Pubblichiamo un estratto da A. Vigilante, La barchetta di Virginia. Manifesto per una scuola improbabile, Rainone Editore, Bergamo 2006, pp. 38-42. Del libro, esaurito da tempo, esiste ora una nuova edizione in ebook, Tablo Publishing, 2015.
Immagina Hesse nel Gioco delle perle di vetro una sorta di Provincia Pedagogica, la Castalia, nella quale un’élite di studiosi si affina nella disciplina più rigorosa.
In tempi bui, la Castalia preserva la cultura e la nobiltà spirituale, custodendo la nobile arte del gioco delle perle di vetro, una sorta di attività culturale totale, nella quale i linguaggi della musica e dell’arte, della filosofia e della matematica – e ancora: Oriente e Occidente, antichità e modernità, passato e presente – si incontrano secondo la sensibilità estetica del giocatore. Ma Josef Knecht, l’uomo che giunge al vertice della Castalia ricoprendo la carica di Magister Ludi, si accorge della insostenibilità di quella perfezione astorica. Abbandona la Castalia e diventa precettore, per finire annegato in un laghetto di montagna.
La miseria della pedagogia era già tutta qui, ma a quindici anni non lo sapevo ancora.
La scuola è una Castalia minore. Una caricatura della Castalia, per essere più precisi. Anche la scuola è una provincia a parte, al di fuori della storia, che si illude di avere nelle mani le chiavi del mondo della cultura. Essa è in realtà un buco profondo che inghiotte la cultura vomitandone brandelli senza vita.
Anche la scuola ha il suo gioco delle perle di vetro. Tolto il cellophane, il professore consegna allo studente un pezzo di cultura; lo fa con una certa apprensione, perché sa bene che quel boccone è prossimo alla scadenza. Lo studente si trova con una quantità di pezzi di cultura, un ammasso di cose che stanno per andare a male. Ma ecco la magia. Quei bocconi sparsi diventano perle di vetro, ed allo studente si chiede di giocarci: di farne una collana – un percorso interdisciplinare. Come lo studente ci riesca, è un mistero, dal momento che nessuno gli ha insegnato a far interagire saperi diversi, vale a dire ad impastare i bocconi di cultura ricevuti aggiungendo qualche additivo che non ne faccia avvertire il cattivo odore. Che ci riesca, tuttavia, è indubitabile. Lo spettacolo, il ludus, avviene durante gli esami di stato. Piazzato di fronte alla commissione, lo studente conclude il suo percorso di studi facendo comparire sul palcoscenico Schopenhauer e Leopardi, la digestione ed il sistema osseo, Auschwitz e le derivate, Keats e Gauguin, la corsa ad ostacoli e John Cage.
Quello che stupisce, è la perfetta interazione di questi fantasmi.
Schopenhauer e Leopardi, ad esempio, si incontrano e parlano come vecchi amici, mentre nella musica di Cage si scopre – come è stato possibile non capirlo prima? – il ritmo della corsa ad ostacoli. Esercitatosi nella nobile arte dei collegamenti, lo studente riesce con perfetta disinvoltura a passare dalla storia alla ginnastica. Parla di Mussolini, ti mostra la foto di Mussolini a torso nudo, quindi passa a spiegarti il sistema muscolare.
Avere fame
A volte i miei studenti mi sembrano infinitamente distanti, persone che appartengono ad un altro mondo, ad un altro ordine simbolico – un ordine che non comprende, anzi rifiuta sdegnosamente tutto ciò che io ritengo bello, vero, importante. Allora chiedo ai miei studenti di prendere un foglio e di scrivere tutto ciò che passa loro per la testa. Tutto. Senza alcun controllo, senza nemmeno badare all’ortografia ed alla grammatica. Ho bisogno di sapere cosa passa loro per la testa. Poi leggo i fogli con la trepidazione con cui si legge la lettera di una amata che ci sta per lasciare. E dopo la lettura mi prende lo sconforto.
La situazione a scuola può essere così illustrata. Si immagini un tale che va in un ristorante. Entra e si siede. “Buongiorno”, gli dice il cameriere. “Buongiorno”, risponde lui. “Cosa desidera mangiare?”, gli chiede il cameriere. “Ah, niente, io non ho fame”, risponde lui. “Ma come?”, si meraviglia il cameriere. “Be’, se proprio ci tiene, mi faccia venire fame”.
A scuola lo studente arriva il più delle volte senza avere fame. La fame l’ha persa per via. I bimbi della scuola elementare hanno molta fame: è un piacere lavorare con loro.
Alle medie le cose cominciano a cambiare. Alle superiori arrivano col fiatone.
E il professore, allora, è nella situazione paradossale del cameriere che deve far venir fame al cliente. Come se davvero si potessero fare i miracoli o le magie; come se la pedagogia non fosse una divinità compromessa. Il professore deve motivare lo studente che motivato non è; deve far sorgere un interesse che non c’è e non c’è mai stato; deve rendere tutto bello, piacevole, gustoso. La situazione manderebbe in crisi chiunque e non mi meraviglierei se si scoprisse che è qui la causa del burnout diffusissimo tra i docenti. I più volenterosi cercano di rendere leggeri e divertenti la chimica e la filosofia con i mezzi additati dalla più aggiornata conoscenza pedagogica (la quale, proprio perché aggiornata, non si chiama più pedagogia, ma scienze dell’educazione). Il ragionamento è facile: cosa piace ai ragazzini? La televisione, lo spettacolo.
Bene. Basta far entrare più televisione, più spettacolo nella scuola. La chimica, la filosofia, la letteratura diventano spettacoli come altri; lo studente vi si immerge come si immerge nella visione di un film.
Tutto andrebbe bene, se non fosse che lo studente che si immerge è uno studente che non ragiona.
Diventando spettacolo, la cultura perde l’anima. Ma non è un grande problema. Quello che serve alla società non è gente riflessiva – si sa del resto che un eccesso di riflessività fa male alla salute – ma gente che abbia acquisito i modelli culturali latenti.
Altra via, a quanto pare, non c’è. La scuola non è in grado di suscitare alcun reale interesse culturale. Per comprendere il perché, occorre parlare della crisi.
La crisi
C’erano una volta due culture: quella che potremmo definire, grosso modo, crociana e quella che potremmo definire, grosso modo, gramsciana.
La cultura crociana era elemento di distinzione e di prestigio sociale, non tanto strumento di affermazione, quanto segno d’una posizione raggiunta: i suoi valori erano quelli d’un umanesimo privo di inquietudini. La cultura gramsciana era lotta intellettuale, strumento di riscatto: i suoi valori erano la giustizia e la libertà.
Ora le due culture sono scomparse. Sono scomparse dalla nostra società, prima che dalla nostra scuola. Il loro posto è stato preso, nella società prima e nella scuola poi, da una terza concezione della cultura: quella strumentale.
La cultura strumentale non ha alcuna particolare ispirazione ideale. L’unico suo obiettivo è l’affermazione individuale attraverso la specializzazione. Non aspira ad una Weltanschauung, le basta dominare un pezzetto di realtà.
Corrisponde all’etica burocratica, non all’etica dell’intellettuale, così come è caratterizzata da Weber. E il punto ora è questo: la cultura strumentale non è fatta per suscitare entusiasmi. È una cultura vuota, priva di valori. È una non cultura, in realtà. Per questo la scuola non riesce ad educare né ad istruire. Perché nella società i valori culturali – liberali o di sinistra – stanno lasciando il posto al vuoto assoluto.
Il docente che coinvolge è quello che ha una vera passione ideale, che ha valori in cui credere, che ama la polemica ed il confronto. Ma un docente del genere è un ospite sgradito nelle asettiche scuole di oggi. Crea problemi, suscita inquietudini – fa politica.
Lo stato seleziona docenti burocrati, più che intellettuali.
Puoi aver pubblicato dieci libri, ad esempio: non costituiscono un titolo valido. Non è in alcun modo incoraggiata la ricerca autonoma. Non esistono contributi ministeriali per i docenti che vogliano pubblicare libri.
Non c’è contatto diretto tra docenti ed università.
La cultura non ha un più valore intrinseco, ma è la valigia che il diplomato ed il laureato porterà con sé per avviarsi sulla via del successo personale.
Questa è l’unica motivazione che la scuola di oggi può offrire allo studente svogliato: lo studio serve a farsi strada nella vita; se non studi sarai un fallito.
Quello che abbiamo perso è il senso collettivo e non strumentale della cultura. La cultura come ricerca comune della verità e del bene, come un pensare, un fare che non appartiene né a me né a te, ma è di tutti e che quindi non può giustificare alcuna competizione. Come un pensare ed un fare che non separa in base alle capacità personali o alla provenienza sociale, ma prende da ognuno ciò che può dare, badando soprattutto al risultato collettivo.
La scuola che abbiamo, come non favorisce l’autentica cultura, ostacola anche la crescita di una vera socialità. La quale non ha oggi più i luoghi che un tempo le appartenevano – le piazze, i circoli, anche i partiti. La socializzazione libera è stata sostituita da una socializzazione settoriale e disimpegnata, nei luoghi deputati al divertimento, al di fuori dei quali v’è la solitudine di una vita spesa davanti ad un televisore.
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La cucina di Belzebù
Ho apprezzato molto la metafora dell’insegnante come cameriere intrattenitore. Ma mi sono chiesta se non sia questo il ruolo richiesto all’istruzione scolastica in una società che vorrebbe essere democratica ma in un sistema di produzione che deve conservare squilibri e ignoranza per perpetuarsi.
La pervasività derealizzante dei media corrisponde ad una necessità strutturale del sistema, perché nella società dei consumi .
Ma un sistema di produzione sperequativo – qualunque esso sia – può tollerare solo poca gente riflessiva per volta, da sempre.
Rileggo in questi giorni “Viaggio in Italia” di Goethe. E’ buffo, proprio ieri sono ritornata sull’incontro col capitano papalino che è il suo compagno di viaggio da Bologna a Perugia e che gli aveva rimproverato bonariamente di pensare troppo, come Goethe racconta nella pagina del 25 ottobre: