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(S)consigliati per l’estate. Il caffè della fornarina, ovvero su Guardami negli occhi di Giovanni Montanaro

 Nella sterminata produzione narrativa dell’Italia di oggi si registra, come del resto è naturale, una netta preponderanza di romanzi di consumo. Il fenomeno in sé non andrebbe demonizzato: è normale che gran parte dei lettori vada in cerca di testi che non richiedono un particolare impegno. Considerando poi i dati preoccupanti sulla lettura, che di anno in anno peggiorano (caso unico nel mondo occidentale), si può senz’altro considerare accettabile l’eventuale successo di libri di intrattenimento, che magari attraggono persone altrimenti non disposte a prendere un romanzo in mano. A patto però che si tratti di un intrattenimento intelligente: troppo spesso invece vengono pubblicati testi che non raggiungono una soglia di decenza. Un compito fondamentale della critica giornalistica sarebbe proprio offrire una guida, indicando con chiarezza quali romanzi vale o no la pena di leggere: ma con qualche eccezione le recensioni assomigliano ormai ad inserti pubblicitari, arrivando a magnificare libri che nessun lettore di qualche esperienza dovrebbe prendere per buoni.

Particolarmente bene accolti sono solitamente i romanzi improntati a quella che si può definire pseudoletterarietà: testi che ammiccano alla cultura alta, ma procedendo attraverso banalizzazioni che vanno oltre ogni limite di accettabilità. Sono libri che dànno la sensazione al lettore ingenuo di essere di fronte alla grandezza della storia, dell’arte o del pensiero: ma senza dover fare alcuno sforzo di reale apprendimento o riflessione. Si tratta in buona sostanza del corrispettivo letterario di certi viaggi organizzati nelle città d’arte, in cui si viene portati a vedere in grande fretta molti capolavori, per poi tornare a casa senza alcun arricchimento, neppure minimo.

Un tipico esempio di questo genere di romanzi è Guardami negli occhi di Giovanni Montanaro (Milano, Feltrinelli, 2017); vi viene raccontata la vita della Fornarina dopo la morte di Raffaello, con l’intento dichiarato di rendere giustizia ad una giovane donna messa ai margini e costretta al silenzio dalle convenzioni sociali del tempo, che impongono di nascondere la relazione scandalosa del grande pittore. Un tema che non può non incontrare il gusto di un certo pubblico (si usa questa parola non a caso: il romanzo sembra fatto per essere trasposto in uno sceneggiato).

Tutto può divenire oggetto di buona letteratura, se l’autore lavora adeguatamente su modi di rappresentazione e stile; ma questo, manifestamente, non è il caso in questione. Il romanzo è una raccolta, per fortuna breve, di banalità. Il lettore meno ingenuo viene messo sull’avviso sin dal prologo, in cui si imbatte in sentenze da rotocalco come questa: «Perché certi amori sono diversi dagli altri, e non finiscono mai, non sanno finire, è come se facessero i semi, e continuano a fiorire, nonostante il tempo che passa?» (p. 14). Arrivato al congedo, gli toccherà prendere atto delle sensazioni provocate all’autore dalla visione del dipinto, espresse con una prosa di schietta marca tardoadolescenziale: «È solo una tavola, ma pare che sia lei. La guardo. Mi emoziona sempre, sin da quando ero bambino. Mi pare vera, mi pare qui davanti a me. Si vede che è felice, che è amata. No, non invecchierà mai. Non invecchierà più» (p. 140).

Quello che dovrebbe essere il punto di forza del romanzo è l’adozione della prima persona: a raccontare è infatti la stessa Fornarina. Rendere credibile la voce di una giovane donna vissuta mezzo millennio fa non è certo impresa facile. L’autore non pare essersi posto neppure il problema, tarando pensieri ed espressioni su quelli di una qualsiasi ragazza di oggi; sono frequenti i passi, come i seguenti, che paiono presi di peso dalla rubrica delle lettere di un settimanale: «È che mio padre era orgoglioso, era un padre, voleva esserlo con me, e si era ripromesso che le sue malinconie e i suoi problemi non sarebbero mai diventati i miei» (p. 33); «avevo qualcosa che nessun’altra aveva, come il potere di capirlo, di calmarlo, di farlo sentire nell’unico posto dell’universo dov’era felice di stare, anche se poi voleva andarsene» (p. 46); «Io mi ero sognata che volesse solo me, che io potessi bastargli. Invece no. […] Il mio grande amore era sbagliato» (p. 51).

Chi intende praticare il genere del romanzo storico è tenuto a compiere qualche ricerca sugli ambienti che vuole raffigurare, per evitare di cadere in errori grossolani: Montanaro si è palesemente astenuto da questa saggia regola. Così, capita che nel primo Cinquecento descritto nel libro si beva caffè (grande passione della protagonista) e si mastichi tabacco; inoltre si inviano mazzi di orchidee alle fanciulle e si va dal farmacista. Ciò che fa riflettere, alla lettura di Guardami negli occhi, non è tanto l’imperizia mostrata a tutti i livelli dall’autore, quanto il fatto che venga ormai considerato normale pubblicare romanzi così sgangherati: le reazioni sono state perlopiù positive, e i difetti qui sinteticamente evidenziati, che dovrebbero saltare agli occhi di qualunque lettore con un minimo di esperienza, non sono stati notati da nessuno. Una caratteristica comune a troppa parte della produzione editoriale dei nostri giorni è la mancanza di rispetto per i lettori. Segnalare libri da evitare può essere uno dei compiti ecologici della critica, tanto più in un momento in cui l’eccesso di offerta nel campo del romanzo rende difficilissimo orientarsi anche per il lettore più volenteroso.

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