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L’ultimo libro di Elena Ferrante: discutiamone. Il caso Elena Ferrante/1

 Il blog Laletteraturaenoi ha deciso di pubblicare una serie di interventi dedicati ai romanzi di Elena Ferrante. Questo post di Romano Luperini è il primo che viene pubblicato. A breve usciranno due post a firma di Beatrice Collina e Morena Marsilio. Cercheremo di dare spazio a visioni differenti, con la speranza di fare chiarezza su un caso letterario che è stato al centro di molte discussioni recenti.

All’inizio il romanzo di Elena Ferrante, Storia della bambina perduta, quarto e ultimo volume di L’amica geniale, mi ha incuriosito. Mi è sembrata la storia di un matrimonio fallito, quello della protagonista, una scrittrice, Elena, con un professore universitario, serio ma noioso, spodestato dall’amante, un opportunista spregiudicato e libertino. Le dinamiche psicologiche della donna, alle prese, oltre che con marito e amante, con due figlie, con una madre popolana e prepotente e con una suocera intellettuale e ostile, mi parevano colte con qualche acutezza, e anche il contrasto fra il mondo del rione napoletano, dove la protagonista è nata e tuttora vive la sua migliore amica, Lila, e quello intellettuale di Firenze, dove il romanzo è inizialmente ambientato, ha suscitato la mia attenzione, spingendomi a procedere nella lettura. Finché la storia ha seguito la vicenda del distacco dal marito, del ritorno a Napoli e del nuovo incontro con l’amica di un tempo, progressivamente descrivendo la inaffidabilità e lo squallore dell’amante, refrattario ad abbandonare la moglie anche dopo che Elena lo ha reso padre di una figlia, ho continuato a leggere ma, devo ammetterlo, con disagio crescente. Infine, a due terzi della narrazione, mi sono arreso e solo per dovere, e in un secondo tempo, ho continuato sino alla fine peraltro leggendo solo in modo saltuario.

Perché mi sono bloccato nella lettura? Perché questo disagio? Forse, per capirlo, la cosa migliore è che confessi apertamente il tenore delle mie reazioni a mano a mano che procedevo nella lettura.

Basta, mi sono detto a un certo punto, basta!. Aria, aria! Mi sono sentito tappato in un universo senza luce, angusto, concentrazionario, costituito esclusivamente di una minutaglia di rapporti intersoggettivi e di dinamiche psicologiche che si ripetono sempre eguali in modo ossessivamente monotono. In queste pagine non si può respirare. Del mondo che pure doveva esistere intorno a quelle dinamiche psicologiche e a quei rapporti intersoggettivi, delle vicende politiche di quel periodo (quello, addirittura, degli anni di piombo fra fine anni settanta e prima metà degli ottanta) e persino del paesaggio (quello urbano di Napoli e delle altre città in cui la scrittrice si trova a vivere o viene invitata) niente si dice se non per allusioni generiche e banalissime (di un personaggio si dice che è un terrorista di sinistra, della casa napoletana si dice che si vede il mare, del rione napoletano si dice che c’è la camorra, cui forse – ma magari è solo una vendetta dovuta a una faida familiare o di quartiere – è dovuta la scomparsa della bambina del titolo… e così via). Il lettore viene schiacciato in un tritarsi di infiniti piccoli fatti e di infiniti personaggi che si susseguono incessantemente senza che mai nessuno di essi acquisti un qualche rilievo linguistico, stilistico o tematico. Il tasso figurale (la presenza del quale, secondo Orlando, distingue il discorso artistico da quello comune) è vicino a zero. La grigia patina della voce narrante avvolge ogni dettaglio, smussa, spiega e media cancellando ogni potenzialità drammatica. Tutto viene troppo “detto” e troppo poco rappresentato. La lingua è scolorita, lo stile costantemente uniforme. Mai una increspatura o un’accensione, mai uno scarto. O meglio uno ne ho trovato: a pag. 204, dove si legge che «già lampeggiavano i profumi della primavera», sinestesia un po’ bislacca che rimanda forse alle approssimazioni linguistiche dei romanzi d’appendice.

C’è chi dice che dietro lo pseudonimo di Elena Ferrante ci sia qualche prestigioso intellettuale napoletano. Tutto è possibile, ma stento a crederlo: il modo con cui nel libro si parla di cultura, di università, del successo letterario, del mondo intellettuale o della politica editoriale è privo di qualsiasi spirito critico e anzi rivela una mitizzazione abbastanza ingenua di tali «ambienti altolocati» e della «vita di ampio respiro» (pag. 252) di chi li frequenta.

Confesso che questo mio stato d’animo di fastidio mi crea qualche problema. Fra l’altro alcune amiche che stimo, che fanno critica letteraria da anni e sono lettrici raffinate e intelligenti, apprezzano sinceramente Elena Ferrante e si apprestano a scrivere saggi serissimi sulle sue opere. Che nel mio fastidio ci sia una dose di sessismo? Che non riesca cioè a penetrare nei segreti di una scrittura femminile (o, comunque, al femminile)? E se invece, ribatto, in quell’esagerato apprezzamento ci fosse una sorta di zdanovismo femminista, e cioè un atteggiamento ideologico preconcetto, aprioristicamente favorevole alla scrittura di una donna (o che tale si presenta), a prescindere dai valori letterari dell’opera?

Penso che la questione debba essere posta e il dibattito vada aperto. Anche qui, su questo blog. Se qualcuno mi convincerà, sono pronto a ravvedermi, anche se temo che non sarà facile.

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