Perché leggere questo libro: I detective selvaggi di Roberto Bolaño
Che cosa vide la maestra? Vide un letto di ferro, un tavolo pieno di carte dove si ammucchiavano, in due pile, più di venti quaderni con la copertina nera, vide i pochi vestiti Cesárea appesi a un filo tirato da una parte all’altra della camera, un tappeto indio, un comodino e sul comodino un fornello a paraffina, tre libri presi in prestito dalla biblioteca di cui non ricordava il titolo, un paio di scarpe senza tacco, della calze nere che spuntavano da sotto il letto, una valigia di cuoio in un angolo, un cappello di paglia tinto di nero appeso a un minuscolo attaccapanni inchiodato dietro la porta, e roba da mangiare: video un pezzo di pane, vide un barattolo di caffè e un altro di zucchero, vide una tavoletta di cioccolato mangiata a metà che Cesárea le offrì e che lei rifiutò, e vide l’arma: un coltello a serramanico, con l’impugnatura di corno e la parola Caborca incisa sulla lama. E quando domandò a Cesárea a che cosa le serviva un coltello, lei le rispose che era stata minacciata di morte e poi rise, una risata, ricorda la maestra, che oltrepassò le pareti della stanza e le scale di casa fino ad arrivare in strada, dove morì. In quel momento alla maestra parve che su calle Rubén Darío cadesse un silenzio repentino, perfettamente orchestrato, il volume delle radio si abbassò, il parlottio dei vivi si spense di colpo rimase solo la voce di Cesárea. E allora la maestra vide o le sembrò di vedere una piantina della fabbrica di conserve attaccata alla parete. E mentre ascoltava le parole che Cesárea doveva dirle, parole né esitanti né precipitose, parole che la maestra preferisce dimenticare ma che ricorda perfettamente e addirittura comprende, adesso comprende, i suoi occhi percorsero la piantina della fabbrica di conserve, una piantina che Cesárea aveva disegnato, in certe zone con grande cura di dettagli e in altre in modo vago o incerto, con annotazioni ai margini anche se la scrittura a tratti era illeggibile e altrove era in stampatello e addirittura con punti esclamativi, come se Cesárea con la sua mappa fatta a mano si stesse riconoscendo nel proprio lavoro o stesse riconoscendo aspetti che fino ad allora ignorava. E allora la maestra dovette sedersi, anche se non voleva farlo, sul bordo del letto e dovette chiudere gli occhi e ascoltare le parole di Cesárea. E addirittura, anche se si sentiva sempre peggio, trovò la forza di domandarle per quale ragione aveva disegnato la piantina della fabbrica. E Cesárea disse qualcosa sui tempi che stavano arrivando, anche se la maestra supponeva che si fosse messa a fare quella piantina senza senso semplicemente per via della solitudine in cui viveva. Ma Cesárea parlò dei tempi che stavano arrivando e la maestra, per cambiare argomento, le domandò quali tempi e quando sarebbero arrivati. E Cesárea indicò una data: verso il 2600. Duemilaseicento e rotti. E poi, davanti alla risata che suscitò nella maestra una data così peregrina, una risatina soffocata e appena percepibile, Cesárea scoppiò di nuovo a ridere, anche se stavolta il fragore della sua risata rimase nei limiti della stanza.
da Roberto Bolaño, I detective selvaggi, Adelphi, Milano 2014.
Perché leggere questo libro?
Per compiere un viaggio…
I detective selvaggi comincia il 2 novembre del 1976 e finisce il 15 febbraio del 1977. Siamo in Messico, nel DF, Juan García Madero ha diciassette anni ed è stato invitato a far parte del movimento “realismo viscerale”. Come è ovvio, ha accettato. I suoi mentori sono due poeti, o spacciatori, non molto più grandi di lui, Arturo Belano e Ulises Lima. Belano e Lima lo introducono nella loro corte dei miracoli, la villa delle sorelle Font. I poeti realvisceralisti sono giovani e inevitabilmente squattrinati, amano sabotare le prove letterarie dei colleghi seguaci di Octavio Paz. Qualcuno di loro tenta persino di scrivere delle poesie, che, per Bolaño, sono il segno della fragilità: «Una fragilità assoluta. Gente che non solo dal punto di vista letterario, ma anche economico, non aveva futuro, come nello slogan dei punk, era senza futuro e si aggrappava alla poesia, e faceva bene a farlo… però aggrapparsi alla poesia durante un naufragio è come aggrapparsi al tappo di una bottiglia di champagne: non ti terrà a galla».
Tra le strade e i caffè di una Città del Messico babelica in cui nessuno sembra mai riuscire a tornare a casa, seguiamo l’educazione poetica e sentimentale di García Madero, innamorato dell’enigmatica Maria Font, in un crescendo di coraggio e ingenuità che esplode la notte di capodanno del ’76 quando, insieme a Belano e Lima, aiuta Lupe, una prostituta amica di Maria, a fuggire dal proprio pappone che ha intenzione di ucciderla.
…un lungo viaggio
«I detective selvaggi è un romanzo di fughe», dice Bolaño, «per esempio, Maria Font nel diario di Madero è una donna piena di vita e vogliosa di fare tante cose, ma nella seconda parte, via via che passa il tempo, si va richiudendo sempre più su se stessa, fino all’isolamento totale». Ma a fuggire è lo stesso autore, che abbandona temporaneamente i quattro in viaggio su un’Impala grigia verso il deserto del Sonora per dare voce a quei personaggi conosciuti fin qui solo attraverso gli occhi e il diario di García Madero: Maria e Angélica Font, Xóchitl García, Laura Jáuregui, Ernesto San Epifanio, Rafael Barrios e decine di altri, tutti testimoni dell’epopea fallimentare del realismo viscerale e delle proprie vite.
Perché riproduce il caos del reale
Belano e Lima, tornati dal nord, sono protagonisti fantasma, appaiono e scompaiono, entrano ed escono dai racconti di voci sempre nuove: «È un romanzo, credo che si noti, molto autobiografico», continua Bolaño, «In pratica quello che faccio è raccontare la biografia mia e di un carissimo amico a un’età nella quale abbiamo smesso di essere giovani, vent’anni, abbastanza per smettere di esserlo. E insieme è una riflessione, o tenta di sviluppare una riflessione, sul fallimento di una generazione di latinoamericani – e non solo latinoamericani – che in qualche modo ha creduto nella rivoluzione… e probabilmente, se la rivoluzione in cui credevamo avesse trionfato, saremmo finiti in un gulag. E la cosa non è affatto simpatica.»
Le esperienze, le narrazioni di coloro che hanno incontrato, conosciuto o soltanto sfiorato i due poeti si moltiplicano e intrecciano rizomaticamente, generando un caos spaziale e umano da cui però emerge con chiarezza un intento mitopoietico: la creazione – o ri-creazione -, attraverso la letteratura, di un mondo. Come innamorati, o forse progressivamente avvitati al sottile filo di follia che lega una pagina all’altra, una relazione sentimentale all’altra, un critico letterario a un pescatore che vive nelle grotte lungo la costa della Linguadoca, i due realvisceralisti proseguono fino al Vecchio Continente: in Spagna, Belano, a lavorare come guardiano notturno di campeggi sulla Costa Brava; in Francia, Lima, a inseguire la disperata e marginale vita bohemien degli esuli sudamericani di Parigi, poi un amore impossibile in Israele con la sola compagnia di un ex galeotto austriaco. Arriveremo fino al dicembre del 1996. Uno finirà nell’Africa nera, se ne perderanno le tracce. L’altro tornerà in Messico.
Ma cosa spiega le loro azioni, il loro indecifrabile vagare? Ha a che fare col Sonora? Con quello che cercavano e hanno trovato, o non trovato, lì nel deserto? L’unico che sembra sapere qualcosa è il vecchio Amadeo Salvatierra, a cui Bolaño affida il compito di aprire, condurre e chiudere la parte centrale del romanzo. Amadeo racconta di un nome, un nome ritiratosi da decenni tra le pieghe del deserto, un nome legato alle oscure origini del realvisceralismo stesso. Ed è per quel nome, Cesárea Tinajero, che torniamo a bordo della Impala grigia nel gennaio del ’77, mentre García Madero (di cui, nella cronaca caleidoscopica dei successivi vent’anni, si erano completamente perse le tracce) intrattiene Lima, Belano e la prostituta Lupe chiedendo loro se sanno cos’è un’epanalessi.
Perché è un punto di non ritorno
Pochi autori hanno influenzato la letteratura contemporanea come Roberto Bolaño. Pochissimi sono riusciti ad assurgere allo status di “autore di culto” mentre erano ancora in vita, il che, considerata la sua morte precoce a soli cinquant’anni a causa di problemi epatici, è straordinario. Ancora più straordinario lo diventa se pensiamo che questo è avvenuto nell’arco di appena cinque anni, da quando cioè, nel ’98, venne dato alle stampe I detective selvaggi (vincitore del premio Herralde nello stesso anno e del Romulo Gallegos in quello seguente) al 2003, anno della scomparsa del suo autore. In molti hanno paragonato I detective a Rayuela di Cortázar, o ai racconti di Borges. Bolaño stesso ammetteva apertamente l’influenza di questi suoi predecessori. Ma se in Rayuela era Cortázar stesso a fornirci una “mappa” attraverso cui seguire i percorsi di Horacio Oliveira, la sensazione, leggendo il cileno, è che veramente potremmo aprire il romanzo in un qualsiasi punto e cominciare da lì. Per esempio uno dei passaggi più belli de I detective è quello di Auxilio Lacoture, poetessa uruguaiana rimasta rinchiusa per dieci giorni nei bagni dell’Università di Città del Messico per scampare alla repressione militare delle proteste studentesche – dieci giorni brutali e onirici durante i quali Auxilio va avanti e indietro nel tempo e da cui Bolaño, più tardi, trarrà un altro romanzo intitolato Amuleto. Come se nella sua intera produzione, indifferentemente che si tratti di romanzi o racconti, non esista mai un punto visibile dove si interrompe un libro e ne comincia un altro; tutti i suoi testi si permeano e influenzano a vicenda come collegati da un reticolo di tunnel sotterranei che sta al lettore scoprire ed esplorare, tunnel fatti di letteratura, di violenza, amore, sesso e un costante senso di minaccia, di catastrofe imminente, che a volte è appena sussurrato e altre ti inchioda come un acquazzone improvviso, o ti ammalia e spezza il cuore come un lontano fulmine sul fiume Catatumbo.
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