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Sconsigliati d’estate. L’epica iperletteraria di Matteo Nucci

 Avrebbe potuto essere uno dei romanzi più significativi dell’anno È giusto obbedire alla notte di Matteo Nucci, incentrato, nelle intenzioni dell’autore, su un tema forte: il trattamento epico della catabasi nel dolore più grande e immedicabile che un uomo possa vivere –  la perdita di un figlio – e della catarsi che ne può seguire. Ma, a lettura conclusa, resta un senso di insoddisfazione proprio riguardo alla costruzione del protagonista, “indimenticabile personaggio, antico e moderno assieme” secondo l’iperbolica logica del risvolto di copertina, e, invece, sfilacciato e inconsistente per l’artificiosità e per l’affastellamento dispersivo di personaggi e vicende.

Nucci, appassionato e fine conoscitore dell’antichità, compie un’operazione iperletteraria tanto nei richiami intertestuali al mondo classico – evidenti sia nel nome di ascendenza euripidea del protagonista, Ippolito, sia nel titolo e nella citazione in esergo tratti dal VII libro dell’Iliade – quanto nelle scelte stilistiche, compiaciute fino all’esibizione di ricercatezza (“Sopra al blu leggero in cui si decomprime la fascia di cielo si abbarbica, come un mostro che è pronto a schiacciare ogni cosa, un’immensa, deforme orrorifica caterva di nubi che s’incastrano come sbrindellandosi le une dentro le altre e che si avvolgono in striature argentee e poi plumbee e diventano nere in cima , sulla più alta calotta del cielo, diventando nerissime e quasi violacee sopra di me  e sembra che dentro ci sia una mano enorme, un pugno devastante e che il giallo dello sfondamento sia lì lì per comparire in forme elettriche e distruttive” p. 215)  o, viceversa, alla scontata mimesi del romanesco parlato dai pescatori di anguille che compaiono nel romanzo (“Giulio hai rotto il cazzo. Mica ce so’ abituati loro. Stanno qua a imparà, a pescà, a vedè le anguille. Mi ca a sentì le cazzate tue” p. 15).

In tal modo l’autore, in apparenza deciso a stare alla larga dalla “cartapesta di consumo” (Cortellessa), finisce per appropriarsi di consolidate modalità narrative midcult, in particolare di quella “patente di letterarietà” (Matt) che contribuisce a realizzare un romanzo stratificato ma irrisolto e che determina un movimento centrifugo nel lettore rispetto alla vicenda dolorosa di Ippolito.

 Diviso in tre parti – Fiume, Fuga, Fame – il romanzo presenta un andirivieni temporale circoscritto ad un ristretto arco di anni (2012-2016) e a una fase cruciale della vita del protagonista, ex archeologo cinquantenne che ha abbandonato la “Roma dei bastioni” per ritirarsi sulle sponde del Tevere, a vivere in un’anomala comunità dove è chiamato “il dottore”. Si tratta di un melting pot di uomini e donne che solo su un’ampia ansa del fiume della capitale, fuori dagli argini cittadini, laddove il mare è prossimo, sembra ridare senso alla propria esistenza spesso border line tra i canneti, le nutrie, le chiatte. Ippolito lascia la città, e con essa la propria identità rinunciando per sempre al suo nome, dopo che un evento traumatico gli fa sperimentare il Dolore per antonomasia: come un eroe dell’antica Grecia “obbedisce alla notte”, sperimenta la discesa nella sofferenza più grande. Tuttavia il percorso di rinascita in una Roma  marginale, capace di autenticità e di solidarietà solo nei suoi più reconditi anfratti abitati da un popolo multietnico, risulta artefatta. Nel complesso la vicenda del Dottore, infatti, si stempera e perde il suo vigore: si sfilaccia tra le vivide comparse (Victoria, Giulio, Cesare, Huertas) che lo attorniano in Fiume e Fame dove la mediazione narrativa è in terza persona;  si fa convulsa, invece, nella parte centrale dell’opera, Fuga, raccontata in prima persona da un affastellante fluire di pensieri, ricordi, stranianti proiezioni future, stralci di favole e dominata dal rapporto febbrile e ormai compromesso con la moglie Anna e da quello esclusivo, ma fuori dalla realtà, con la piccola Teresa.

Tra ricercato lavoro sulla lingua e pathos epico di cui Ippolito dovrebbe essere esemplare rappresentante, nel romanzo finisce per istituirsi un contrasto stridente che, alla lunga, incrina il patto narrativo tra lettore e autore.  Infatti la mescolanza di linguaggi diversi (dall’idioma romanesco all’italiano stentato degli stranieri, alla lingua colta del protagonista); l’insistito uso del flusso di coscienza; il gusto per espressioni così liriche e raffinate da incorrere nel rischio di compiaciute immagini metaforiche distolgono dalla possibilità di sentire empaticamente e fino in fondo il dolore di Ippolito.

 Infine, il suo nostos nei luoghi dove Teresa ha conosciuto rari e brevi momenti di indimenticabile felicità – dall’ippodromo di Tor di Valle al ristorante-chiatta Anaconda sul Tevere – finisce, insomma, per essere una costruzione sentimentale: nulla a che vedere con la  tregua notturna che, nell’epica, viene concessa agli eroi impegnati in un duello e allusa nel titolo. La pretesa “rinascita” di Ippolito si riduce, piuttosto, a una fuga privata che lascia libero il campo alla  coralità del popolo del fiume “attraversato da un’arcaica spiritualità” (Simonetti).

L’ambizioso disegno di cesellare la figura di un nuovo eroe epicamente disposto a sobbarcarsi il dolore che la vita gli ha imposto e a cercare una nuova identità in un Altrove marginale e centrifugo risulta, dunque, in parte fallito e in parte irrisolto: sfuggente il percorso per giungere al cuore del suo racconto; discontinuo il tono e il modo della narrazione; troppo scoperta, infine, la ricerca di “un’opulenta letterarietà” (Simonetti).

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