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diretto da Romano Luperini

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Ernaux, L’altra figlia

 L’altra figlia è una lunga lettera ad una sorella mai conosciuta, perché nata e morta prima della nascita della scrittrice, a soli sei anni. Di questa sorella maggiore la Ernaux non ha mai avuto notizia fino ad un afoso giorno d’estate, quando sente, casualmente, la madre che parla con una conoscente. Nell’atmosfera crepuscolare di un pomeriggio domenicale, la bambina ascolta, di nascosto, la rivelazione dolorosa ed inaspettata dell’esistenza di un’altra figlia, «morta di difterite prima della guerra, a Lillebonne», […] come una piccola santa » (p. 16), una figlia diversa rispetto a lei, «più buona». Il segreto di famiglia. Tali parole bruciano e consumano in un istante tutta l’infanzia della Ernaux, in «una fiamma muta e senza calore»; improvvisamente tutto assume una dimensione, un colore, un peso diverso, ogni ricordo del passato ed ogni momento del presente diventano elementi essenziali di un’ unica immagine in bianco e nero, immobile, sospesa, irreale. La meraviglia illumina la coscienza in un modo talmente potente da spingere la protagonista a riesaminare le immagini dell’infanzia fedelmente amate, tenacemente fissate nella memoria, a far emergere gli antecedenti inconsci.

Il racconto della madre diviene «il racconto unico» che inaugura il mondo in cui la sorella esiste «in quanto morta e in quanto santa», «il racconto che proferisce la verità» e  la «esclude».

 La realtà diventa allora «un’allucinazione corporale» (p. 18), soffocante, in cui qualsiasi gesto, qualsiasi parola viene messa in discussione: da «figlia unica, viziata in quanto unica, sempre prima della classe senza sforzi», Annie diviene la “seconda” rispetto ad una sorella «invisibile e adorata», «respinta nell’ombra» mentre l’altra aleggia «lassù nella vita eterna».

Non è solo l’inizio di un confronto inaspettato con Ginette (la sorella) ma anche di un nuovo rapporto con i genitori, la cui voce amorevole ed autorevole si trasforma in un lamento amareggiato e deluso nella traccia della coscienza, privo di conforto, di salvezza: la realtà si insinua nelle pieghe dell’infanzia con misteriosa incoerenza, in un disegno indecifrabile che conduce la protagonista a vivere dibattendosi tra «senso di colpa» (poiché è viva) e «orgoglio» (poiché prescelta per essere ancora viva), vergogna e orrore. Due figlie, una morta e l’altra viva, una assente e l’altra presente, che convivono in un legame indistruttibile ed oppositivo, nel tempo e nello spazio: «bisognava dunque che tu morissi a sei anni affinché io potessi venire al mondo ed essere salvata», perché «la loro determinazione ad avere un solo figlio, manifestata nella frase non potremmo fare per due ciò che facciamo per una, implicava la tua vita o la mia, non entrambe» (p. 62). Ed ancora: «Non ti posso mettere dove sono stata io. Sostituire la mia esistenza con la tua. C’è la morte e c’è la vita. Tu o io. Per essere, ti ho dovuta negare» (p. 74).

Morte e vita. Assenza e presenza. Se il ricordo di Ginette è incorniciato dalla virtù dall’eternità, dalla sacrale purezza della precoce scomparsa, dal vuoto di ciò che non si può raccontare (perché non reale), di ciò che non appartiene alla sfera del linguaggio e delle emozioni, e coincide, dunque, con l’«anti-linguaggio», con «la negazione in un perpetuo non-essere» («tu fai parte dei morti senza registrazioni audio e video. La tua esistenza passa solo attraverso l’impronta che hai lasciato nella mia. Scriverti non è altro che fare il giro della tua assenza. Descrivere l’eredità di assenza. Sei una forma vuota che è impossibile riempire di scrittura», p. 56), l’esistenza di Annie coincide con la sua stessa esclusione,  con l’evidenza delle sue azioni, dei suoi difetti. La scrittrice non solo vive, al contrario della sorella, nella sfera del linguaggio (perché la sua vita può essere raccontata), ma è anche colei che ha il potere di raccontare, di dire, di rivendicare la propria presenza nel mondo , e il proprio «duro desiderio di durare» (p.60) attraverso le parole («Io non scrivo perché tu sei morta. Tu sei morta perché io possa scrivere, fa una grande differenza», p. 36).

La scrittura è, dunque, un atto vivo che registra un divenire psichico impetuoso, è un atto umano che restituisce il senso compiuto di un’esistenza, collocandola nel mondo e nella società come presenza reale, e non sostitutiva. Le parole riescono a radunare i fatti, i valori psicologici, a distinguere immaginazione e memoria, a esprimere i conflitti famigliari e sociali, a penetrare le tensioni, a marcare le differenze e a fare emergere la scrittrice «nella solitudine e nell’intelligenza» (P. 75).

La scrittura è, dunque, ricomposizione, rinascita, durata. E non casuali sono i nomi che la Ernaux cita, nei momenti di riflessione metaletteraria, da cui sembra trarre la giusta ispirazione per il raggiungimento di una sistematizzazione delle fratture, della loro rappresentazione logica: Kafka, Svevo, Baudelaire, Eluard, Pavese, tutti intellettuali per cui la letteratura è un atto lucido che penetra la spessa opacità della condizione umana, privilegiando le sospensioni, le crepe, e riconducendole, attraverso un percorso di significazione, alla responsabilità della forma.

Le contraddizioni espresse nel breve testo si traducono, però, in una problematicità del linguaggio che, ha ragione Luperini, «rende difficile parlare di una narrazione vera e propria, visto che  è escluso qualsiasi tipo di sviluppo, di progressione e il testo ritorna continuamente sui propri interrogativi», determinando una permanente labilità di significato e di valore, alimentando una prosodia governata da un ritmo poetico. Tuttavia, nel ricercare il fondo di tale forma poetica è necessario confermare che «le lasse brevi e ben pausate» (Luperini) altro non sono che l’esposizione logica di un’idea non statica, che si materializza anche grazie alla distanza, soprattutto temporale, «tra io scrivente e io narrato». Nella stesura del racconto si verifica, quindi, una fusione tra una componente di vita vissuta, dove l’esistenza privata si consegna, sotto forma di una lettera fittizia, a lettori senza volto e senza nome, come un segreto svelato, un travaglio tutto interno e una componente riflessiva, che investe la prosa di una tensione logica e alimenta costantemente il ragionamento attraverso meccanismi rigidamente controllati («Il “tu” è una trappola. Ha un che di soffocante e instaura tra me e te un’intimità immaginaria che puzza di risentimento, avvicina per rimproverare. Tende in maniera subdola a fare di te la causa del mio essere, ad appiattire la totalità della mia esistenza sulla tua scomparsa» p. 64).

In quest’esperienza percettivo-cognitiva le pagine di questa breve opera si fanno luogo privilegiato dell’esperienza emozionale più profonda e, allo stesso tempo, manifestazione raffinata e lucida del pensiero.

Il «rigore controllatissimo della scrittura» (Luperini) è visibile anche nei documenti e nel materiale raccolto dalla Ernaux, che attribuiscono al testo non solo un valore ontologico ma storico, sociale. Basti pensare alle meditazioni sulla mentalità degli anni Cinquanta, soprattutto in merito e al rapporto tra genitori e figli («Negli anni Cinquanta gli adulti consideravano noi, i bambini, come creature dalle orecchie trascurabili, davanti alle quali si poteva dire tutto senza conseguenze a eccezione di ciò che riguardava il sesso, a cui si poteva soltanto alludere», p. 27), alle pagine dedicate al tetano (pp. 31-35) e alle informazioni fornite sulla situazione socio-economica  dell’epoca  (p. 70).

La breve narrazione non è solo una lettera a Ginette, la sorella fantasma mai conosciuta, ma soprattutto alla madre, già ricordata dolorosamente in Non sono più uscita dalla mia notte; una madre adorata e, nello stesso tempo, combattuta, in un rapporto vissuto come una trappola dolorosa:

«Scriverti significa parlarti di lei in continuazione, lei, la padrona del racconto, colei che aveva proferito il giudizio e con la quale il combattimento non è mai terminato, se non alla fine, quando era in quello stato pietoso, perduta nella sua demenza e non volevo che morisse» (p. 41). 

La madre coincide con l’angoscia instancabile che tormenta l’io scrivente, rischiando di far precipitare l’amore nella gelosia o perfino di distruggerlo nella frammentazione della psiche; la scoperta di avere avuto una sorella, allora, sembra corrispondere, per la scrittrice, alla perdita della figura materna che, però, non ha nulla di nichilistico ma, al contrario, le permette di accedere al simbolo nella capacità logica del linguaggio. Mentre Annie rimane sospesa in un vuoto enigmatico di significazione, riesce ad accedere all’acutezza della percezione, alla centralità della parola.

L’altra figlia non è il libro più significativo della Ernaux; non ha l’intensità de Gli Anni, che le è valso il Premio Strega Europeo quest’anno, non ha la forza de Il posto; tuttavia leggendolo ci si trova ad essere dentro all’ urgenza di una verità allo stato nascente, in un momento in cui ciò che emerge non è ancora sapere ma istanti, frammenti di pensiero volti a consentire ad un irreale passato di accedere al presente attraverso i codici linguistici del reale, dando luogo ad un processo di creatività che implica momenti di immediatezza e di mediazione riflessiva.

Attraverso il dispiegamento delle varie dimensioni costitutive del pensiero che la scrittrice mette in atto, dall’immaginazione alla realtà, si ha la sensazione di appartenere ad un non-tempo, in cui il processo generativo non conosce successione e reversibilità ma eternizzazione.

Il dissolvimento di ogni legame con la dimensione temporale sembra confermare l’immobilità, il congelamento della vicenda umana descritta, l’impossibilità ciò che non conosce oscillazioni e spostamenti: «Sei sempre stata morta. Sei entrata morta nell’estate dei miei dieci anni (p. 8)  […] Tra me e te non c’è del tempo. Ci sono delle parole che non sono mai cambiate» (p. 19).

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