A che cosa serve la letteratura?
L’immaginazione letteraria a carico del SSN
Ma davvero la letteratura è diventata un linguaggio anacronistico, o addirittura postumo? Lo pensiamo volentieri da queste parti, alla periferia dell’impero, ma non lo pensano affatto nel centro dell’impero, negli Stati Uniti, dove la letteratura viene usata nei corsi di filosofia morale, di diritto e financo di economia. L’americana Martha Nussbaum, docente di etica, nel Il giudizio del poeta (Feltrinelli) ci mostra la letteratura come componente essenziale dell’argomentazione razionale, e proprio in virtù della sua forza empatica: ci permette infatti “di entrare con l’immaginazione nelle vite di persone lontane e di provare emozioni connesse con tale partecipazione”. Avete mai pensato che la letteratura, per questa ragione, dovrebbe essere rimborsata dall’assistenza sanitaria? Si può infatti equiparare ad una telecamera mentale che ci permette di vedere altri mondi, di viverci dentro, senza peraltro intossicarci come fanno le droghe (vedi Mente al punto del linguista Raffaele Simone, Laterza). Ma soffermiamoci sulla Nussbaum, che forse per prima ha postulato l’importanza dell’immaginazione letteraria nel discorso pubblico, e anche se non andrebbe trascurata in proposito la pionieristica riflessione di Giuseppe Montanelli, prozio di Indro, illustre giurista ottocentesco e patriota federalista.
La letteratura come scienza delle emozioni
In particolare per quanto riguarda il diritto la Nussbaum usa Dickens, e in particolare Tempi difficili, come satira della più angusta mentalità utilitaristica. Per lei le emozioni non hanno tanto a che fare con l’ “irrazionale” quanto sono giudizi di valore, valutazioni che diamo di cose e persone, e che si rivelano importanti per la nostra crescita. E in questo senso la letteratura è l’unica scienza, benché atipica, a che abbiamo del vissuto emotivo. In L’intelligenza delle emozioni (Il Mulino) ci invita a considerare le emozioni come giudizi, dipendenti sia dal loro oggetto e sia dalle nostre credenze. Non sono correnti marine (Seneca) o raffiche d’aria, forze cieche e invisibili (sono parte del ragionamento etico: il suo è un approccio cognitivo. Mi si perdonerà questa digressione personale ma in fondo tutta la mia attività di critico “militante” si potrebbe riassumere proprio in un uso etico-conoscitivo della letteratura, a volte anche spericolato e ai limiti della correttezza filologica (del grande critico americano Lionel Trilling è stato detto che è “uno storico della morale – historian of morality – che lavorava con materiali letterari”…). Quando lessi il saggio di Simone Weil sull’Iliade poema della forza ne fui folgorato. Può darsi che forzasse in alcuni punti il testo omerico ma ne “liberava” tutto il contenuto morale, per la sua ( e nostra) attualità incandescente. Il filosofo analitico (ma non in senso dogmatico) Hilary Putnam ha scritto che la grandezza del Viaggio al termine della notte di Céline non sta tanto nel convincerci che il mondo è un girone infernale, ma nel mostrarci con esattezza come vive chi la pensa in quel modo. Letteratura come empatia, come identificazione con l’altro. Putnam mi ha insegnato che per stabilire la verità o falsità di un enunciato concorrono non solo fatti linguistici ma anche dei fatti oggettivi, esterni al linguaggio.. E così scongiura il rischio di “perdere” il mondo. Per lui la verità, benché non definibile (impossibile trovarle una “sostanza” o una “proprietà” che resti costante in ogni situazione) però indica comunque qualcosa che “fa resistenza alle nostre teorizzazioni limitandone l’arbitrarietà”. Mica possiamo parlare di tutto a piacimento! E qui veniamo a quella che mi sembra la acquisizione fondamentale di questo “realismo” filosofico: dietro a tutte le nostre applicazioni della parola “vero” c’è come una “disposizione naturale”, la intuizione prefilosofica – legata al senso comune – dell’esistenza di un mondo esterno. Singolare come i ragionamenti più sofisticati giungano alla fine a rivalutare una conoscenza intuitiva! Così si salva, tra l’altro, la teoria della verità come corrispondenza alle cose, pur con tutta la sua problematicità. E qui torniamo alla letteratura. La verità che incontriamo nei romanzi, per quanto non scientifica, arricchisce la nostra conoscenza del mondo.
La letteratura che fa attrito col mondo
Molti degli scrittori antologizzati da Andrea Cortellessa nel recente Narratori degli Anni Zero (“L’Illuminista”, Ponte Sisto). vi girano intorno, dimostrando in ciò una sensibilità che va oltre il postmodernismo: per Pascale la letteratura studia l’individuo in relazione a un insieme, per Lagioia “è un ponte saldissimo con la tradizione” , per Bajani “batte dove il dente duole”, per Gabriele Pedullà non deve imitare la velocità dei videoclip ma valorizzare la propria specificità cognitiva, Vasta aspira a “rifondare le condizioni di un consorzio umano”. Saviano poi si mostra ossessionato dalla verità, che non è mai “misurabile” e ci mette in relazione con il passato e le sue utopie irrealizzate. Ora, parafrasando Putnam credo che la verità particolare della letteratura (una verità che ha bisogno di molta immaginazione) riguardi la relazione tra idee e destini, la congruenza tra visioni del mondo e stili di vita. La Cognizione del dolore non ci chiede di aderire alla visione del mondo del protagonista, alla sua tetra misantropia e alla sua “rancura”, ma ci mostra con “esattezza” come vive, cosa sogna, come agisce chi ha quella visione del mondo, e ne giudica i comportamenti (in ciò consiste la sua “etica”, non normativa né aprioristica). Per Morelli in letteratura “non si controlla nulla…”, e infatti la verità non è un effetto retorico, manipolabile a piacimento. E se ogni opera è “immagine del tutto nell’episodio” (Lotman), in questo tentativo di dire il tutto la parola letteraria non resta dentro se stessa (Walter Pedullà ha qui un accento autocritico quando dice che credeva che il linguaggio fosse tutto…) ma dovrebbe produrre un “attrito” con qualcosa che le fa resistenza (con un “fuori”, sia esso la realtà o l’esperienza o…). Dove non c’è attrito il tutto svapora.
Anche alla luce di queste brevi considerazioni tento allora di rispondere a una domanda quasi ineluttabile, e probabilmente ingenua nel suo schematismo, che periodicamente ritorna a proposito delle opere letterarie. Queste si limitano a rispecchiare la realtà (Lukacs) o invece la creano (strutturalismo)? Forse non si tratta di due posizioni incompatibili tra loro. Gli scrittori ricreano continuamente la realtà (la “inventano”, diceva Carlo Levi), ma rispecchiandone qualche lato fino a quel momento in ombra o meno ovvio. Dunque: la rivelano.
NOTA
Questo articolo è uscito su Achab del 1 Dicembre 2012.
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