Angelo Guglielmi, il problema della autobiografia e il caso di Annie Ernaux
Martin Amis, uno dei principali scrittori inglesi contemporanei, per spiegare il ricorso sempre più frequente all’autobiografismo da parte dei narratori del nostro tempo, ha scritto:
«In un mondo che diventa sempre più inafferrabile ma soprattutto sempre più mediato, il rapporto diretto con la propria esperienza è l’unica cosa di cui ci si possa fidare. Perciò l’attenzione è rivolta all’interno».
Angelo Guglielmi cita giustamente questo passo per recensire La rancura.
Il suo intervento tocca questioni specifiche che mi sono sembrate molto giuste (la presenza di due romanzi che si succedono nel corso della narrazione, la sofferenza nel decostruire la propria “autorità”, la problematicità del concetto di “realtà”) e si concentra alla fine sul problema dell’autobiografismo e sulla affermazione di Amis. Sono d’accordo anch’io sul fatto che forme di autobiografismo sono sempre più presenti nella letteratura contemporanea e che la ragione storica di questo fenomeno è che la realtà oggettiva è diventata sempre più «inafferrabile» e «mediata». Tuttavia su un punto vorrei esprimere un punto di vista in parte diverso dal suo.
Le forme di autobiografismo, dicevo, sono svariate. Una assai diffusa, e comunque la più intricante per me, è la cosiddetta autofiction, che ha avuto negli anni scorsi un autorevole rappresentante e teorico, in Italia, Walter Siti. Nel suo recente Il realismo è l’impossibile (Nottetempo editore) Siti spiega che nell’autofiction verità e invenzione si mescolano, anzi nell’autofiction si dice la verità per far pensare che sia una menzogna e/o si dice una menzogna per far pensare che si dice una verità. A parte questa boutade (Siti si diverte sempre a scandalizzare), è fuori di dubbio che sarebbe riduttivo scambiare il protagonista di un’autofiction con l’autore. Insomma, mentre nell’autobiografia tradizionale ci si aspetta che la cronaca di una biografia corrisponda alla realtà storicamente verificabile di una esistenza (ma poi, anche in questo caso, il soggetto che dice “io” tende irresistibilmente a diventare un personaggio letterario e ad acquistare una certa autonomia rispetto all’autore reale o empirico), nello statuto dell’autofiction vige una sospensione: ci si aspetta che quanto viene narrato sia ma anche non sia effettivamente accaduto. Viceversa Angelo Guglielmi scrive come se esistesse una totale identificazione fra Romano Luperini e Valerio Lupi; e quando a parlare è il figlio di Valerio, Marcello, attribuisce il suo pensiero all’autore, cioè a Romano Luperini, il sottoscritto. Ora non è detto affatto che io condivida le idee del mio personaggio sia quando questi sia Valerio Lupi sia quando sia Marcello, che, fra l’altro, a Valerio in tutto si contrappone.
Insomma l’autobiografismo oggi è, o può essere, un modo di parlare non di un io empirico, ma di un io storico, per parlare di sé per parlare in realtà di un modo di essere e di vivere non sempre riconducibile all’autore ma che l’autore riconosce plausibile e storicamente “adatto” a raffigurare un tipo di umanità e di storicità che egli ha conosciuto e frequentato. Pirandello ha spiegato benissimo perché ogni personaggio tenda a seguire la propria logica di comportamento diventando sempre più autonomo dalla figura del suo inventore; e a questo proposito, per dare un fondamento alla distinzione fra io narrato e io narrante, o fra personaggio e autore, un grande teorico del romanzo, il russo Bachtin, ha introdotto il concetto di “extralocalità” che il secondo deve raggiungere rispetto al primo.
Un caso esemplare è quello di Annie Ernaux di cui è uscito da poco in Italia Gli anni (L’orma editore). Bellissimo romanzo autobiografico. Ma qui non si dà semplicemente autobiografia di una persona bensì di una generazione, quella nata nel 1940, che ha vissuto nel dopoguerra, ha visto il passaggio da una civiltà contadina a una industriale, ha fatto il ’68, ha avuto certe speranze e le ha viste sfiorire nella delusione e nel «disincanto» (parola autorizzata dal testo) di questi nostri anni. Dell’io empirico dell’autrice ci viene detto pochissimo, quel poco che serve appunto a mettere sulla scena una intera generazione e, con essa, la società (francese, ma molto simile a quella italiana). La percezione di un tempo e di una storia sempre più sfuggenti e irreali appare qui tanto più dolorosa in quanto nutrita da una attesa frustrata che lentamente finisce per estinguersi ma, si capisce, potrebbe di nuovo riproporsi: basti pensare alla pagina straordinaria sull’ultimo grande sciopero, quello del 1995, che si conclude significativamente coi versi di Eluard «ognuno si credeva solo/ furono folla a un tratto».
Insomma uno scrittore di autofiction che si rispetti guarda sì al proprio «interno», ma non per contemplarsi l’ombelico. E neppure per parlare strettamente della propria esistenza, ma per ricavare un senso collettivo, o storico, dalla rappresentazione di una vicenda che si presenta come empirica e individuale e nello stesso tempo non lo è. La verità di uno scrittore, insomma, non è mai ristretta all’io empirico, ma riguarda una esperienza più vasta per rappresentare la quale l’invenzione può essere più vera della realtà effettivamente accaduta al soggetto.
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NOTA
L’immagine è una fotografia alle fotografie di Luigi Ghirri al Matthew Marks.
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