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diretto da Romano Luperini

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Chi vuole il bonus a scuola?

 Una premessa è forse necessaria: secondo un’indagine condotta dalla CISL, la maggioranza degli insegnanti italiani (il 56,6%) sembra rimanere perplessa nei confronti del ‘bonus di merito’, che costituisce uno dei numerosi punti controversi della riforma della cosiddetta ‘buona scuola’. Solo il 21,1% delle scuole italiane manifesta un netto dissenso, mentre il consenso aperto si attesta su percentuali di circa l’11%.

Ebbene, dichiaro subito di fare parte della fascia intermedia del 21,1%, essendo io stato uno dei 32 docenti del Liceo Scientifico “S. Cannizzaro” di Palermo che hanno compiuto un atto di obiezione di coscienza, sottoscrivendo un documento in cui si prende una posizione ferma contro il ‘premio’ di fine anno.

Sul documento ci sarebbero delle doverose precisazioni da fare: chi lo ha firmato ha dichiarato di impegnarsi a non presentare domanda. È chiaro che, poiché la legge non permette di rinunciare al bonus (che dovrebbe essere assegnato d’ufficio, e quindi senza la presentazione di alcuna domanda o certificazione), tale dichiarazione ha, di fatto, un valore meramente simbolico.

Detto questo, non è per riprendere gli argomenti prodotti nel documento che mi preme intervenire in questa sede.  Quello che mi interessa fare, al contrario, è cercare di analizzare e comprendere le motivazioni di chi sostiene con forza la necessità di premiare i docenti migliori (qualunque cosa ‘migliore’ significhi, visto che ogni scuola, di fatto, si è dotata dei propri criteri in totale autonomia). 

1. Effetto Dunning-Kruger?

Uno dei contributi che mi ha colpito di più e che più ho ammirato, fra quelli che sono apparsi in questi giorni nella rete, è stato quello di una maestra elementare, Rosaria Gasparro. Il suo pezzo, pubblicato su comune-info.net, presenta molti punti di consonanza con il documento dei 32 docenti del Cannizzaro, e muove da una visione che condivido in toto, una visione in base alla quale l’insegnamento è pensato non tanto come una prestazione professionale misurabile, quanto, piuttosto, come il frutto della passione e dell’amore per lo studio da un lato e,  dall’altro, come una cura, ovvero una gestione amorevole della complessa dinamica relazionale fra docente e discente. La Gasparro, tuttavia, va anche più in là, e tenta di spiegare le motivazioni che muovono i colleghi che ambiscono al premio richiamando una dinamica nota nel campo degli studi psicologici: «la chiamano effetto Dunning-Kruger, quella che spinge a ritenersi più competenti degli altri, una specie di distorsione cognitiva a causa della quale individui inesperti tendono a sopravvalutarsi, giudicando, a torto, le proprie abilità come superiori alla media (Wikipedia). Un complesso d’intelligenza, il complesso di chi si ritiene migliore, e ricorro a Shakespeare per descriverlo: “Il saggio sa di essere stupido, è lo stupido invece che crede di essere saggio”».

Certo, per un mero fatto statistico, non è da escludere che qualche sparuto collega che ambisce al premio sia – diciamo così, eufemisticamente  – ‘affetto da difetti metacognitivi’, ma… dire che  TUTTI quelli che non la pensano come noi e non agiscono come noi siano affetti dalla sindrome in questione  (o, peggio, che siano degli ‘stupidi’) mi sembra un po’ esagerato, ed è già un modo di realizzare, nei fatti, la logica divisiva voluta da una legge che, con i suoi  doni avvelenati,  spinge gli insegnanti ad armarsi gli uni contro gli altri. Penso invece che alcune delle motivazioni di chi ambisce al bonus e ritiene che sia uno strumento di modernizzazione della scuola siano – per quanto a mio avviso cariche di conseguenze negative – da prendere sul serio.

2. I contro dove ti aspetti i pro

Animato dalla voglia di comprendere le posizioni di chi la pensa diversamente da me, decido di andare sul solito Google. Digito sul motore di ricerca la stringa ‘bonus di merito scuola posizioni favorevoli’. Con mia grande sorpresa scopro che, almeno nella prima schermata, non è possibile trovare un solo articolo di intellettuali o opinionisti che argomenti a favore della legge. Se si esclude una pagina del MIUR con le FAQ sul bonus, mi imbatto invece in una sequela di pezzi illuminanti e ben scritti che spiegano, al contrario, per quale motivo bisognerebbe rinunciare, boicottare, rivedere, agire, disobbedire, riflettere, etc. etc. Fra i pezzi più interessanti e persuasivi, segnalo, ad esempio, a chi dovesse essere ancora perplesso, quelli di Christian Raimo su Internazionale, di Maurizio Muraglia su La Repubblica di Palermo, e di Carlo Scognamiglio su Micromega.

Letti questi articoli, non mi arrendo e proseguo comunque la mia ricerca. So bene che l’algoritmo di Google privilegia la popolarità più che la pertinenza e la precisione. Il motivo per cui nelle prime schermate del motore di ricerca ci sono gli articoli dei contrari, dunque, deve essere legato al fatto che, nonostante io stia cercando ‘posizioni favorevoli’ (che magari sono le più corrette e sensate), sono di certo le posizioni opposte le più cliccate e le più amate dagli utenti della rete. Per incidens, penso che, se io fossi il politico che ha progettato questa legge infernale che è la ‘buona scuola’, dovrei riflettere su questo strano fenomeno (e, forse, di più, dovrei preoccuparmi in vista delle prossime elezioni – il che, nel linguaggio renziano, si potrebbe tradurre in uno sbarazzino #matteostaisereno). Per il resto, sono sicuro che CI DEVE essere almeno un articolo, un saggio, un intervento illuminante che tenti di spiegarmi perché sono io che sbaglio. Decido quindi di ricorrere ai miei contatti in partibus infidelium e sentire il parere di una delle poche persone a me care che sono rimaste nel PD, e che so essere molto vicina alle ‘stanze dei bottoni’. La chiamo per chiederle una bibliografia di testi che sostengano le ragioni del bonus e scopro invece, con mia grande sorpresa, che… anche lei è contraria!!!

Non ottengo alcuna bibliografia, dunque. In compenso ne ricavo una litigata cosmica sull’alternanza scuola-lavoro, cui lei è favorevole e che io, invece, ritengo una pillola amara che fa digerire agli studenti italiani  i meccanismi della precarizzazione e che costringe noi insegnanti a farci carico, per i soliti quattro spiccioli, di un’ulteriore mansione non prevista dal contratto nazionale (ma questo sarebbe tema per almeno altri due o tre pezzi!).

A questo punto, un sospetto nasce in me: magari sono in errore, magari mi sono accontentato troppo presto con la prima schermata di Google, magari la conversazione con la persona a me amica del PD ha cominciato troppo presto a incendiarsi, ma comincio a sospettare che, se non trovo bibliografie o sitografie apposite, è perché… non ce ne sono!

In vista della riforma Berlinguer del 1997, si era scomodata una Commissione di Saggi, che, prima di varare la legge, ne aveva discusso, nei dettagli, tutti gli aspetti. Erano – ricordo – interventi autorevoli e pesati, e la legge che venne fuori – giusta o sbagliata che fosse – era comunque stata il frutto di una riflessione approfondita. Dietro la riforma renziana, invece, non vedo operazioni di questo tipo: non ci sono tracce di discussioni approfondite, di riflessioni, di dibattiti. Quello che si è visto (a parte la parodia simil-grillina di una finta discussione sulla rete) è stato solo il maglio di un decisionismo tanto veloce quanto mediocre, greve e violento (chiedo venia, ma non trovo altri aggettivi per definire il modo di agire di chi, dopo lo sciopero del 5 maggio del 2015, ha deciso di tirare dritto senza ascoltare).

Ma ancora… non mi arrendo. Decido cioè di rivolgermi ad una forma di ‘sapere orale’. Vado cioè a intervistare direttamente i colleghi della mia e di altre scuole. Quali sono le motivazioni di chi è favorevole?

3. Le narrazioni che circolano nelle scuole

Le tipologie di narrazione di chi si schiera a favore del bonus, per quello che ho potuto vedere, sono sostanzialmente di tre tipi. La prima l’ho chiamata ‘la narrazione della mano invisibile’, la seconda ‘la narrazione delle beatitudini evangeliche’, la terza la narrazione del ‘finalmente il mio lavoro è riconosciuto!’. Vediamo di cosa si tratta.

3. 1. La narrazione della ‘mano invisibile’

Alcuni ritengono che l’attribuzione del bonus di merito scatenerà dei meccanismi emulativi che non potranno che far bene alla scuola. Una volta che un docente avrà ricevuto il premio, le azioni virtuose da lui messe in atto per conseguirlo, diventeranno un modello da imitare per chi si propone di conseguire lo stesso risultato. Si scatenerà, cioè, una sorta di contentio honestissima che migliorerà le prestazioni degli insegnanti e innalzerà il livello del servizio pubblico erogato agli studenti.

L’argomento in questione presenta molte analogie con quello della nota metafora della ‘mano invisibile’ usata da Adam Smith per spiegare i meccanismi di ‘provvidenza immanente’ grazie ai quali la sfrenata competizione degli individui all’interno del libero mercato finirebbe per avere una ricaduta positiva sull’intera comunità nella quale gli individui stessi vivono.

Ora, posto che quando parliamo di premi stiamo sempre parlando dei soliti spiccioli elemosinati a una classe di lavoratori continuamente umiliata e vilipesa (si va dai 250 ai 1000 euro circa, quando va bene), dovremmo chiederci cosa significa ‘premiare la prestazione migliore’. Poiché  ogni scuola si è dotata in totale autonomia dei propri criteri di valutazione, ci si troverà in una situazione in cui il modello virtuoso di insegnamento cambierà di comunità in comunità, di plesso in plesso, di istituto in istituto. La legge opera, cioè, come un potente vettore di differenziazione.

È un bene? È un male? Non saprei dirlo. Sicuramente, è qualcosa che, in una maniera ancora più incisiva rispetto a quanto è già avvenuto prima con i POF e poi con i PTOF, finirà per moltiplicare le tipologie di offerta formativa che verranno proposte agli alunni in tutto il territorio italiano. È prevedibile, cioè, uno scenario in cui la differenziazione della tipologia dei servizi educativi, oltre che creare una competizione interna fra i singoli docenti, amplifichi la competizione esterna fra scuole e istituti.

Il fatto è però che, nel mondo reale, gli effetti della teoria della ‘mano invisibile’ sono sotto gli occhi di tutti, e anziché operare un miglioramento dei sistemi hanno aumentato, al loro interno, il divario fra la ricchezza e la povertà, indebolendo la tenuta dei meccanismi democratici e sgretolando ogni forma di giustizia sociale (ma non è il caso di dilungarsi sulle storture dei modelli liberistici e neo-liberistici, che a tutti sono ormai evidenti). E dunque, mi chiedo perché un modello che non ha funzionato in economia dovrebbe funzionare negli istituti scolastici.

Per il resto, il mio timore è che nella scuola possa accadere quello che già è accaduto, in Italia (e in Europa), al mondo dell’università e della ricerca, dove, a fronte di programmi quadro che premiano la logica della competizione fra progetti innovativi, si è andato imponendo un processo di de-finanziamento progressivo degli enti universitari e della ricerca di base, oltre che una dispersione delle energie di chi lavora in questi settori. Penso ad esempio a quegli studiosi, spesso giovani, che, per tentare di accaparrarsi i finanziamenti di enti come lo ERC (European Research Council), passano interi mesi della loro  vita a formulare complessi e articolati progetti di ricerca che non verranno mai finanziati, mesi che avrebbero invece potuto dedicare – se solo il meccanismo dei finanziamenti non fosse così selettivo – alla ricerca. Per dirla in termini più semplici, il mio timore è che, anche a scuola, la retorica della competizione sia la foglia di fico dietro la quale si intende nascondere il progressivo depauperamento degli enti di istruzione e di formazione.

3. 2. Le ‘beatitudini evangeliche’ della cooperazione

Il secondo tipo di narrazione – lo devo ammettere – è quello che potrebbe essere più in sintonia con il mio modo di vedere e di vivere la scuola. Sono molti i colleghi che conosco che hanno compreso il rischio insito nel modello della competizione, e contrappongono ad esso il modello della ‘cooperazione volontaria’. Il loro argomento, nei confronti del bonus, è traducibile con queste parole: non dobbiamo preoccuparci di ottenere il bonus; dobbiamo soltanto pensare a lavorare seriamente e a cooperare fra di noi senza attenderci niente e senza discutere la legge, che, una volta promulgata, va solo applicata. Dobbiamo collaborare nella costruzione di progetti di miglioramento del nostro servizio, discutere con maggiore intensità e frequenza dei criteri di valutazione, dobbiamo rendere i nostri consigli di classe sempre più uniti ed efficaci, dobbiamo migliorare le nostre strategie di inclusione nei confronti degli alunni più fragili, dobbiamo condividere le nostre esperienze di formazione e i nostri materiali didattici. Tutto questo, se ci stanno a cuore le sorti della scuola, dobbiamo essere disposti a farlo anche gratis; poi qualcuno, dall’alto (il dirigente e il comitato di valutazione), riconoscerà il nostro lavoro e ci premierà anche se noi non abbiamo ambito al premio. Ovvero, «beati coloro che cooperano e soffrono in nome della scuola perché di essi sarà il regno dei bonus».

È ovvio che sulla prima parte dell’asserzione nessuno può essere in disaccordo, la cooperazione, la voglia di fare le cose bene per la soddisfazione di farle bene – come racconta il bellissimo libro di Richard Sennett (Insieme, tradotto in italiano da Feltrinelli nel 2012) – è uno dei più grandi piaceri che vengono riservati all’essere umano. Il punto è però che è una ben strana forma di cooperazione quella che si fonda su un meccanismo – come quello del bonus – che introduce il vettore della diseguaglianza in un mondo di uguali (perché questo finora la scuola è stata, nel bene e nel male).

E la disuguaglianza è, come sostiene Richard Sennett,  «il più diretto dei fattori di indebolimento» della cooperazione nel mondo contemporaneo: «Anche le modificazioni del lavoro hanno per un altro verso indebolito sia il desiderio sia la capacità di collaborare. In teoria ogni azienda è a favore della collaborazione; in pratica, la struttura organizzativa moderna la inibisce, un dato di fatto riconosciuto nelle analisi manageriali del cosiddetto ‘effetto silos’, l’isolamento di individui e dipartimenti in unità separate, scarsamente comunicanti, dove si ammassano informazioni che sarebbero preziose per gli altri settori dell’azienda o dell’istituzione. La riduzione del tempo che la gente oggi trascorre insieme sul lavoro accentua questo isolamento» (Sennett 2012, 18).

Ne deriva dunque che sostenere l’etica della cooperazione  accettando (o non ostacolando), al contempo, la logica premiale della ‘buona scuola’ rischia di realizzare un ben strano paradosso dal sapore vagamente orwelliano. Prendo in prestito una boutade di Diego Fusaro che –parlando di alternanza- scuola lavoro in un articolo sul Fatto quotidiano – sottolineava come la ‘buona scuola’ renziana tenda, come avveniva nella società distopica del Grande Fratello, a chiamare le cose con nomi invertiti: così come in 1984 la guerra è pace, nel mondo voluto da Renzi la scuola è lavoro (e chi conosce il significato del greco scholê non può che rimanere allibito!) e, infine, la cooperazione è competizione!

3. 3. ‘Finalmente il mio lavoro è riconosciuto!’

Andiamo infine ai soggetti che alimentano l’ultima tipologia di narrazioni. Sono centinaia di migliaia i docenti che, terminate le loro ore di lezione, continuano indefessamente il loro lavoro. C’è chi spende intere giornate dietro il miglioramento di una riga del PTOF, chi, per rimediare all’ennesimo taglio pubblico del Fondo di Istituto, si getta a capofitto nella stesura di progetti nella speranza di far rientrare dalla finestra, per il bene della comunità, finanziamenti che i tanti governi succedutisi hanno fatto uscire dalla porta principale; c’è chi perde il proprio sonno nell’organizzare progetti di rete; c’è chi si sfianca gratuitamente per cooperare con i progetti di autovalutazione e di automiglioramento della scuola, o, anche, chi organizza laboratori teatrali per gli studenti, corsi sul  bullismo, sulla, legalità, sulla gestione dei conflitti, sul coding etc. etc. etc.

Chi fa queste cose – non dimentichiamolo – continua a farlo per circa 1500 euro al mese, e il lavoro extra che fa, in più,  è spesso senza compenso o, ancora peggio, non riconosciuto.

Fra questo numerosissimo gruppo di insegnanti c’è chi ha creduto al bonus di Renzi: dopo anni e anni di lavoro silenzioso, dopo anni di sacrificio gratuito, molti hanno visto nel premio il riconoscimento del proprio impegno.

Vorrei però dire, a questi colleghi (cui va tutta la mia stima) che forse meriterebbero molto di più di un semplice riconoscimento simbolico (perché è di questo, di fatto, che si tratta). Non sarebbe meglio ricordarsi che il lavoro va pagato adeguatamente? Non sarebbe meglio ritornare ad impugnare il contratto? Non sarebbe meglio tornare a finanziare i fondi di istituto e attribuire i finanziamenti sulla base di un conteggio reale delle ore di lavoro effettivamente impiegate?

È vero, il bonus attribuisce una qualche soddisfazione a chi per la scuola ha fatto e continua a fare tanto, ma accettarne la logica è forse un modo di fare passare per buono il modello – anti-sindacale – del missionariato.

Ma – per concludere – c’è ancora di più. Accettare la logica del bonus non è forse un modo di aumentare quell’effetto di pressione sociale che già sta scardinando i sistemi educativi di tutto il mondo? Formulare criteri ‘oggettivi’, cooperare in vista di una misurazione sempre più asfissiante non significa forse esporre l’insegnamento ad una continua ansia di controllo? Senza scomodare Foucault – il cui nome meriterebbe di essere almeno ricordato in ogni collegio dei docenti (e non solo!) –, sottostare alle logiche aziendalistiche della accountability non significa forse contribuire alla realizzazione di un pericoloso dispositivo di controllo panottico che rischia di strozzare ogni forma di sapere creativo, critico e potenzialmente divergente, ogni forma di sapere, cioè, che ragioni non tanto in termini di misurabilità quanto in termini di Senso e di Valore?

Nel corso della mia trattazione ho fatto un fugace riferimento al modello delle beatitudini. Ebbene, per quello che mi riguarda l’unica beatitudine che ha un senso, rispetto al bonus della scuola, è la decima, quella che recita

‘beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli’. Cosa significa questo? Significa che con le percentuali e i numeri che ci sono in campo forse non è pensabile una vera e propria rivoluzione di massa contro il bonus scuola (gli indecisi e i perplessi, come si è visto, sono troppi!); purtuttavia, il modello della disobbedienza individuale di Antigone, che implica l’obiezione di coscienza e la disobbedienza (e – è vero – il sacrificio), è sempre possibile e praticabile. E non è detto che non sia sufficiente a fare crollare forme di potere mediocri e violente. Creonte docet.

E poi, visto che siamo solo nel campo delle metafore, non è detto che nel mondo reale Antigone debba per forza morire!


Fotografia: G. Biscardi, Due + uno, Palermo 2015,

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