Appunti sul referendum. Due scelte, un’occasione
Scrivo questi appunti da Padova, dove da qualche giorno all’interno di un’aula occupata dell’Università, in piazza Capitaniato, è nata la Casa per il No. Lo spazio è gestito da diverse realtà (Catai – Clash City Workers, BiosLab, ASU – Sindacato degli Studenti, ecc.) che hanno individuato la necessità di rompere l’aut-aut fra posizioni liberiste e posizioni populiste tendenzialmente di destra all’interno del quale ci troviamo costretti nella campagna referendaria, in una prospettiva che tuttavia non si esaurisca il 4 dicembre.
1. La discussione pubblica attorno al referendum ha assunto, all’avvicinarsi del voto, caratteri inediti di ampiezza e trasversalità; inediti, chiaramente, almeno per quel che riguarda gli ultimi anni. Dalle strade delle città italiane, tappezzate di manifesti su incontri autoconvocati, alle aule scolastiche e universitarie, dal dibattito su internet e quotidiani fino – ma questo ha meno d’insolito – alle dispute televisive, in tutta Italia, fra gli italiani all’estero, nelle ambasciate e nei gabinetti riservati si discute dell’appuntamento referendario. Ha un carattere inedito non solo la dimensione della discussione, la sua pervasività, ma anche la diffusa volontà di capire, di comprendere, esattamente, di che cosa si sta parlando.
2. Al centro di questo risveglio politico, svetta la figura del costituzionalista: ancora una volta dell’esperto, ancora una volta l’idea che la sostanza di un dibattito politico possa essere compresa soltanto addentrandosi nei tecnicismi, guardando insomma al minuto invece che al grande. Non si contesta ovviamente il ruolo che lo studioso della Costituzione deve ricoprire in simili occasione, quanto la mistificazione della prova oggettiva, della verità tecnica.
In questo ampio spazio di dibattito, è ancora vitale una postura che, nella sua mistificazione coatta, credevamo superata. Risuonano ancora, ma sempre più screditate, le voci di coloro che richiamano ad un confronto neutro, sui termini della questione, sul merito della riforma; simile a chi dieci anni fa ci proponeva, studenti sui banchi del liceo, la grande mistificazione del pluralismo dell’informazione, della ricerca delle fonti diverse, di modo che fosse possibile attingere la verità del fatto, della notizia, al di là delle mistificazioni della pubblicistica. Non si sta parlando, naturalmente, dell’inattingibilità di una verità oggettiva: serve ribadirlo? Si tratta della necessità di collocare i dati all’interno del quadro più ampio, sulla consapevolezza di non poter valutare in astratto
3. Il referendum ha un peso decisivo per quel che riguarda l’assetto istituzionale. La legge elettorale dello scorso anno, che rivoluziona l’elezione della Camera, ha valore pieno solo in caso di riforma costituzionale del Senato. Al di là delle questioni tecniche, la combinata rafforza i poteri dell’esecutivo eletto, ne blinda la composizione, elimina gli ostacoli costituiti dalle opposizioni, rendendo l’azione di governo più snella, rapida, incisiva. Le competenze legislative verranno accentrate nella Camera dei deputati eletta con l’Italicum, quindi con un premio di maggioranza del 54% a chi supererà la soglia del 40%, o vincerà il ballottaggio; il Senato avrà competenza in settori importanti ma non centrali (rapporti con Regioni ed UE, legge elettorale, modifiche costituzionali, leggi sui referendum, tutela delle minoranze linguistiche), per il resto il suo parere sarà unicamente consultivo.
4. Nella pubblicistica favorevole il concetto di riforma ospita, nella propria aura semantica, i termini di innovazione, rinnovamento, soluzione praticabile: si tratta infatti di riformare, aggiornare l’ordinamento dello stato. In tutta l’azione del governo, nato dalla rottamazione della classe politica, in primis del PD, l’antitesi nuovo vs vecchio viene declinata a seconda dell’agenda politica, per mettere l’Italia al passo con i tempi. Che poi questi tempi siano dettati dall’agenda europea, a sua volta concorde con l’élite finanziaria globale, può anche essere affermato ma non giunge a porre interrogativi sostanziali, sistemici. Le parole dell’economia finanziaria – lo spread il debito, le riforme l’austerity – nei loro empirei di formule e nuvoli sono inevitabili come un destino, le loro ire sono divine, i loro ordini non vanno discussi. In altri termini, si tratta di enti sovrastorici che nessuna forza sembra essere in grado di guidare, se non assecondandone il corso, blandendoli, adulandoli. La richiesta di un accentramento della funzione governativa proviene da questi centri, ed è intesa a snervare le resistenze all’applicazione di memorandum, diktat e direttive. Si tratta, oltretutto, della riproposizione delle richieste di presidenzialismo portate avanti durante i governi Berlusconi degli anni Zero, al tempo senza la forza sufficiente.
Tuttavia, da cinque anni a questa parte sono cambiate una serie di cose, per cui proprio queste richieste potrebbero rivelarsi un passo falso: oggi non si tratta di aprire la strada a una più piena governance neoliberista, in un quadro nel quale tutti i maggiori partiti (i ‘vecchi’ centrodestra e centrosinistra) condividono in linea di massima lo stesso quadro di riferimento ideologico; ma di puntellare il potere di questi partiti dagli attacchi centripeti, anche favorendo alleanze fino al 2010 improponibili. Questa situazione dà luogo a paradossi tragicomici: ecco che la riforma potrebbe rivelarsi un passo falso per il PD, alfiere d’Europa, concedendo – è uno scenario verosimile – la maggioranza assoluta al M5S euroscettico; fortuna che il M5S, opponendosi al PD, non può che opporsi alla riforma che gli garantirebbe la probabile maggioranza assoluta.
5. È necessario riconoscere, nei termini della discussione, nelle posizioni assunte, e non da ultimo nella scarsa capacità di un pensiero antagonista rispetto al neoliberismo di intercettare i bisogni reali, monadici e precari, la situazione che si va delineando per il prossimo decennio. Da una parte, i difensori dell’ortodossia liberista, che per funzionare a regime ha garantito, dopo un’attenta valutazione di utili e costi, negli ultimi decenni e in occidente, un regime di minima di legalità democratica e di garanzie istituzionali; dall’altra, lo spazio dei populismi più o meno nazionalisti, più o meno xenofobi, più o meno antieuropeisti. Per quanto ci riguarda da vicino: da una parte l’Europa delle istituzioni e della finanza, che trova nel Presidente del Consiglio e nel suo Partito non solo una sponda ma sempre più un protagonista; dall’altra, lo spazio dei populismi che intendono sovvertire – almeno a parole – l’ordine della finanza internazionale. Lo scorso anno è stato quello delle possibilità perdute, della Grecia e – pur con le differenze del caso – della Spagna; quest’anno sembra invece caratterizzato dalla convergenza sul falso binomio, tanto per restare nell’ordine del tragicomico, liberismo o barbarie: dimenticando drammaticamente come il liberismo non elimini ma al massimo delocalizzi la barbarie, e come questa ‘barbarie’ – la Lega nord, il sempre vivo fascismo europeo, il nuovo presidente statunitense, le destre xenofobe che ad ogni nuovo giorno raccolgono consensi – non ha luogo al di fuori del neocapitalismo contemporaneo, le cui spiccate capacità di adattamento sono arcinote, oggi come ieri. Anche le elezioni in USA si sono giocate su un piano simile, con i risultati che tutti sappiamo, ma anche con un portato interessante di ambiguità e contraddizioni.
6. A livello di politica istituzionale, le spinte in campo rischiano di essere appiattite su questo binomio. Da una parte la materia del quesito viene posta in continuità con la politica riformatrice, innovatrice, istituzionale, europea perseguita negli ultimi tre anni; percorrendo la strada della conferma plebiscitaria cui, con risultati altalenanti, i governi stanno spesso facendo ricorso. A livello elettorale, la strategia mira a circuire il ceto medio indeciso, preda per anni del fascino berlusconiano e della sua affabulazione sul presidenzialismo. A livello non solo analogico la riforma costituzionale è inoltre intrecciata con legge 107 (buona scuola), jobs act, linea politica seguita sull’Europa, oltre ovviamente alla nuova legge elettorale: una sorta di verifica di metà mandato. Dall’altra lavorano le forze parlamentari che, viceversa, interpretano la vittoria del no come sconfessione popolare della linea seguita dalla politica istituzionale italiana negli ultimi anni. I due soggetti politici principali, il M5S e la Lega Nord, si contendono lo spazio del populismo, con esiti diversi e alterni. Non sembra esistere spazio per una posizione ulteriore, il quesito – per ammissione del Presidente del Consiglio – recita: «Approvate o no l’operato del governo Renzi?».
7. A livello di società civile, le cose però sono più complesse. Nell’attivismo di cui sopra, nel fiorire di iniziative, nel rinnovarsi dell’impegno emerge una volontà di comprendere, di andare a fondo, di capire le ragioni delle omissioni, delle apparenti incongruenze nelle dichiarazioni istituzionali che, da una parte e dall’altra, tendono a non chiarire i termini della questione. C’è qualcosa che puzza… Di cosa si sta parlando? Quali saranno i cambiamenti nel Senato in quanto istituzione? Che cosa ci giochiamo? Intanto, il rumore di fondo pervade l’etere. Persone fidate mi riferiscono il sostegno di funzionari del PD alla riforma, nonostante la riforma, perché «Renzi è l’unico in grado di difendere i diritti umani in Europa»; Cacciari voterà sì anche se vota una «puttanata»; Berlusconi voterà no nonostante abbia sostenuto l’accentramento sull’esecutivo per decenni; i partigiani sono precettati dal governo ma trovano la forza di ribellarsi; il M5S voterà no nonostante l’accoppiata riforma più legge elettorale gli potrebbe dare, verosimilmente, la maggioranza assoluta alle prossime elezioni; alcuni fra i movimenti militano per difendere una costituzione per la quale non hanno mai nutrito grande amore; l’ambasciatore degli Stati Uniti si mostra preoccupato di una possibile vittoria del No per gli investimenti in Italia; gli ambasciatori italiani si improvvisano propagandisti al fianco di Maria Elena Boschi, al di là della propria carica istituzionale; e via dicendo.
La sostanziale incertezza che aleggia attorno al quesito referendario non è legata alla questione in sé, all’oggettiva oscurità di certo linguaggio giuridico o alle traiettorie politiche, quanto piuttosto alla difficoltà di collocare questo momento all’interno di un quadro coerente, che per esempio spazi dall’ideologia neoliberista alle questioni, appunto, costituzionali. Si tratta precisamente del problema che chiunque in questo momento disponga di spazio di parola, e sia ancora convinto che a sinistra dell’ordine finanziario ci possa essere uno spazio di manovra, deve porsi.
Perché il referendum, assieme alla legge elettorale, costituisce un accentramento di potere che prevede poche vie di ritorno, e comporta conseguenze sulla vita dei prossimi decenni – sul lavoro, sulla scuola, sul welfare. Perché una simile situazione tende a concedere ancora più potere a un governo prono alle richieste delle élites finanziarie che ci comandano, in altri termini a ratificare il commissariamento della politica italiana, in vigore dal 2011. Ma anche perché l’eventuale respinta del quesito non deve rimanere patrimonio delle destre. È un momento di facili rovesciamenti di equilibri; è necessario distinguere e approfondire le contraddizioni. Esiste, a livello territoriale, popolare, un fermento che nella maggior parte dei casi non ha nulla a che spartire con la politica parlamentare, di centro ‘sinistra’ e di centro ‘destra’ o d’altro, e tenta – come molti di noi individualmente cercano, o sognano, di fare – di smarcarsi dall’aut aut, dal «o con noi o contro di noi». La battaglia attorno al quesito referendario ha, fra le molte sue facce, anche questa: di poter essere una ulteriore occasione di ricomposizione, di definizione di un embrione di nuovo spazio di sinistra che forse non sta andando del tutto sprecata.
Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2006, Garibaldi + nuvola.
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