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diretto da Romano Luperini

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La telecamera a scuola

Un giorno uno studente mi chiese: «Prof, perché non ci fa un corso sul linguaggio del cinema?». «Perché non ne sono in grado», gli risposi. Ma l’estate seguente mi attrezzai. Lessi alcuni libri ed affittai decine di film, producendo una dispensa di una quarantina di pagine ed un dvd a corredo con una cinquantina di più o meno brevi sequenze filmate. Successivamente la dispensa si accrebbe e le sequenze filmate divennero più di duecentocinquanta.

La maggior parte dei ragazzi a cui, anno dopo anno, il corso fu sottoposto manifestò un certo interesse. Ma l’entusiasmo aumentò considerevolmente quando, ad un certo punto, per la prima volta misi in mano agli studenti la telecamera: dopo un apprendistato basato su alcuni esercizi di «grammatica filmica», chiesi loro di realizzare un prodotto che tenesse conto di tutte le competenze acquisite, un cinegiornale d’istituto a cadenza bimestrale.

Per non perdere a mia volta slancio, feci sì che negli anni successivi le classi realizzassero un prodotto via via diverso, naturalmente tenendo conto del programma curricolare svolto o in fase di svolgimento: campagne di «pubblicità progresso» (che, insieme agli spot televisivi, prevedevano anche poster di 6×3 m, manifesti e comunicati radio); «interviste impossibili», in costume, di grandi personaggi della storia o della letteratura, traendo spunto dall’omonima e fortunata trasmissione radiofonica degli anni Settanta; pubblicità di tipo “Carosello”, con scenetta di circa due minuti e mezzo e codino pubblicitario di trenta secondi.

Ma il lavoro più faticoso ed ambizioso, durato circa due anni (dal novembre del terzo anno all’ottobre del quinto), è stato il parziale adattamento dell’Inferno dantesco, lungometraggio di circa trentadue minuti: oltre venti ore di girato, uso di sei telecamere, location disparate (campagna, mare, montagna, interni), costumi autoprodotti. Il tutto cercando di non danneggiare in alcun modo le attività curricolari, e dunque operando soltanto durante le domeniche, le feste, le vacanze estive, con l’indispensabile collaborazione di alcuni genitori.

La classe in questione, che mi fu affidata fin dal secondo anno, era particolarmente problematica: agli inizi del terzo, alcuni studenti avevano già subito provvedimenti disciplinari, mentre i più apparivano ancora non sufficientemente motivati allo studio. Decisi dunque di provare a mettere insieme i due moduli che avevano incontrato (quello sul linguaggio del cinema, in seconda) o stavano incontrando (quello sull’Inferno dantesco, in terza) il maggiore interesse. Presentai così una proposta di progetto, ed ottenni dalla scuola l’occorrente per le scenografie, i costumi ed i trucchi di scena, nonché un ottimo treppiedi, un megafono e due radiomicrofoni comprati per l’occasione (anche se l’esperienza mi avrebbe poi dimostrato che è molto difficile, disponendo di mezzi modesti, registrare il sonoro in presa diretta, sicché la maggior parte del prodotto finito è stato doppiato dai rispettivi attori). Il ciak me lo feci da solo.

La fase operativa iniziò con la divisione dei compiti: ogni ragazzo si rese disponibile per uno o più ruoli all’interno della troupe, e si costituirono delle squadre. Prima di cominciare le riprese, mentre le costumiste producevano alcuni semplici abiti per gli attori principali e gli scenografi pianificavano le loro attività (la maschera di Minosse, le ali delle arpie, le anime-albero del bosco dei suicidi, le tombe infuocate degli eretici, ecc.), gli sceneggiatori-registi-operatori di macchina selezionavano insieme a me le parti di testo da filmare e, per ottimizzare i tempi, preparavano delle schede nelle quali si suggerivano tutte le possibili location, con le scene relative ed i materiali che sarebbero occorsi. Si decise, non ricordo se da parte mia o collettivamente, che non c’era bisogno di alcuna riscrittura: il testo da recitare sarebbe stato costituito dagli stessi versi di Dante.

La prima volta che girammo fu a fine ottobre, al mare. Nonostante l’acqua fosse un po’ fredda, un ragazzo si immolò e rese possibile la visualizzazione della prima grande similitudine dell’Inferno: «E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva…». Nella stessa occasione, tutte le ragazze furono truccate (anche le stesse truccatrici) e fecero un provino per individuare «gli occhi di Beatrice». Esaminati i provini, la scelta degli sceneggiatori e registi fu unanime: avevamo trovato Beatrice, scegliendola solo sulla base dell’espressività degli occhi.

Il resto fu in discesa, anche se non privo di intoppi e fatica. La cosa più difficile era trovare sempre qualcosa da far fare a tutti, perché chi rimaneva troppo tempo passivo tendeva ad annoiarsi o, peggio, a disturbare il lavoro degli altri. Come sovente accade, la distribuzione del lavoro non fu omogenea, sicché alcuni diedero un contributo poco più che minimale ed altri lavorarono per due. Ebbi anche un meraviglioso factotum che mi fece da segretario di produzione: tra molte altre cose, si incaricava persino di trovare il posto in auto per tutti, tenendo conto dei genitori disponibili, dei compagni già patentati e della vecchia macchina del prof. Una volta, considerando la presenza di genitori, fidanzati e fidanzate, ci ritrovammo al bosco della Ficuzza in più di cinquanta: una sorta di allegro caos alla perpetua ricerca di un po’ d’ordine.

Ci si vedeva al mattino, in genere molto presto: lontano dall’estate, del resto, da un lato bisogna sfruttare tutte le ore di luce, dall’altro si deve tenere conto del freddo dell’imbrunire. Una volta, con qualche mugugno, andammo a girare il sabato santo, mettendoci in movimento alle sette del mattino. Il fatto che non mancasse quasi nessuno mi confermò che i ragazzi avevano deciso di impegnarsi sul serio; per alcuni di loro era un’occasione di riscatto: volevano che della loro classe non si parlasse solo come accozzaglia di studenti indisciplinati.

Chi veda il film, dopo avere un po’ arricciato il naso nel rilevare la marcata cadenza regionalistica della pronuncia, deve però ammettere che non una sola parola di Dante è stata storpiata: ciò non perché abbia imposto agli studenti di imparare alla perfezione le loro parti, ma perché ero io a suggerire il testo, verso dopo verso, all’attore di volta in volta recitante; e, disponendo di più telecamere, il montaggio è stato fatto in modo che ad ogni verso si cambi inquadratura, eliminando le parti nelle quali si sente la mia voce. Questa scelta è stata attuata dopo avere constatato la difficile praticabilità delle soluzioni alternative, che avrebbero ulteriormente allungato tempi di realizzazione già sufficientemente lunghi.

In ultimo, è stato quasi tutto mio il montaggio: non perché mancassero gli studenti interessati ad imparare da me le tecniche o già sufficientemente competenti (si deve ad uno di loro l’effetto di sparizione delle anime giudicate da Minosse e indirizzate nei cerchi sottostanti), ma perché non era facile per loro disporre del tempo e delle attrezzature necessarie: a parte la costosa licenza per un buon software, infatti, alcuni anni fa ben pochi disponevano di un hard disk da un terabyte, ed ogni ora di girato in alta qualità occupa circa 13 gigabyte di spazio.

Quale che possa essere giudicata la qualità del prodotto finale, certo molto «artigianale», non sembrano esserci dubbi su un coinvolgimento autentico degli studenti, che hanno lavorato in équipe per un periodo molto lungo, gustando i versi di Dante al di là delle loro stesse aspettative. {module Articoli correlati}

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