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diretto da Romano Luperini

 È uscito da Carocci il libro che raccoglie relazioni e interventi del convegno tenutosi nel settembre 2016 all’Università di Liegi su Federigo Tozzi in Europa. Il libro, a cura di Riccardo Castellana e Ilaria de Seta, pubblica saggi degli stessi Castellana e de Seta, di Matteo Palumbo (Le epifanie di Tozzi), Romano Luperini,  Massimiliano Tortora (Tozzi e la tradizione del romanzo impiegatizio europeo), Marco Menicacci, Valeria Taddei e altri. Pubblichiamo qui il breve saggio di Romano Luperini, intitolato Tozzi e le emozioni.

TOZZI E LE EMOZIONI

Parto da una citazione di Musil:

Ella pensò: si traccia una linea, una sola linea coerente, per trovare un appoggio fra le cose che torreggiano mute; questa è la nostra vita; qualcosa come parlar senza più smettere e illudersi che ogni parola derivi dalla precedente e susciti la seguente, perché si ha paura, se il filo si strappa, di vacillare e di essere inghiottiti dal silenzio. […] Vide tutta la sua vita dominata dal continuo tradimento per cui, mentre per tutti gli altri si resta la stessa persona, ci si stacca da se stessi, dall’estrema, inesauribile tenerezza, lontana dal pensiero cosciente, attraverso la quale si è uniti con se stessi più profondamente che con tutto ciò che si fa.[1]

L’esistenza ordinaria è un continuo tradimento che ci allontana da noi stessi, da un fondo oscuro, da un bisogno di amare e di essere amati, da una sete di tenerezza che spinge la protagonista, che pure ama il marito, a tradirlo per un insignificante consigliere ministeriale. In I furiosi, un dramma contemporaneo alla novella ma pubblicato un decennio più tardi, questa estrema tenerezza lontana dal pensiero cosciente viene rappresentata come «un pezzetto ancora fluido del nucleo di fuoco della Creazione»[2].  È il ricordo e il richiamo di questo fondo oscuro e di questa tenerezza creaturale e corporale a legarci alla nostra vita profonda assai più delle azioni e delle parole a cui siamo costretti dalle convenzioni per restare coerenti con noi stessi e identici nella considerazione degli altri. Ogni tanto il filo si spezza, il continuo tradimento di quel bisogno d’amore viene meno e per un attimo si torna fedeli al nostro essere profondo.

Siamo di fronte a un tema fondamentale del modernismo europeo: il filo che si spezza di Musil corrisponde allo strappo nel cielo di carta di Pirandello, alla madeleine e alla memoria involontaria di Proust, alle epifanie di Joyce, o al «misterioso atto nostro» e all’atto di raccogliere un sasso durante una passeggiata di cui parla Tozzi. E per restare a Pirandello, d’altronde amico e collaboratore di Tozzi,   tutta la sua dialettica fra forma e vita, fra convenzioni e maschere da un lato e vitalismo anarchico dall’altro, corrisponde a quella fra la coerenza sociale imposta dal vivere civile e il nucleo di fuoco della Creazione estraneo al pensiero cosciente di cui parla Musil.

Questo strappo in Tozzi può darsi in modi diversi. Il più noto è quello dell’allegoria vuota di Bestie, che qui basterà richiamare brevemente.

Come si sa,  le bestie di Tozzi non sono protagoniste di alcuna narrazione e, soprattutto, non esprimono alcuna verità; semmai ne manifestano l’ assenza. Non occupano quasi mai il centro del frammento, ma stanno  in una posizione laterale, di sbieco, in un angolo, quasi sempre, si direbbe, per caso, spesso senza una ragione narrativa; talora addirittura si limitano a chiudere o  a intercalare in modo fortuito un elenco di oggetti, un inventario di cose e persone. Possono essere persino del tutto accessorie, come le passere del frammento n. 50. Oppure apparire in chiusa senza una ragione apparente né alcun valore simbolico, come il merlo nella gabbia del frammento n. 4 o il pettirosso del n. 7 o la tartaruga del n. 36. Semmai,  se una funzione può essere loro attribuita con una qualche frequenza, è quella dello straniamento, che rende assurda l’azione e la prospettiva del soggetto umano: è così il tarlo che vanifica il lavoro di costruzione di una tavola (frammento n. 2), o il topo che fa crollare il sogno mistico del protagonista nella chiesa di S. Francesco (n. 20) o il ramarro che col suo sguardo intelligente manda a monte l’incanto panico (dannunziano-simbolista) dell’io narrante in cammino attraverso  la campagna toscana (n. 38). La loro apparizione laterale produce una rottura, una sorpresa, uno shock, talora una vera e propria mise en abîme, che sospende il senso consueto, scompaginando le attese del lettore. In questi casi la bestia produce l’effetto, come ebbe a dire Benjamin a proposito di Kafka, di una “allegoria vuota”: non  restaura il senso, ma ne indica il vuoto; segnala un bisogno di significato che però resta aperto e irrealizzato.

La posizione prevalentemente marginale della bestia serve a mettere in discussione il centro, occupato dall’uomo, problematizzandone le sicurezze (si veda, per fare un solo esempio, l’effetto che ha il pavone sul proprietario del podere nel frammento n. 35). o disorientandone le attese e le prospettive (come negli esempi sopra ricordati del tarlo, del topo e del ramarro). Che il laterale, il periferico, il  particolare contesti il centrale e il generale e la bestia sovverta la razionalità umana è già un bel colpo assestato al supposto logocentrismo del moderno (che, beninteso, come si può vedere anche in Tozzi, era già stato contestato parecchi decenni prima del postmodernismo, che si è assunto   il vanto di una precedenza in realtà insussistente). La presenza immotivata dell’animale disturba, devia, capovolge i consueti paradigmi. L’uomo non controlla il proprio destino, né il senso della propria esistenza. In Tozzi, come nel racconto di Musil da cui sono partito, il caso  ha un ruolo importante, e in Bestie decisivo. D’altronde l’ordine stesso dei diversi frammenti sembra sfuggire a una logica riconoscibile.

In Tozzi tuttavia è presente anche un altro modo di significazione: non l’allegoria vuota, questa volta, ma l’epifania. Il filo di cui parla Musil può strapparsi in coincidenza con una emozione epifanica. D’altronde la narrazione di Tozzi è sempre intessuta di emozioni. Si potrebbe dire che l’aspetto puntiforme della scrittura, la sua qualità profonda, dipenda proprio dall’esigenza di dare forma al predominio delle emozioni e di fare della pagina, segnata da procedimenti paratattici e da una successione di impuntature e di cesure, una sorta di sismografo dell’anima dei personaggi. Ebbene,  talora le emozioni assumono in Tozzi  un valore particolare. E non parlo qui di emozioni in senso generico, bensì nella accezione specifica (e scientifica)  illustrata da uno dei maggiori teorici che si siano posti alla scuola di Freud, Ignacio Matte Blanco. Per il quale l’emozione-pura o emozione-sentimento è atemporale. Mentre il pensiero accade, si colloca in una dimensione temporale, l’emozione pura, afferma Matte Blanco,  si sperimenta come qualcosa che non accade ma semplicemente è. Rompe la crosta del tempo, spezza la linea della temporalità.  Può verificarsi, e spesso si verifica, che l’emozione pura si trasformi in emozione-pensiero, e allora si  passa dalla sensazione alla percezione. Mentre nella sensazione prevale nettamente il principio di simmetria, nella percezione (o emozione-pensiero) trionfa la bi-logica cosicché simmetria e asimmetria appaiono compresenti. Inoltre nella emozione-sensazione il sentimento che ci fa sfondare la linea del tempo, e anche quella dei riti e delle forme del vivere sociale, coincide spesso con una scossa corporea, si manifesta attraverso tremiti, pallori, balbettamenti che il lettore di Tozzi riscontra spesso nei suoi personaggi e che li condanna, come sappiamo, alla inettitudine.  La emozione-pura può darsi da sola, avvisa ancora Matte Blanco, oppure può preludere all’emozione-pensiero, e in questo secondo caso l’emozione può diventare matrice di pensiero: può aprirsi allora uno straordinario cortocircuito fra intuizione prelogica e riflessione ispirata invece alla logica classica[3] .

In una novella di Tozzi, Gli orologi, il protagonista vive una vita ripetitiva regolata dal tempo e dalle abitudini sociali che scrupolosamente rispetta ogni giorno. Il dominio del tempo si verifica attraverso il dominio degli orologi che lo misurano e lo scandiscono, inesorabilmente avvicinando Bernardo Lotti al momento della morte. Ogni giorno il protagonista li carica, tutti e sette, uno alla volta. C’è una corrispondenza perfetta fra la vita  del protagonista e quella battuta dai pendoli, sino alla finale e pressoché contemporanea interruzione della vita dell’uomo e di quella degli orologi che, privi di carica, cessano alla sua morte di segnare le ore. Vero protagonista del racconto è dunque il tempo, sia come tema che come passo narrativo, essendo quest’ultimo fondato su una successione monotona  di motivi dimessi, grigi, atonali, in una sovrapposizione perfetta, nel ritmo musicale di un “pianissimo”, fra tempo del racconto e tempo della storia. All’andamento abitudinario e ripetitivo dell’esistenza quotidiana di Bernardo, che ogni giorno, alle stesse ore, compie gli stessi gesti, corrisponde il battito sempre eguale dei sette pendoli. L’intercambio simbolico fra l’uomo e gli oggetti, qui gli orologi, è sottolineato dal processo di antropomorfizzazione che attribuisce loro sentimenti e paure. Gli orologi sono i veri padroni della vita del protagonista che infatti, a un certo momento, giunge persino ad avere paura a guardarli. Una «disperazione melanconica» – non estrema, dunque, non esasperata, ma uniformemente opaca – si stende su tutto il racconto, costruito su una ininterrotta giustapposizione di sensazioni minime. L’intensità  è raggiunta puntando non su momenti traumatici o fortemente espressivi, ma sull’accumulo di sensazioni insignificanti. E infatti qui (ma questa non è[4] una novità in Tozzi) l’azione manca del tutto, la trama è quasi inesistente. L’unico altro personaggio della novella, il limonaio, è un doppio del protagonista. E infatti gli orologi, Bernardo e il limonaio subiscono tutti lo stesso destino: quando il protagonista viene portato al cimitero, gli orologi finiscono nel negozio di  un rivendugliolo e il limonaio viene chiuso per sempre nel manicomio.

Il tempo verbale della ripetizione è l’imperfetto, che infatti domina tutto il racconto, dall’inizio sin quasi alla fine. Con due eccezioni, in cui compare il tempo verbale del passato remoto che coglie invece un momento significativo o traumatico o comunque un’azione puntuale. Una eccezione corrisponde al momento della scomparsa, nella pagina finale, tanto del protagonista («la morte prese anche Bernardo …morì …vide il cielo sino all’ultimo» ecc.),  quanto degli orologi («ad uno per volta gli orologi si fermarono»), e del limonaio («non escì più dal manicomio»). L’altra eccezione  merita  di essere considerata più da vicino. Si trova al centro della novella, dove si legge:

Una volta, scostò un poco quello [l’orologio] di camera: gli fece effetto a vedere come, sotto, la parete s’era conservata bianca e fresca: sempre lo scialbo del tempo delle nozze! Allora anche i mazzetti delle rose si colorirono, ed egli sentì proprio il loro odore: come quello del mazzetto che la sposa gli aveva messo da sé all’occhiello  una mattina dei loro primi tempi. La bocca della sua sposa era ancor bella e i capelli neri, e non importava che il viso avesse sofferto, e il neo del mento fosse cresciuto troppo. E se il collo le si gonfiava, la pelle era ancora liscia; e, quando egli le vedeva le spalle, aveva mezza voglia di baciargliele (…).

Bernardo, che è vedovo da tanto tempo, prova una sensazione più viva e forte di ogni altra descritta nel racconto. Un gesto casuale (spostare un poco il pendolo di camera) produce un effetto improvviso,  non previsto , per dir così, illogico. La vista dello scialbo, rimasto inalterato dal tempo delle nozze, di colpo gli fa risentire l’odore del mazzetto di rose (il bouquet della sposa) e rivedere il loro colore. Infatti le rose dell’orologio (e precisamente quella «ghirlanda di rose, a mazzi, dipinta attorno alle ore» nel quadrante del pendolo di cui si parla all’inizio del racconto) recuperano a un tratto i colori («si ricolorirono») e il profumo di un tempo e diventano per analogia quelle del bouquet che una mattina la sposa gli aveva posto all’occhiello. Come si vede, siamo in pieno dominio del principio simmetrico. La trasformazione delle rose della ghirlanda dipinta in quelle del bouquet nuziale non ha spiegazioni all’interno di una logica classica.

Inoltre, come sempre in area modernista, il caso è alleato  del corpo, delle emozioni e delle epifanie. Caso e Dioniso vanno sempre insieme. E infatti l’eros irrompe sulla scena con il ricordo dell’amore per la moglie ai «loro primi tempi». Il rimosso riaffiora; riaffiora – traccia tenace di desiderio, insopprimibile anche in un vecchio – quell’«estrema  tenerezza», quell’oscuro e incandescente nucleo creaturale di cui parla Musil.

Come accade con la madeleine di Proust, scatta la memoria involontaria e si dà uno sfondamento epifanico della ripetitività temporale. L’epifania, suscitata dal gesto accidentale, fa smarrire la dimensione temporale immergendo il soggetto in quella, atemporale, del corpo e dei sensi, olfatto e vista,  profumi e  colori. L’emozione pura dura un attimo (anche se, avvertirebbe Matte Blanco, quest’ultima espressione, “un attimo”, rinviando a una successione cronologica, non sarebbe del tutto corretta), poi, con il ritorno dell’imperfetto all’interno stesso della scena rievocata, si riaffaccia di nuovo anche la dimensione temporale (seppure, ancora, riferita al periodo lontano dei «primi tempi» del matrimonio) e, con essa, la logica classica che presiede alla riflessione: si  passa, cioè, dalla emozione-sentimento all’emozione-pensiero («non importava che il viso avesse sofferto e il neo del mento fosse cresciuto troppo … se il collo le si gonfiava»).

In Gli orologi Eros e Thanatos, l’emozione che produce la memoria involontaria e il momento della morte rompono in due punti la catena temporale. Entrambi, come le bestie dell’opera omonima, sfuggono al controllo e alla volontà dell’uomo. La creatura umana è gettata in un mondo  privato di senso, ridotto a meccanica scansione di un tempo ripetitivo, a  una gabbia di abitudini e di convenzioni, da cui si può sfuggire solo per un attimo e solo per caso: è il caso infatti a determinare la comparsa laterale della bestia o l’incidente da cui scaturisce l’emozione. L’allegoria vuota denuncia questa mancanza di senso, mentre l’epifania ne è  una sfida momentanea e impotente. Ed entrambe, come si è visto, hanno a fondamento il potere del caso.

Tutt’e due, infine, e in conclusione, rappresentano due modi di significazione tipici della modernità e del modernismo primonovecentesco in particolare. Non c’è, ovviamente, da rallegrarsene. Però, attenzione. Nell’arte l’assenza di controllo sulle cose può essere controllata. La descrizione di una confusione può non essere confusa. E il dominio del caso può non essere casuale. Come ha scritto Adorno: «L’estraneità di senso che il caso fa penetrare in ogni prodotto estetico imita quella dell’epoca; riconoscendo esplicitamente l’estraneità di senso della totalità, il caso obbietta nei confronti di essa.


[1]
           R. Musil, Il compimento dell’amore, in Romanzi brevi, novelle e aforismi, Einaudi, Torino 1986, p. 225 e p. 217.

[2]
           R. Musil, I fanatici, Einaudi, Torino 1964, 126.

[3]
           I. Matte Blanco, Pensare, sentire, essere, Einaudi, Torino 1995.,

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