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Merito e demerito. Sul bonus agli insegnanti

Quando una legge è avversata dalla quasi totalità dei suoi destinatari, qualcosa non quadra. É il caso della Legge 107 e del dispositivo, in essa previsto, della premialità legata al presunto “merito” dei docenti. Non regge il luogo comune dell’idiosincrasia dei docenti verso qualsiasi forma di valutazione per il semplice fatto che non è vera. Anche il più edulcorato termine “valorizzazione” lascia perplessi, perché resta inevaso il problema della distinzione concettuale tra merito ed eccellenza e, soprattutto, tra merito e normale deontologia. I Dirigenti scolastici si stanno scervellando per trovare dei criteri. Ho letto recentemente molti criteri. Alcuni individuano l’eccellenza, altri spacciano per “merito” quel che se non fosse fatto sarebbe causa di licenziamento. Ci si chiede, in quest’ultimo caso, cosa stiano a fare in una scuola quelli che restano esclusi da questo premio. I Dirigenti sanno bene che la fatica dei comitati di valutazione è necessaria perché è loro compito osservare la legge, ma sanno anche che si tratta di una fatica del tutto vana se non controproducente perché produrrà inutili divisioni all’interno delle comunità dei docenti.

Peraltro, il proliferare dei criteri si attorciglia intorno alle idee di docente più disparate, senza una cornice di riferimento unitaria che individui i caratteri, semmai, del docente eccellente, posto che per sedere su una cattedra tutti i docenti devono essere meritevoli e che degli eventuali demeritevoli bisogna ragionare attentamente: in cosa consiste il loro demerito? Cosa manca ad un docente per essere “meritevole”? Spiega in modo incomprensibile? Valuta in modo incomprensibile? Maltratta gli alunni? Ma un docente del genere può legittimamente restare a scuola? Si ha l’impressione che l’enfasi sul merito finisca (quanto involontariamente?) per legittimare l’esistenza a scuola del “demerito”.

Lo spartiacque tra merito e demerito peraltro nella maggior parte dei casi è sottile, e soprattutto di difficile visibilità e ancor più difficile decifrabilità. Non c’è chi non condivida, tra i docenti, che la bravura si vede in classe. Si vede. Ma chi la vede? Gli studenti la vedono a modo loro, ed il loro parere va ascoltato ma giustamente filtrato. Le famiglie la vedono col filtro degli studenti, i colleghi altresì col filtro degli studenti e magari di altri colleghi, il Dirigente col filtro di tutti. Sono pur sempre filtri. Chi sta in classe quando l’insegnante é all’opera? E se anche fosse in classe e avesse competenze e titolo per poter pronunciare un giudizio, su quali indicatori dovrebbe muoversi? L’attenzione? La disciplina? La didattica attiva? La comunicazione? La capacità di valutare?

I nodi sono tanti. E lo scontento tantissimo. Il legislatore non può far finta di niente, e come si diceva non può ricondurre lo scontento al solito luogo comune della refrattarietà dei docenti verso ogni forma di valutazione. Il legislatore deve prendere atto di aver preso una solenne cantonata, per aver sostituito il concetto di “sviluppo professionale” con quello di “premialità”.  La professione docente, per la sua natura intellettuale e culturale, necessita di dispositivi e meccanismi di sviluppo, che hanno a che fare con la formazione, la ricerca e la sperimentazione. La stessa legge le rende obbligatorie, permanenti e strutturali e fa cosa buona, ma siamo ancora all’alba e chi, come l’autore di questo contributo, si occupa di queste cose sa bene che tra le platee di docenti precettati in questa “formazione” c’è chi studia, chi ricerca, chi sperimenta e chi bivacca perché cerca l’attestato. Occorrerebbe monitorare questi processi, e legarli quanto più possibile alle pratiche didattiche del mattino. E dotarsi di dispositivi per monitorare le stesse pratiche didattiche. Per consentire a tutti di crescere professionalmente. Senza premi. Tutto questo denaro può utilmente finanziare percorsi di formazione e ricerca dentro le scuole. E i sindacati potrebbero cominciare a puntare i piedi affinché il contratto preveda più formazione e aggiornamento per ciascuno (superando gli attuali risibili cinque giorni annui fino a prevedere forme di sabbaticità per chi elabora progetti di ricerca didattica), alla condizione che le esperienze formative compiute debbano essere condivise all’interno della comunità professionale. Possibile che per la categoria degli insegnanti non si debba pensare che studio, ricerca e formazione siano necessarie almeno quanto lo sono per i medici?

Tre-quattro eccellenze in una scuola non servono. Dieci-venti demeritevoli una scuola la distruggono. Occorrono insegnanti normali, aggiornati, motivati. Va bene anche l’accredito individuale a pioggia, se serve a consentire a tutti di partecipare ad eventi formativi o a dotarsi della giusta bibliografia. Ma è la base. Su questa base, in cui tutti sono meritevoli, si può e si deve pensare di uscire dal patto scellerato del “ti pago poco lavori poco” per accedere ad una condizione economica all’altezza dello sviluppo professionale realizzato. Il vero premio è uno stipendio all’altezza del merito ordinario di tutti. Basta un percorso triennale seriamente articolato per garantire a tutti docenti la necessaria manutenzione del sé professionale, e non mancano nel nostro Paese intelligenze capaci di congegnarlo, se la politica finalmente si deciderà di avvalersene.

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NOTA

Fotografia: G. Biscardi, Aula scolastica, Palermo 2015

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