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Amianto e storia operaia. Alberto Prunetti incontra gli studenti

 A cura di Daniele Lo Vetere

Lo scrittore Alberto Prunetti ha incontrato gli studenti e le studentesse di un liceo senese. Questa è l’intervista che il nostro collaboratore Daniele Lo Vetere gli ha fatto in quell’occasione.

1. Amianto è la storia di tuo padre, ma è anche la storia di tutti i morti per amianto italiani; ancor di più, direi, è la storia dei morti di fabbrica tutti. C’è un pezzo di storia operaia dentro questo libro, entro quella va contestualizzato. Dentro questa storia però ci sei anche tu. Nel libro c’è un’immagine simbolicamente molto efficace, che riconnette la storia privata a quella nazionale: dici di essere nato a Piombino, ma concepito a Casale Monferrato, la città dell’amianto. È come se tu avessi sentito che nella tua persona precipitava la storia precedente della nazione, di una classe sociale, di tuo padre e di chi l’ha preceduto. C’è anche l’orgoglio di un’appartenenza, anche se è doloroso e rabbioso perché ha significato morte. Questo autobiografismo “non autoreferenziale”, se mi passi la formula approssimativa, dà al tuo libro, che comunque è il racconto fedele, documentato, della vita e della morte di tuo padre, una forza notevole, che va oltre il libro di denuncia o il racconto biografico. Almeno questo è quello che ho sentito leggendolo. Ho sovrainterpretato?

Sì, nelle mie intenzioni c’era proprio questo: mettere in tensione la storia personale con la storia di una classe sociale e poi vedere l’effetto che fa. Si creava attrito con le narrazioni delle vulgate correnti sulla fine della classe operaia, il miracolo economico, la bolla economica e antropologica degli anni Novanta? Era una memoria personale, un omaggio privato al padre, o piuttosto un frammento di un più esteso atlante delle memorie operaie? E’ una narrazione della crisi e del conflitto? Un’autofiction raccontata una volta tanto senza narcisismo o pietismi? Direi un po’ di tutto questo. E’ anche un testo che cerca di legare due generazioni, in anni in cui, tagliando a mansalva diritti e welfare, ci raccontavano la panzana dei “vecchi che avevano vissuto nel lusso”, dei pensionati “che a lavoro strisciavano solo il cartellino”. Il debunking di uno storytelling odioso che infamava il duro lavoro di una generazione di operai, gli stessi che a partire dagli anni Sessanta avevano strappato diritti e salario a padroni che non regalavano nulla. Tute blu con la terza media in tasca che, a colpi di sacrifici, complice una democratizzazione dell’accesso agli studi, avevano fatto studiare i figli fino all’università, pagando talvolta un duro prezzo sul corpo e sulla salute. Tutto questo sta in Amianto, ma non lo racconto con queste parole, ma con aneddoti e pagine che alternano umorismo e tragedia, leggerezza e densità. In parte Amianto è anche una scrittura di formazione. Anzi di deformazione, perché il corpo del protagonista si deforma pagina dopo pagina.

2. Quando lo scrivevi pensavi esplicitamente di collocarti in quella categoria di testi che va sotto l’etichetta di “non-fiction novel” e che Wu Ming, nel dialogo che fa da postfazione al libro, chiama “oggetto narrativo non identificato”? La reazione alla finzionalità pura e la ricerca di un effetto di realismo e di verità attraverso l’uso di stralci di vita, foto, documenti, … è un obiettivo che ti interessa in generale, come scrittore e lettore, o è legato specificamente alla scrittura di Amianto?

Quando con mio padre facevamo una gettata di cemento, ci mettevamo dentro un po’ di tutto. Ghiaia, calcina, sabbia, sassi, calcinacci, pezzi di cotto, vecchi ferri rugginiti. Dovevi vedere come teneva… Eco, la mia scrittura tiene in quello stesso modo, come una gettata d’amalgama. Uso da tempo, anche prima di Amianto, una scrittura d’impasto con carte d’archivio, memorie orali e familiari, aneddoti rubati al bar o al circolo Arci. E poi ovviamente le letture, che son quello che ti dà l’estensione di scrittura. Ma quando scrivevo, andavo a orecchio, non mi ponevo delle norme stilistiche. Pensavo solo a scrivere, come un sassofonista – tento un paragone musicale, io che sono la creatura meno dotata in campo musicale – come un sassofonista che inventa e suona a orecchio. E’ improvvisazione ma dietro c’è il mestiere. E il mestiere si costruisce col lavoro duro e la fatica. Io non mi sono detto “adesso scrivo una cosa nel filone della creative non fiction”. Io leggevo anche creative non fiction (perlopiù latinoamericana) e mi è venuto spontaneo scrivere sull’eco di quelle letture, seguendo uno spartito immaginario che avevo montato di lettura in lettura. In realtà, la mia stessa vita è un rimbalzare di forme e lavori diversi e questa precarietà può essersi riflessa nel rifiuto di una forma specifica e nell’ibridazione tra forme espositive diverse e stratificate. Quella di Wu Ming 1 è una ricapitolazione successiva alla scrittura, che è molto sensata, perché, come ho già detto, le cose migliori che sto leggendo in questi anni vengono proprio da quel filone che ha mandato in aria i confini tra il saggio, il memoriale e il romanzo-romanzo. E’ un fenomeno che attraversa tutta l’America Latina da anni, è forte nel mondo anglosassone e anche in Francia. Per rimanere a quest’ultimo paese, ho letto solo dopo aver scritto Amianto opere di auto-fiction con una tessitura, almeno in parte, simile alla mia: dal più snobbish – ma bravissimo – Carrère all’inarrivabile, per le grandi capacità stilistiche, Annie Ernaux. Al tempo stesso, io guardo alla grande tradizione della scrittura working class, soprattutto britannica… è un romanzo-romanzo, ma Sabato sera, domenica mattina di Sillitoe per me è un testo fondamentale, tanto quanto le indagini sui minatori e sul ruolo degli intellettuali nel neocapitalismo di Luciano Bianciardi.

3. Quando vai nelle scuole quale di questi temi interessa di più gli studenti? Sono più interessati al risvolto autobiografico e biografico, ai temi sociali e politici, alle forme della scrittura?

Dipende. In genere la parte biografica/autobiografica è quella che colpisce di più i ragazzi. Il rapporto col padre, ovviamente, è molto forte e problematico negli anni dell’adolescenza. Negli istituti professionali c’è molta attenzione per il tema del lavoro, ma i ragazzi faticano a capire l’importanza delle lotte sociali sul posto di lavoro. La questione della sicurezza sembra ai loro occhi più importante di quella rivendicativa e salariale. Qualcuno poi è rimasto colpito dalla maniera in cui il tema dell’omosessualità è trattato nel libro, cosa che mi ha colpito perché si tratta di un passaggio davvero breve.

Con le studentesse del pedagogico abbiamo parlato anche di forme narratologiche dello sviluppo testuale, cosa che mi ha fatto molto piacere. Al classico e allo scientifico non mi hanno ancora chiamato, sarei curioso di capire quali elementi del libro stimolano di più la loro immaginazione.

Una cosa che mi ha colpito, incontrando gli studenti, è questa: i ragazzi di un professionale di Brescia mi hanno detto di essere rimasti sorpresi dal tema dell’orgoglio operaio. Loro non si sentivano orgogliosi di venire da famiglie operaie o di diventare presto giovani operai, cosa che invece era molto forte in passato. Chi cresceva in un ambiente operaio, in genere era fiero della propria provenienza. E’ ovvio che c’è stato un forte mutamento in cui la classe operaia si autorappresenta nell’immaginario: oggi la sua esistenza è negata o rappresentata disforicamente, quando le statistiche ci dicono che in realtà gli operai sono ancora milioni in Italia. Ma sono diventati invisibili, non occupano più le strade o le fabbriche. Anche la tuta blu è diventata grigia: perdere colore le ha tolto visibilità. Questo mi è parso esemplare e mi convince della necessità di usare la narrativa per alimentare un immaginario working class. Se perdiamo nell’immaginario, perderemo anche sul posto di lavoro.

4. Quali libri, film, documentari suggeriresti a un docente e a una classe per approfondire il tema dei morti per amianto?

Oltre al mio libro, il dramma dell’amianto è ben raccontato da La fabbrica del panico di Stefano Valenti. Un’altra opera che consiglio a tutti, per capire il lavoro dei nostri vecchi, è Ferriera, il graphic novel di Pia Valentis. Tra i documentari sull’amianto mi ha molto convinto Polvere di Niccolò Bruna.

5. Amianto ha un sottotitolo “Una storia operaia”, ma potremmo aggiungerne molti altri, per la quantità di temi che affronti: la trasformazione dell’Italia nell’arco di tre generazioni, dai nonni contadini ai padri operai ai figli laureati (la mia e tua generazione); il precariato di questi ultimi, che hanno studiato più dei padri ma che sembrano destinati a uno standard di vita inferiore; il confronto (il conflitto) di classe tra figli di proletari e figli di borghesi; la Toscana terra dura dell’industria, così diversa dalla Toscana del Rinascimento o del “Chiantishire”. Questa ricchezza, peraltro, è una delle ragioni di interesse di una lettura scolastica, perché il libro fornisce davvero un gran numero di spunti per lavorare. Questa ampiezza tematica è programmatica o è venuta fuori “spontaneamente”?

Sì, molti lettori rimangono stupiti della quantità di tematiche sollevate da un libro così breve. Io scagliavo frecce, in maniera estemporanea: tendevo le righe della scrittura come un arco e mentre il lettore segue il plot, all’improvviso si trova una freccia conficcata in un organo senziente, una freccia partita a sua insaputa, che lo interroga su queste tematiche che tu evidenzi. L’arco, ci dice un vecchio filosofo, come la lira funziona sulla tensione polemica degli opposti: nel libro c’è umorismo e tragedia, ma a tenerli assieme è il conflitto, che è padre di tutte le cose. Il conflitto sociale, il conflitto di classe, l’umorismo di contrasto tra alto e basso, tra cultura alta e cultura bassa. Senza conflitto Amianto sarebbe una bibita annacquata e nostalgica, potrebbe essere un memoriale vittimario o una commedia sul precariato contemporaneo. Col conflitto, con la narrazione del conflitto il libro diventa una macchina narrativa working class. Da qui la differenza di Amianto con certa narrativa del precariato: gli editori italiani negli ultimi lustri hanno mandato in stampa decine di libri sul precariato, interpretato però senza il conflitto sociale, in chiave generazionale o esistenziale. Amianto è una cosa diversa: storicizza il precariato e lo interpreta in chiave economica, sociologica, di classe. Tutto questo per dirti che la polisemia non è spontanea, è costruita. Ma è una costruzione che ho sentito sul mio corpo per decenni: non mi sono inventato nulla, ho dato forma nella scrittura ad anni di fantasmi e di riflessioni sul destino professionale di tre generazioni di lavoratori, evitando narcisismo, ammiccamenti e superficie: volevo profondità… A ragione tu parli anche di paesaggio toscano: io volevo raccontare la Toscana che sta oltre la cartolina o il film di costume di Pieraccioni. Una toscana ruvida, inquinata, impoverita, come la Piombino dell’altoforno spento. Mi è bastato guardarmi intorno, ritornare ai miei luoghi natali. Sono cresciuto guardando l’isola d’Elba, che dall’etimo è piena di ferro. Sul golfo di Follonica, alle spalle avevo le Colline Metallifere; da un lato vedevo Piombino, coi suoi pinnacoli di fumo, e dall’altro Punta Ala, dove i quattrinai facevano vacanza e dove noi e i nostri genitori operai andavamo a fare i “lavoretti” nelle ville dei ricchi. Mentre irrigavamo quei giardini, tagliando l’erba dei loro prati, li fissavamo con un odio di classe spietato. Non rimpiango che Amianto sia stato escluso dalla selezione della cinquina del Campiello nel 2013. Altrimenti avrei dovuto presentarlo a Punta Ala… e credo che senza un decespugliatore in mano a me da quelle parti non mi facciano neanche entrare.

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