica dell’immagine di sé il sospetto di non appartenere a quel riflesso.
[…] lo sguardo della donna nello specchio e il suo s’incrociarono in un punto imprecisato della stanza. Gli occhi di lei erano uguali ai suoi. Gli zigomi, le labbra, la fronte, il naso. La Norton si mise a piangere e pensò che piangeva dal dolore o dalla paura. È uguale a me, si disse, ma lei è morta. La donna provò a sorridere e poi, quasi di colpo, una smorfia di paura le sfigurò il volto. (135)
Le parti della donna – zigomi, labbra, fronte, naso – ci son tutte, ma ricomposte in modo differente a causa di una deformazione della realtà, in questo caso procurata dal sogno e dallo specchio. La donna di questo frammento si chiama Liz Norton, viene dall’Inghilterra ed è una ricercatrice universitaria; al momento dell’incubo si trova in un hotel nella città di Santa Teresa (nella realtà Ciudad Juarez) al confine fra Messico e Stati Uniti, dove è giunta insieme ad altri studiosi sulle tracce di Arcimboldi; non sa quasi nulla di ciò che avviene in questa città, è distratta dal suo obiettivo personale. In questa città uccidono donne.
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