Una poesia di Magrelli e l’inizio dell’anno scolastico
Valerio Magrelli è un poeta fra i maggiori, forse il maggiore, degli ultimi trenta anni (il suo primo libro, Ora serrata retinae, è del 1980). In un paese civile, in cui la cultura abbia ancora una eco e un valore, il suo ultimo libro, Il sangue amaro, uscito da Einaudi, avrebbe costituito un evento anche per persone mediamente colte e informate. Se ne è parlato, invece, solo nella cerchia degli specialisti. Né posso parlarne ora io qui, occorrerebbero altra lena e altro spazio. Però di una poesia vorrei dire qualcosa, intitolata Invettiva sotto una tomba etrusca, da leggersi magari insieme con la successiva Il funerale laico a cui mi pare intrinsecamente legata.
La poesia è interessante sia perché conferma una evoluzione della poesia di Magrelli già evidente a partire da Didascalie per la lettura di un giornale (1999), sia per il tema che affronta. Parlo di un’evoluzione in senso civile, ancora più significativa in quanto verificatasi in un autore che nelle sue prime opere sembrava sospetto addirittura di calligrafismo. Anche la poesia insomma, abbandonato il disimpegno del postmodernismo, sembra orientarsi in una direzione nuova che si registra anche, e forse ancora di più, nella narrativa e che sembra qualificare una nuova fase della letteratura occidentale (la fase dell’ipermoderno, se si vuole accettare il termine recentemente proposto da Raffaele Donnarumma nel libro Ipermodernità, pubblicato poche settimane fa dl Mulino).
Quanto al tema, basta il titolo, dove colpisce già il rovesciamento. Invettive, preghiere, elegie avevano per tradizione, prima e dopo Foscolo, uno spazio obbligato: si svolgevano sopra una tomba e non sotto. C’è qui un elemento straniante, potenzialmente barocco che è tipico della maniera di Magrelli. Ma è tutt’altro che una invenzione formale, una trovata per stupire il lettore. Il rovesciamento di prospettiva – da dentro una tomba, sotto il suo coperchio – serve piuttosto a comunicare una impressione di chiusura senza scampo, di un orizzonte tappato, di una morte che si reclude in se stessa e non lascia intravedere alcun possibile spiraglio di vita e nessuna alternativa. E’ l’alfabeto dei padri che è morto, è morta la lingua della poesia. Che la poesia e il suo linguaggio appartengano al passato, a un mondo scomparso o in via di scomparsa è stato detto più volte, da Leopardi sino, per esempio, a Fortini. Ma si trattava appunto di invettive o lamenti sopra la sua tomba: c’erano ancora indignazione e speranza. Ora si vive invece, si legge nella già citata poesia successiva, nell’epoca in cui «Non c’è rimasto niente, appena il morto,/ e solo con un morto si fa poco». Ai poeti e a chi legge la poesia, e anche agli intenditori di letteratura in generale, sono venute meno «le vecchie parole» e, con esse, la possibilità di intendersi e di parlare. Sono rimaste soltanto le tombe, «estremo ridosso». Il poeta può solo parlare dal loro interno, accompagnato dalle forme colorate degli antichi disegni: «Perciò parlo da qui,/ voce reclusa nel buio/ tra forme colorate, ma immobili per sempre/ come l’ultimo alito/ della nostra pronuncia». Le tombe non incitano più a egregie cose, non sono ragione di speranza e nemmeno di disperazione. Qualcuno ha trasformato il mondo, ha cacciato e braccato l’alfabeto, e non resta che parlare «tutti uguale»: ormai, infatti, parliamo «tutti la stessa lingua che ci ha tolto la nostra».
E’ una poesia questa che ogni insegnante di letteratura italiana dovrebbe leggere all’inizio dell’anno per ricordarsi le difficoltà che dovrà affrontare nei mesi successivi. E magari leggerla anche ai suoi studenti a voce alta, in classe, in modo che anche loro abbiano chiara la situazione che si spalanca loro davanti appena aprano un testo letterario, e magari una qualche forma di pietas li faccia per un attimo commuovere spingendoli a piegarvi sopra il capo e a cercare di resuscitare per un attimo un mondo scomparso.
Invettiva sotto una tomba etrusca
Adesso parleranno tutti uguale,
tutti la stessa lingua che ci ha tolto la nostra.
Hanno cacciato l’alfabeto tra i campi
Braccandolo come un fuggiasco, come un ladro,
l’alfabeto dei padri.
Nessuno ci capirà, e nemmeno tra noi
Impiegheremo più le vecchie parole,
corrose, diroccate mura delle nostre fortezze.
Ci hanno lasciato soltanto
Le tombe, estremo ridosso.
Perciò parlo da qui,
voce reclusa nel buio
tra forme colorate, ma immobili per sempre
come l’ultimo alito
della nostra pronuncia.
________
NOTA
La fotografia è di Iwan Baan, New Carver Apartmenets, Maltazan.
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