Monsone e semaforo. Lettere dalla Corea del Sud/1
Ci siamo: finalmente è arrivato il Monsone. Era da tanto che lo aspettavo, che chiedevo a tutti – colleghi, studenti, pezzi di cielo: quando arriva il Monsone? Ma nessuno sapeva rispondermi con precisione. Chi diceva giugno, chi luglio, chi pensava che forse non sarebbe arrivato affatto. Qualcuno mi ha pure detto che due anni fa, a Delhi, il Monsone non era riuscito a bucare la crosta d’inquinamento e allora aveva deciso di tornare indietro, gonfio e deluso, lasciando secche le rughe degli elefanti e negando sollievo ai respiri, brillantezza ai colori.
Ma Seoul non è Delhi e nemmeno Gwang-ju lo è. Il Monsone è qui, è grosso e violento e a quanto pare resterà a lungo: un mese intero. Ieri sono uscita apposta per incontrarlo, ma non avevo voglia di starmene qui in campagna, a osservare come le risaie diventano specchi: volevo città, volevo Seoul. E così, dopo un mosaico di sedili dell’autobus e scale della metropolitana, sono scesa in mezzo ai grattacieli ondulati e alle strade a quattro corsie, che per attraversarle devi prima segnarti la fronte e poi mutarti in saetta.
A Gagnam le segretarie sfoggiavano stivaletti da pioggia con i tacchi a spillo e si stringevano le scapole sotto ombrellini satinati. Dopo mezza giornata e un accenno di tifone gli ombrellini erano diventati scheletri di piccione e ragni stecchiti e si ammucchiavano ai bordi dei marciapiedi. Pioveva a secchi, pioveva in orizzontale e in verticale, pioveva a losanghe e pure dal basso verso l’alto. Eppure non mi dispiaceva, anche se avevo la testa pesante e la pelle spalmata di colla, perché ero felice di conoscere il Monsone e di spostarmi grazie alle sue tregue.
Qui non fa paura la pioggia ma il sole. Fino a due giorni fa le donne giravano per strada schermate da ombrellini ricamati e con le nuche aureolate da visiere di plastica nera. Alcune indossavano anche manicotti estivi, tubi di lycra anti UV stretti intorno agli avambracci, per respingere i raggi malefici e soprattutto il colore ambrato. La pelle deve restare bianca, bianchissima, e le creme schiarenti non bastano a proteggerla. Ci vogliono armature di lycra e scudi di pizzo rosato.
Pochi giorni fa, prima che arrivasse il Monsone, ho conosciuto una signora con i manicotti. Era una tipica ajummà, una zietta (i coreani si immaginano come una grande famiglia e si rivolgono a tutte le signore di una certa età con l’appellativo ajummà. Sotto casa mia c’è un piccolo parco giochi e sento spesso i bambini che corrono, cadono, piangono e poi chiamano i ragazzi più grandi: oppà!, ‘fratellone’, oppure onnì!, ‘sorellona’). L’ajummà ha cominciato a parlarmi in autobus, poco prima che scendessimo alla stessa fermata. Raccoglievo detriti di quello che diceva e la fissavo con gli occhi disarmati e le sopracciglia aguzze. Le sue sopracciglia invece erano rasate e disegnate con la matita, ma alcuni peli veri ancora spuntavano sotto la linea polverosa marrone. Era una signora espansiva e premurosa e alla fine, quando siamo scese dall’autobus, mi ha protetto dal sole con il suo ombrellino di pizzo nero, sanguinante di rose rosse.
La comunicazione è un dramma. Ho seguito solo due lezioni del corso di coreano e ho anche smesso di studiare da autodidatta. Durante il semestre ero così impegnata a farcire di diagrammi e sorrisi le mie lezioni che non avevo il tempo di sfogliare altre grammatiche e disegnare arabeschi squadrati. Ora capisco perché colleghi che vivono qui da quattro anni non sanno ancora ordinare il salmone al ristorante. L’esposizione alla lingua è inutile: non si tratta di suoni che si possono orecchiare e riprodurre, né di vocaboli che la memoria sia capace di custodire.
Di solito parlo Hangul solo una volta a settimana, quando vado al supermercato e chiedo il pedàl, la consegna a casa della spesa, che qui è gratuita. E da un mese a questa parte l’omino delle consegne mi carica sempre nel suo pulmino e porta a casa la spesa con me inclusa. Dopo aver pagato alla cassa – strisciando la carta di credito per sottrarmi ancora un po’ ai numeri grandi – lo trovo sempre ad aiutarmi. Mi prepara lui stesso lo scatolone: sistema tutte le cose che ho comprato, cominciando con quelle più pesanti e rigide che schiaccia sul fondo e finendo in cima con le più molli o fragili. Incastra insieme cavoli viola cinesi e cubi di tofu, nidiate di uova maculate e boccette di salsa alla soia. Gli spigoli, le fessure e le crepe sono per i cilindri di radicchio bianco, per i tubetti di dentifricio arcobaleno e per i cerotti di Hello Kitty. Quando ha sistemato tutto, sigilla il pacco: fa brillare i bordi delle ali di cartone, saldandole con il nastro adesivo. Poi carica la scatola sul camioncino verde, dopo aver aperto la portiera per lasciarmi entrare nell’abitacolo e farmi sedere accanto a lui, e non si immagina che io sono già pronta da minuti a inalare quell’odore di camioncino, che è proprio lo stesso dell’ape di mio nonno, come uguali sono pure gli ammortizzatori.
Il tragitto fino a casa è sconcertante. Quel silenzio è saturo di odore d’infanzia e di casa, ma al tempo stesso è abitato da un’estraneità totale e da un’impotenza squassante. Quando siamo fermi al semaforo il silenzio si amplifica, diventa intollerabile. E allora mi rendo ridicola. Modello gesti che dicono frasi banali e stantie, movimenti riempitivi – ma comunque fraintendibili. Per esempio: il mio gesto che voleva mimare la lunga attesa al semaforo (una contorsione del polso che enfatizza l’orologio e un dito che indica il tondo rosso e la fila di macchine ferme) è stato interpretato dall’omino come: “mantieni la distanza di sicurezza!”. E così, al trionfo del verde, ha aspettato che la macchina davanti a noi si allontanasse di cinque metri, chiedendomi se così mi sentivo più tranquilla.
Il resto del viaggio l’ho passato a chiedergli scusa e a dirgli che non intendevo quella cosa, che non volevo rimproverarlo – ma chissà se mi ha capito. Avrei voluto definire il tempo e invece ho comunicato spazio. Quel che è rimasta è la misura, ma invertita: invece di un’attesa molto lunga, una distanza troppo corta.
Ancora più imbarazzante è la salita in ascensore – noi due racchiusi in un parallelepipedo foderato di specchi. Lì siamo visibili completamente l’uno all’altra. Così scoperti, ma con la lingua e le parole infossate nella gola. Quando arriviamo in cima, l’omino scarica le casse d’acqua all’ingresso e sistema in una fila ordinata le mie ballerine, mescolate nell’ordalia mattutina di uscire. Io arrossisco, sorrido, ringrazio unendo le mani e inchinandomi più volte, a piccoli scatti. Quando l’omino se ne va mi metto a fissare le casse d’acqua, che pesano tanto, andrà a finire che mi sfiancheranno. Con un piede raddrizzo il cestino di Cappuccetto Rosso – minuscolo baricentro dello zerbino – e penso che dovrei essere più ordinata, rispettare angoli e simmetrie, telefonare ogni tanto a mio nonno e chissà se ancora lo guida l’ape.
24 giugno 2011
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