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La stanza profonda dell’ego. Una riflessione e una proposta

 Il nuovo libro di Vanni Santoni, La stanza profonda (Laterza), parte da una tesi “post-apocalittica” molto precisa: nulla avviene per caso, il trionfo dei giochi di ruolo e delle loro espansioni on line (dentro le quali l’autore raccoglie, con un’analogia che forse valeva la pena approfondire, anche l’acquario di Facebook) è il segno di un’epoca dove tutto è diventato narrazione, la realtà/identità come la conoscevamo scompare e viene sostituita da un’attività ludica (le “pratiche” senza ideologia, ma sempre disgiuntive nel gerarchizzare vincitori e sconfitti, vittime e carnefici) il cui significato profondo (la coscienza, l’analisi logica, la scrittura, l’ego) soggiace al centro di un labirinto sotterraneo (l’inconscio, l’oralità, l’istruzione per l’esecuzione, il dio) diverso da soggetto a soggetto eppure eternamente uguale.

In pratica, l’architettura della «stanza profonda» è quella della mente bicamerale da cui si è generata, per collasso, la coscienza umana. E ora che un dio non ci parla più da là sotto e da là dietro, sostituito da un «dungeon master» qualsiasi, un nerd probabilmente, che dirige il gioco da un garage, che succede adesso?

«Alla fine quel che conta è l’idea chiave, il fatto che ci siano dei giocatori, un master, dei personaggi da interpretare, un mondo e un sistema aperto di regole.»

La tesi post-apocalittica è la seguente: non stiamo parlando solo del senso del gioco, ma del senso della vita, che dipende oggi, come la verità disancorata dalla vittima, dalla circostanza che un certo numero di persone sia d’accordo sull’interpretazione da dare agli eventi: ciò che determina, in conclusione, il sorgere stesso dell’evento (e della verità) dalla ctonia nebulosità dei fatti.

La novità apportata dal gioco di ruolo è infatti questa: «Dato che, a differenza dei giochi [e degli sport], non solo non presenta vincitori ma neanche un “fine”, ed è congiuntivo, dato che mette assieme persone che inizialmente erano separate unendole in un’esperienza comune, regolata da norme condivise… è un rito!»

Si tratta di celebrare un rito di passaggio nelle catacombe, ma da dove verso dove?  Dalla (falsa) coscienza dell’identità alla inter-coscienza della nullità dell’ego e della coscienza stessa? Questa, almeno, è la prospettiva che i profeti della rete immaginano per l’umanità: «Ciò che già sta accadendo – sostiene Ray Kurzweil, inventore e direttore del reparto ingegneria a Google – è che le macchine ci stanno potenziando. Ci stanno rendendo più intelligenti. Entro il 2030 saremo in grado di collegare le neocortecce dei nostri cervelli, ovvero le sedi presunte delle funzioni di apprendimento, linguaggio e memoria. Avremo una porzione maggiore di neocorteccia cerebrale, saremo più divertenti, saremo più bravi a suonare strumenti musicali, saremo più sexy. Esemplificheremo tutte le cose lodevoli nell’essere umano, ma ad un livello superiore.»1

Il gioco di ruolo diventa allora una sorta di apprendistato religioso/antropologico, il cui momento principale è quello della convergenza – nel gioco, «sovrapposizione» – tra persona “reale” e personaggio: inevitabile, in questo senso, il successo internazionale del fenomeno.

Nella narrativa italiana degli ultimi anni, il gioco di ruolo dell’autofiction è cominciato con Tondelli, si è mostrato con forza scandalosa in Giulio Mozzi, e ha raccolto i frutti (anche commerciali) con Walter Siti. Pure “La stanza profonda” rientra in questo genere anfibio, ospite di una collana di Laterza – non per caso chiamata “Solaris” – che ne indaga le potenzialità di pubblico. E adesso?

Adesso bisognerebbe passare al secondo livello, quello più profondo: l’innesto della parresìa2 con la narrazione di genere in chiave realista (questo è il compito di una collana di narratori a cui sto lavorando, che si sforza di rispondere al problema sollevato da Gilda Policastro e Giulio Mozzi in una recente querelle letteraria/editoriale3 e che vedrà la luce nel 2018). Poiché è vero, anche nel caso de La stanza profonda: scritto in seconda persona “mimetica”, proprio per sovrapporre sul lettore/interprete/persona l’abito mentale e l’architettura del master/scrittore/personaggio, il libro offre le pagine migliori quando il plot d’innesco, in sé interessante e ricco di spunti, viene popolato dalle vicende di vita quotidiana dell’autore e del suo gruppo di pari (la “grande madre blues” di ogni genere letterario, d’altra parte, è la biografia). Se la Solaris non avesse posto determinati limiti, lo sviluppo di queste pagine – che potevano inverarsi nella totale sovrapposizione della finzione alla realtà, del fantasy all’autofiction, come accennato nel finale surreale à la Blues Brothers  –, avrebbe portato a un romanzo di formazione di genere nuovo, quello che appunto intravedo come possibilità di un romanzesco che si svincola dal mero “fatto di cronaca”, anche se lo pone a fondamento della narrazione e ne indossa il “realismo” per la riattivazione politica degli atti linguistici.4

Note

1. Qui il resto dell’intervista: http://www.huffingtonpost.it/2017/03/16/ray-kurzweil-ingegnere-capo-google-profezia_n_15403024.html?ncid=fcbklnkithpmg00000001)

2. Sul tema si veda questo contributo di Tiziano Scarpa:

http://www.ilprimoamore.com/old/testi/TizScarpa_WuMing1_Epica.pdf

3.“Perché alla letteratura si chiede di impoverirsi, mentre altri media narrativi (il cinema, le serie tv, i videogiochi) continuano ad arricchirsi?” Giulio Mozzi, Vibrisse (https://vibrisse.wordpress.com/2017/04/15/perche-alla-letteratura-si-chiede-di-impoverirsi-mentre-altri-media-narrativi-il-cinema-le-serie-tv-i-videogiochi-continuano-ad-arricchirsi-appunto-aperto/)

4. Posso indicare, tra i libri italiani antesignani di questo possibile filone di ricerca, in anni recenti, “Il demone a Beslan” di Andrea Tarabbia ed “Elisabeth” di Paolo Sortino.

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