Primi appunti sul caos: interpretare in Rete. A margine del caso di Charlie Hebdo e del terremoto italiano.
Siamo già confutati, e rifiutiamo di riconoscerci vinti. L’evidenza è ristabilita, e noi, con l’ammirevole malafede dell’innamorato o del credente che nulla scoraggia, rifiutiamo di convenirne. […] Il malinteso è quindi qualcosa di più di un grumo verbale o di una nodosità grammaticale
(V. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente)
Facebook e la gran macchina sociale delle interpretazioni e delle argomentazioni
Sono su Facebook da qualche anno e lo uso quotidianamente. Le vignette di Charlie Hebdo sul terremoto nel Centro Italia sono arrivate anche a me, come a quasi tutti, tramite questo social network. Anche io ho sentito l’urgenza morale e intellettuale di prendere posizione su di esse, anche io ho contribuito a mettere in moto la gran macchina sociale delle interpretazioni e delle argomentazioni, fra migliaia di altri piccoli e dispersi esegeti e retori.
Oggi, interpretazioni e argomentazioni sono pane quotidiano di un vasto popolo, non più prerogativa di una piccola aristocrazia. L’atteggiamento entusiasta di chi vede in questo un avanzamento della democrazia è incauto non meno di quanto sia poco generoso quello di chi rifiuta di buttarsi nel magma e di tirarne fuori uno straccio di senso.
Si dice che si dovrà educare al buon ragionare e al corretto argomentare. Certo. Ma prima di prescrivere un dover-essere ragionevole, sarà bene descrivere quel che è sotto i nostri occhi. Quello che dovremo capire e insegnare a capire è che cosa è in gioco ogni volta che sui social network si scatenano dibattiti o furibondi litigi: non penso infatti che l’“irrazionalità” della Rete sia stata generata dalla Rete stessa, ma che essa semplicemente abbia rivelato con un’intensità inusitata qualcosa che era sotto traccia ma da sempre attivo. Vorrei provare ad andare alla ricerca di questo “grumo” e di questa “nodosità” proprio riflettendo su come funzionino le interpretazioni in Rete.
Come funziona un’interpretazione in Rete /1. L’intenzione dell’autore
La vignetta di Charlie Hebdo era un gratuito e indecente cachinno sui morti, privo di qualsiasi intenzione satirica, o, pur essendo magari di cattivo gusto, aveva come bersaglio polemico la mala politica edilizia italiana? Ciascuno ha dato la sua risposta, in forme articolate o semplici, rabbiosamente o con aplomb; ma quella che a me qui interessa è un’altra domanda: come hanno funzionato le interpretazioni spontanee nate in Rete intorno alle vignette?
Il ricorso agli stereotipi sugli italiani in esse era evidente: «Séisme à l’italienne» (parodia di “commedia all’italiana” e di due celebri titoli del nostro cinema degli anni gloriosi, grazie ai quali all’estero si è cristallizzata una certa idea del nostro costume), l’abbinamento ormai catacresizzato tra Italia e pasta. Ma non pochi hanno sostenuto che le macerie rappresentate come “lasagne” stessero chiaramente per le case italiane mal costruite, che vengono giù nemmeno fossero fatte di pasta. E perché siano mal costruite lo ha ribadito, o spiegato, la vignetta “interpretativa” che Charlie Hebdo ha pubblicato sulla propria pagina Facebook quando le polemiche si sono fatte violente: le nostre case sono «costruite dalla mafia».
Per giustificare la lettura “politica” delle vignette e quella della loro gratuità offensiva si è fatto riferimento (inconsapevolmente) a tre fattori notissimi alla critica letteraria: l’intenzione dell’autore, l’intenzione del testo, valori e assunzioni esterni al testo. Vediamoli uno per uno.
Charlie Hebdo ha “spiegato” la propria vignetta. Di solito si dice che una battuta che ha bisogno di essere spiegata non è mai una buona battuta. Tuttavia è vero che l’autore (finché vivente) può sempre intervenire per precisare il senso di ciò che intendeva dire. Altrettanto vero è, però, che un testo ha una vita propria e, una volta pubblicato, produce autonomamente il suo senso a contatto con i vari lettori, senza che l’autore possa autorizzare l’interpretazione giusta e squalificare quella sbagliata.
Non pochi fra quanti hanno difeso la vignetta, invece, hanno fatto riferimento alla presa di posizione dell’autore per dimostrarne “inequivocabilmente” lo scopo perfettamente satirico: l’intenzione di un autore che si definisca, o autodefinisca, come “satirico” non può che essere di denuncia sociale e politica; se per di più egli stesso conferma questa lettura, ciò non taglia la testa ad ogni ulteriore illazione? Qualcun altro, privo di conoscenze di critica letteraria ma non privo di buon senso, ha osservato che se molti non hanno capito la vignetta e tantissimi se ne sono sentiti offesi, forse l’autore qualcosa aveva sbagliato: un onesto richiamo alla sensibilità dei lettori.
Ma, volendo considerare la faccenda da un punto di vista squisitamente ermeneutico, diremo che, anche ammettendo che l’intenzione di Charlie Hebdo fosse quella dichiarata dalla vignetta interpretativa, quest’intenzione autoriale non avrebbe il potere di invalidare le interpretazioni divergenti (se fondate in altro modo).
Gli utenti della Rete non sanno tutto questo e non sono tenuti a saperlo; ma se si è abbandonata l’intenzione dell’autore come criterio discriminante per l’interpretazione del senso di un testo è perché in questo campo siamo diventati molto più democratici e pluralisti: un testo ha il senso che gli dà l’autore ma anche molti altri, per esempio quelli dei lettori. Di norma in Rete teniamo moltissimo al nostro diritto di esprimere la nostra opinione personale – per noi valore assoluto –: perché dovremmo tornare indietro, ributtandoci a testa bassa fra le braccia di un criterio interpretativo autoritario?
Come funziona un’interpretazione in Rete /2. Il contenuto di un testo
Se abbiamo relativizzato l’intenzione dell’autore è perché abbiamo scoperto la polisemia dei testi, cioè l’idea che un testo possa avere interpretazioni diverse: non nel senso che io possa dire che la Divina Commedia, testo alla mano, racconta la storia di un alieno che ha preso possesso del corpo di un fiorentino del Duecento per dare ad altre cellule dormienti indicazioni cifrate per la conquista della Terra, ma nel senso che ogni lettore è evocatore di sfumature sottili che sono in potenza nel testo e che egli riesce, in un certo senso, a riportare in vita (ad attualizzare): ecco perché posso leggere la Divina Commedia da credente, ed emozionarmi da credente, e leggerla da ateo, ed emozionarmi da ateo.
Quest’importanza delle sfumature portate nel senso del testo dai lettori si perde completamente quando si fa riferimento ad esso come a un dato obiettivo, secondo un’idea feticistica del significato. Provo a spiegarmi.
Chi sosteneva la gratuità dell’offesa alle vittime del terremoto (per chiarire che chi qui scrive ha partecipato alla gran macchina sociale delle interpretazioni come chiunque altro e allo stesso titolo: io ero fra questi) portava in primo piano, e, in un certo senso, assolutizzava il ricorso allo stereotipo degli italiani mangiapasta. L’intenzione di denuncia politica, davanti a questo, diventava francamente secondaria. Non si raccontano barzellette del genere “c’è un italiano, un francese, un tedesco” durante un lutto, nemmeno se lo scopo fosse di denunciare la caciaronaggine del primo, il sussiego del secondo, la rigidità del terzo, come ha osservato Mauro Biani sul Manifesto.
D’altra parte è vero che la metafora delle “macerie-lasagne” poteva essere letta con agio come denuncia della mala edilizia italiana. Se l’Italia è il paese della pasta, cioè di un cibo molliccio che evoca immediatamente pummarola, mandolino, gaiezza e superficialità, non sarà forse vero che c’è poco da fidarsi degli italiani quando si tratta di fare una cosa solida come tirar su un muro che regga a un terremoto? Dunque perché scandalizzarsi per un paragone magari sgradevole, ma spiegabilissimo con il linguaggio satirico, e non concentrarsi su ciò che conta davvero, la sicurezza edilizia?
Perché entrambe le letture erano testualmente plausibili? Perché il testo conteneva elementi che, effettivamente, le autorizzavano entrambe. Dunque quanti, per cercare di sostenere la propria tesi, hanno ciecamente negato persino la presenza degli elementi ambigui, contraddittori, che incrinavano la coerenza della loro lettura, hanno dimostrato di pensare al significato di un testo in termini feticistici: il significato di un testo è l’idea che ne sta alle spalle, e che il testo semplicemente concretizza in termini univoci. Come dire che se io dicessi “gatto”, tutti dovrebbero pensare esattamente alla stessa cosa, cioè una rappresentazione obiettiva di un animale a quattro zampe che fa le fusa. Invece, quando io dico “gatto”, mi vengono in mente: i gatti che ho avuto, la mia allergia al pelo di gatto, i gattini su Facebook, “finché non l’hai nel sacco”, Edgar Allan Poe, e molto altro. E questa congerie di rappresentazioni, contenuti verbali, ricordi, emozioni, non potrà mai coincidere con quella di Tizio Caio Sempronio.
In altre parole, il “significato” di un testo non si può chiudere in una formula, in una morale, in una definizione: è una nebulosa e ciascuno ne coglie sempre e solo una parte. E tutti i testi sono ambigui e plurivoci: certo, alcuni lo sono molto più di altri (la vignetta di Charlie Hebdo lo era altamente), ma è pur vero che nessun testo ha uno e un solo significato.
Come funziona un’interpretazione in Rete /3. I valori e gli orientamenti del lettore: il mondo che sta al di fuori del testo.
Se dunque nemmeno il testo ha un “suo senso”, chi decide che cosa significhi? E perché ci sono stati lettori pronti a condannare senza appello Charlie Hebdo e altri pronti ad assolverlo con non minor certezza, quasi che l’interpretazione fosse inconfutabile?
Entrano qui in gioco valori e orientamenti personali, consapevoli e inconsapevoli: principi morali, religiosi, antropologici, politici. Essi stanno prima e al di fuori del testo, e si stabiliscono dunque come presupposto dell’interpretazione. Semplificando molto: chi ha a cuore la libertà della satira a ogni costo e chi ha a cuore il rispetto del lutto a ogni costo sceglie l’interpretazione che rafforza (o difende) in ciascuno il proprio sentimento dominante. Per farlo, ciascuno seleziona o dà salienza a quegli elementi che confermano i suoi valori (e che in un altro linguaggio potrebbero essere chiamati “pregiudizi”).
Insomma, per quanto ciò possa sembrare paradossale (non lo è: si chiama circolo ermeneutico), il giudizio sulla vignetta è basato sulla sua interpretazione, l’interpretazione è basata su dati testuali, ma questi dati testuali non “stanno semplicemente lì”, perché devono essere interpretati (bisogna dargli un senso): e ciò avviene sulla base del (pre)giudizio del lettore. È importante cogliere l’aspetto circolare e ricorsivo di questo modo di procedere dell’interpretazione: è vero che gli orientamenti del lettore selezionano i dati testuali, ma è anche vero che questi retroagiscono sugli orientamenti del lettore. Nel circolo si può entrare da ogni punto. Quando invece lo si fraintende e lo si riduce a un rapporto di causalità lineare, si finisce sempre per pensare o che il lettore interpreti semplicemente prendendo atto del contenuto di un testo (il feticismo del significato di cui ho detto) o, per reazione a questa concezione scientista dell’interpretazione, che il lettore sia l’origine del senso e possa vedere in un testo quel che gli pare.
Nel caso dei dibattiti in Rete, molto spesso le assunzioni e i valori personali sopravanzano di gran lunga la considerazione dei testi e li si usa solo come pretesti per enunciare le proprie certezze. Ma opporre a questo una sorta di sanitarismo dell’interpretazione e dell’argomentazione per tentare di rimuovere questa pregiudizialità non ha nessun senso: semplicemente perché tale pregiudizialità non è estirpabile in alcun modo. Si può cercare, però, di metterla alla prova.
“Copertine” o “coperture”? Ovvero: ma i contesti servono a qualcosa?
È possibile ridurre l’ambiguità del testo e limitare la forza dei pregiudizi del lettore facendo riferimento a dati di fatto paratestuali, contestuali, extratestuali? Analizziamo una interpretazione che mi è capitato di leggere in Rete.
Sui social network la vignetta di Charlie Hebdo è circolata quasi sempre priva di un’informazione paratestuale, una scritta dentro una testatina nera che, nel formato cartaceo, si trovava sopra di essa: «les couvertures auxquelles vous avez échappé». Mi è capitato di leggere un’interpretazione che, reintegrando proprio questa scritta, ristabiliva o presumeva di ristabilire il senso frainteso della vignetta: «La vignetta di #charliehebdo sul terremoto italiano si spiega solo nella versione con la testatina nera: “la copertura (mediatica) che vi siete persi”, riferendosi all’abbinata con l’amatriciana fatta da tutti i media. L’obiettivo satirico non sono quindi i nostri terremotati (come spopola su social), ma lo stereotipo giornalistico (della stampa estera) che abbina la gastronomia ai fatti (e vizi) d’Italia».
Come si vede, un ribaltamento completo del senso: un gioco di specchi, una lettura di secondo grado, in cui Charlie Hebdo diventa castigatore della stampa straniera e soccorritore degli italiani ridotti (da terzi) a consumatori di pasta all’amatriciana.
Insomma, in Rete («come spopola sui social») frotte di lettori disattenti, concentrati sui contenuti dei messaggi ma incapaci di fare adeguato riferimento alla loro forma (alla loro collocazione contestuale e agli elementi paratestuali) hanno la tendenza a fraintendere i testi, che richiedono invece una lettura più attenta ed esperta. Sembrerebbe il ristabilimento di una verità oggettiva contro le ubbie e irrazionalità del “popolo del web”. Così non è.
Quest’interpretazione, infatti, mi sembra davvero fragile (e, per quanto mi riguarda, da scartare certamente) per due ragioni: la prima è che «couvertures» in francese significa anche “copertine” e, in ogni caso, per far tornare la traduzione “coperture mediatiche”, l’interprete è costretto a integrare con un aggettivo assente nell’originale (e che andrebbe usato anche in francese perché “couvertures” assuma quel significato); la seconda è che nelle pagine finali di ciascun numero, Charlie Hebdo pubblica le vignette che avrebbero potuto diventare copertine, ma che sono poi state scartate.
La traduzione più probabile, perciò, sembra essere “le copertine a cui siete scampati”. E, volendo, si potrebbe anche caricare di un senso fortemente connotato quell’“échappé”, intendedolo così: se avessimo voluto essere davvero cattivi, avremmo fatto questa copertina, ma ve l’abbiamo risparmiata[i]. Insomma, una sorta di gioco autoironico sulla irriverenza feroce per la quale Charlie Hebdo è noto.
Una conoscenza fattuale (l’abitudine di Charlie Hebdo di pubblicare copertine scartate) e un noto principio ermeneutico, quello di «economia dell’interpretazione» (Eco: se qualcosa può essere spiegato in modo semplice a partire da elementi evidenti, l’ipotesi che costringe a percorsi più lambiccati perde credibilità, seppure non può essere scartata in assoluto) permettono di risolvere con buona approssimazione un caso del genere.
Questo caso, però, ci dice che persino il richiamo a un “dato di fatto” può essere infondato e nascondere, in sostanza, un ennesimo caso di “prevaricazione” del senso del testo da parte di valori e assunzioni del lettore (il lettore in questione, evidentemente, era fra quanti pensano che la satira abbia sempre un obiettivo sociale e politico). Si dirà che si trattava di un dato di fatto soltanto apparente. Vero. Ma la confutazione della traduzione e del senso del paratesto della vignetta, a rigore, non confuta anche l’interpretazione della vignetta come satira politica, perché questa può essere sostenuta per altre vie ancora. In altre parole: confutare un’interpretazione (e il giudizio che ne è il presupposto) è molto difficile, perché per farlo non basta confutare i dati di fatto su cui si fonda. Un’interpretazione assomiglia all’araba fenice.
A questo riguardo è altamente significativo un fatto. Ho saputo dell’abitudine di Charlie Hebdo di pubblicare le vignette scartate da un professore di linguistica (dunque persona colta e competente) che partecipava con me alla discussione; proprio questo professore non solo non intendeva confutare l’interpretazione della lettura satirico-politica della vignetta, per il fatto di averne indebolito le basi “obiettive” con le proprie allegazioni, ma manteneva anche un atteggiamento di neutralità e indecidibilità rispetto a tutte le tesi in campo, arrivando addirittura a limitare il valore generale dell’informazione che egli stesso aveva fornito: teneva a precisare, infatti, che poteva impegnarsi a dare per certa la presenza della sezione con le copertine scartate solo per i numeri che egli stesso aveva sfogliato[ii]. Forse si tratta di un eccesso di scrupolo, nel senso che la ricerca del senso è sempre fatta di constatazioni, da un lato, e ipotesi, induzioni, deduzioni, …, dall’altro: se la si riducesse alle sole constatazioni faremmo pochissima strada. Tuttavia, che questa cautela dipendesse da rigorosissimo scrupolo scientifico o dal desiderio di mantenersi neutrale e come super partes, essa dimostra molto bene come gli atteggiamenti personali, o il ruolo che si decide di voler giocare dentro una discussione, facciano da contorno ai dati di fatto, modificandone la presentazione.
Ma anche senza arrivare a queste schermaglie retoriche raffinate, tocca constatare come l’interpretazione “couvertures = coperture”, pur se fattualmente debole, aveva, almeno in Rete e proprio presso lettori che si percepiscano come esperti, un certa persuasività, per il fatto di fare appello a un’assunzione comune (e che ci gratifica vedere confermata): la convinzione che il popolo del web legga male e che per arrivare al senso accertato dei testi basti un po’ di attenzione e competenza, come il riportare la vignetta al (presunto) contesto completo.
La (quasi) indistinguibilità di fatti e interpretazioni: logica del negazionismo?
Fatti e interpretazioni sono, dunque, meno facilmente distinguibili di quanto non sembri; per di più i primi, entro un’argomentazione, perdono una parte del proprio statuto di fatti. È quanto si sostiene in uno dei testi capitali dello studio sull’argomentazione e la retorica del Novecento, il Trattato dell’argomentazione di Perelman e Olbrechts-Tyteca:
I fatti, almeno provvisoriamente, si sottraggono all’argomentazione. […] L’adesione al fatto non sarà per l’individuo che una reazione soggettiva a qualche cosa che si impone a tutti. [Ma] l’accordo [sullo statuto di fatto] può sempre essere rimesso in questione, e una delle parti può sempre rifiutare la qualità di fatto a ciò che l’avversario afferma. Vi saranno dunque, per un evento, due modi normali di perdere lo statuto di fatto: quando vengono sollevati dubbi in seno all’uditorio cui era stato presentato, e quando si estende questo uditorio, aggiungendogli altri membri, qualificati per giudicare, e che non ammettono che si tratti di un fatto[iii].
Insomma, «non possediamo alcun criterio che ci permetta di affermare che qualche cosa è un fatto in tutte le circostanze e indipendentemente dall’atteggiamento degli uditori». Non è una professione di fede relativistica e postmoderna: i fatti esistono e ci sono modi per avvicinarsi ad essi, certo. Ma questo è vero per ambiti ristretti e specialistici; dove invece è al lavoro l’infinito ricamo dell’argomentazione, questa si presenta sempre come una nebulosa che avvolge i fatti stessi.
In Rete, poi, questa instabilità è moltiplicata dalla perdita di autorevolezza delle fonti competenti, mescolate alla rinfusa fra molte opinioni che competenti non sono, ma anche dal fatto che il meccanismo delle condivisioni a volte allontana il testo da chi l’ha prodotto fino al punto che questo diventa adespota e l’interpretazione arbitraria e improvvisata di un pierino qualsiasi può acquistare peso. Ma un’interpretazione sciocca non si confuterà da sé, per intrinseca, evidente, solare insostenibilità? Leggiamo questa “interpretazione”:
Il problema non è la vignetta in sé, è il come sia stata riportata la notizia in Italia: tutti a titolare “Charlie Hebdo sbeffeggia i terremotati” quando non c’è nulla di più falso. Charlie Hebdo, tra l’altro sfruttando giochi di parole in francese che non sono stati minimamente spiegati da buona parte dei media italiani (“penne” > “sofferenza”, “gratinées” > “costruiti [gli edifici] con la sabbia eccetera), fa una critica politica e sociale ferocissima. E lo fa su più livelli di lettura, accompagnando alla vignetta una didascalia che dice “ancora non si sa se il sisma abbia gridato ‘Allah Akbar’ prima di tremare”.
Per chi non ci arrivasse da solo, significa che per mesi ci siamo occupati solo del terrorismo, quando invece il nostro vero e più grande problema è il malaffare che regolarmete porta a queste tragedie. O, se preferite, “come nostro solito, ci stiamo ammazzando all’italiana mentre guardiamo da un’altra parte”.
Ciò detto, la satira non deve spiegazioni a nessuno e non deve certo scusarsi con chi non è in grado di capirla. Chi dovrebbe scusarsi sono invece i media che hanno distorto e strumentalizzato la notizia facendo passare la denuncia ai carnefici per un attacco alle vittime.
Davanti a questo argomentare (quanti altri casi affini ci saranno, sguinzagliati dentro Babele?) confesso di aver pensato che ormai ci troviamo di fronte alla strisciante avanzata di formae mentis negazioniste. Intendiamoci, non parlo di contenuti negazionisti, parlo di una certa sintassi del pensiero. Chi ha scritto questo post non sostiene infatti teorie storiografiche negazioniste, ma fa ricorso, inconsapevolmente, ad argomenti che per forma le ricordano molto.
I procedimenti retorici dei negazionisti sono stati illustrati da Valentina Pisanty nel suo libro L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo (Bompiani, 2014). Vediamo, a partire dal libro di Pisanty, che cosa ci sia di formalmente negazionista in questo post:
1) un atteggiamento sospettoso e complottista verso le “verità ufficiali”, cui si contrappone la propria verità, unica e indubitabile. I negazionisti hanno in odio la “verità ufficiale” degli storici di professione (qui sostituiti dal “sistema dei media”), che considerano una montatura intenzionale e interessata: liquidata in blocco la “verità ufficiale”, si propone la propria verità non come interpretazione in dialogo con altre, a confutarne questa parte e a confermarne quest’altra (che è l’unico procedimento fondato della ricerca), ma come verità sostitutiva e indubitabile («Quella di Charlie Hebdo è una vignetta bellissima, nonché un esempio magistrale della miglior satira»; «il problema non è la vignetta in sé, è il come sia stata riportata la notizia in Italia: tutti a titolare “Charlie Hebdo sbeffeggia i terremotati” quando non c’è nulla di più falso»; «chi dovrebbe scusarsi sono invece i media che hanno distorto e strumentalizzato la notizia»);
2) le persone tendono a credere alle verità ufficiali perché incapaci di interpretare. A risvegliare da questo sonno ermeneutico interviene il negazionista («Per chi non ci arrivasse da solo, significa…», «la satira non deve spiegazioni a nessuno e non deve certo scusarsi con chi non è in grado di capirla»);
3) lo scetticismo programmatico, che sospetta per principio di tutte le interpretazioni. I negazionisti invertono l’ordine logico della ricerca: invece di credere fino a prova contraria che un testo potrebbe essere autentico, partono dal presupposto che quasi sicuramente sia falso o manipolato, perché vedono ovunque una volontà mistificatrice. Se molte fonti indipendenti ci garantiscono dell’esistenza di un personaggio chiamato Cesare, la ricerca storica darà per scontato questo fatto e si concentrerà, semmai, sulla plausibilità delle ricostruzioni di ciascuna fonte; il negazionista, al contrario, mette in discussione l’esistenza stessa di Cesare (nessuno di noi, in effetti, l’ha mai conosciuto), anche se per farlo deve dimostrare che le fonti non sono indipendenti, ma tutte manipolate da un unico falsario;
4) il fondamentalismo e l’ermetismo dell’interpretazione. Il negazionista francese Faurisson, già critico letterario, dopo aver liquidato le moltissime intepretazioni di un testo polisemico quant’altri mai come Vocali di Rimbaud, fornì l’“unica” interpretazione possibile e, a sentir lui, evidente – un’interpretazione sessuale –, basandola su associazioni che nulla hanno di testualmente cogente; almeno, non più di molte altre interpretazioni[iv].
Nel post si spiegano le scritte della vignetta come giochi di parole del francese che noi italiani non avremmo capito e che i giornali avrebbero accuratamente evitato di spiegarci. L’“ermetismo” in questo caso consiste nel supporre che un testo nasconda sempre doppi e tripli fondi di senso al di sotto del senso letterale («lo fa su più livelli di lettura»), che questo senso nascosto sia invisibile agli occhi di «chi non è in grado di capire», che solo l’interprete in solitaria lotta contro la verità ufficiale possa riportarlo alla luce, che questo senso nascosto sia il senso vero e unico del testo (ecco il fondamentalismo).
Pur sospettando alla prima lettura che si trattasse di un post poco credibile, ho comunque verificato su un dizionario francese cartaceo, sul Larousse online e chiesto a due amici francofoni, se “gratiné” potesse avere il significato di “costruito con la sabbia”. La verifica ha dato esito negativo. Questo toglie credibilità anche all’altra ipotesi, questa improbabile ma non impossibile, che “penne” sia un gioco d’assonanza con “peine”, “pena”.
Mi sono preso la briga di verificare queste traduzioni rivelatesi poi fantasiose per una semplice ragione: non conoscendo l’autore e non volendolo perciò liquidare preventivamente, come un negazionista con il suo scetticismo programmatico, ho ipotizzato che potesse avere un’effettiva competenza in francese.
Estremo paradosso, moltiplicato per mille dalla Rete: se voglio trattare i testi con seria acribia devo prendere sul serio preliminarmente anche quelli inutili, sciocchi. Sperando di non esserne sommersi.
Si può resistere al caos?
L’interpretazione che ho appena analizzato era molto insidiosa: ha, a rigore, l’aspetto di un’interpretazione del tutto credibile e può essere presa sul serio da persone competentissime. Anzi, se si accetta il punto di vista che ho argomentato in tutto questo pezzo, in effetti non si può dire che io l’abbia confutata definitivamente, perché contiene anche elementi fondati, che qualcun altro potrebbe riorganizzare in forma persuasiva: si potrebbe, ad esempio, trovare il modo di circoscrivere argomentativamente il peso di un “dato di fatto” come quello delle traduzioni errate e di valorizzare altri elementi del testo, come l’argomento, che ha un suo fondamento effettivo, della manipolazione dell’informazione (non ne conosciamo casi quotidiani?), oppure un altro, che ha una sua peculiare forza, ovvero la menzione di «ancora non si sa se il sisma abbia gridato ‘Allah Akbar’ prima di tremare». In effetti questa frase non accompagnava mai la vignetta nel suo circolare in Rete (anche se, a differenza di quanto sostiene l’interprete complottista, alcuni giornali l’hanno invece riportata nel testo degli articoli) e abbiamo già visto la forza persuasiva che può avere il fatto di ridurre a popolo di gonzi tutti gli altri e di gratificare l’intelligenza di chi ci legge con la proposta “sensazionale” di una nuova interpretazione, fondata su un indizio fin a quel momento nascosto: qui, il fatto che la polemica fosse contro l’ossessione dei media per il terrorismo.
Come se non si potesse sostenere, semplicemente, che quella frase in arabo si limita ad aggiungere la polemica contro quest’ossessione a una rappresentazione stereotipa degli italiani morti. Ma già: anche questa mia è “solo” un’altra interpretazione.
C’è molto di cui essere preoccupati. L’esercizio critico della cautela, la perfettibilità delle interpretazioni, l’argomentazione come dialogo infinito, il principio kuhniano per cui la verità di un fatto non è assoluta, ma sempre da commisurare a un paradigma che ne stabilisce le condizioni di verificabilità, si stanno stemperando e volgarizzando in un relativismo per il quale tutto si può eternamente rimettere in discussione, basta ricontestualizzarlo: e il problema, drammatico, è che in un certo senso, ciò è vero, come noi (vecchi e inutili?) umanisti sappiamo bene.
Ma, gratta gratta, si vede che si tratta in verità di un relativismo assoluto, assolutizzato, totalitario (non stupisca il voluto ossimoro): se tutto è falso e tutto può essere revocato in dubbio, non resta che aggrapparsi all’unica zattera che rimane, la mia interpretazione, che – ne sono sicuro – è l’unica che ci ha visto giusto.
Davanti a questo caos spesso ci sentiamo comprensibilmente sgomenti: ma questo è il mondo in cui anche noi umanisti ormai viviamo. E anche qui si parrà la nostra nobilitate.
[i] «Échapper: 1. scappare, sfuggire; 2. scampare, sfuggire; 3. sottrarsi; 4. staccarsi». Quindi, nel senso 2, “échapper à un danger [pericolo], échapper à une mort certaine [morte certa]” (Il nuovo Boch. Dizionario francese-italiano italiano-francese, Zanichelli).
[ii] Questo anche se al link da lui stesso fornito si può leggere una frase direi inequivocabile (ne do la traduzione italiana): «Alcune vignette in esclusiva per il blog, fra le proposte fatte dai vignettisti per la copertina del numero 2012».
[iii] C. PERELMAN – L. OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione, Einaudi, 2013 (1° ed. francese 1958), pp. 74-75.
[iv] «A capovolto: sotto l’egida del sesso, il “punto di partenza”. […] U capovolto: sotto l’egida della chioma, l’acquetamento passeggero», eccetera: cfr. V. PISANTY, cit., pp. 32-39.
Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2016, luce e ombra.
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