Morire per vivere: “L’altra figlia” di Annie Ernaux
C’è una scena, in Vivre sa vie di Godard, in cui un filosofo racconta a una prostituta un episodio contenuto in Vingt ans après di Dumas padre. Porthos, che deve far esplodere un sotterraneo, ha appena acceso la miccia e comincia a correre. D’un tratto però, si mette a osservare i propri piedi e a pensare al proprio movimento. Rallenta fino ad arrestarsi, il soffitto gli crolla addosso, per un po’ lo sostiene ma infine soccombe e muore. È posto così, in forma di apologo, il conflitto tra azione e pensiero, ma in fondo anche tra vita e scrittura, e vediamo affiorare l’idea che il pensiero coincida con una qualche forma di morte. Muove da una variante dello stesso nesso L’altra figlia di Annie Ernaux, uscito in Francia nel 2011 e ora tradotto in italiano da Lorenzo Flabbi per L’Orma (2016): scrivendo, l’autrice (Lillebonne, 1940) prova a dare consistenza a ciò che non c’è, ma per farlo deve morire a se stessa, abbandonare il «fuori fuoco del vissuto» (p. 14).
Il libro è un’impossibile lettera alla sorella morta a sei anni di difterite, due anni prima che nascesse Annie. Il nome, Ginette, lo apprendiamo solo dopo molte pagine, ed è una reticenza del tutto coerente al modo in cui l’autrice, da piccola, ha appreso tanto fortuitamente dell’esistenza della sorella maggiore quanto simultaneamente della sua scomparsa: un racconto della madre rivolto a una conoscente, origliato giocando attorno alle due donne. Da quella ferita, inferta nell’estate dei dieci anni, gemma questo scritto, ed è come – continuando la metafora fotografica già nominata – «ritrovarsi a sviluppare una pellicola conservata per sessant’anni senza mai stamparla» (p. 14).
La narrazione di Annie non è un vero e proprio racconto come quello, breve e lacunoso, della madre quanto piuttosto un’inchiesta, volta in più direzioni: a colmare i vuoti della narrazione materna, l’inesistenza della sorella, lo spazio che intercorre tra queste due vite sfasate e, per contro, a riempire la distanza che separa un decesso perso oltre la soglia del conoscibile, dall’origine della propria dedizione alla scrittura.
Da questi pochi cenni riconosciamo alcune delle costanti proprie dell’autrice francese, esponente tra i più significativi della linea “biografica” della narrativa dell’“extrême contemporain” (Cfr. Scrivere la vita in Il romanzo francese contemporaneo, a cura di G. Rubino, Roma-Bari, Laterza, 2012 e http://www.insulaeuropea.eu/leinterviste/interviste/blanco_rubino.html.)
Tradotta in Italia fin dagli anni Novanta per Rizzoli e poi passata sotto silenzio per la tiepida ricezione, l’autrice francese sta conoscendo in questi anni anche nel nostro paese l’attenzione che merita. Spicca infatti nella Ernaux un particolare tipo di ricerca autobiografica, centrata da un lato sulle dinamiche familiari, dall’altro sulle intersezioni tra vissuto individuale e vissuto collettivo, nonché attenta alle «riflessioni e i commenti costanti sul suo lavoro di scrittura che si intrecciano con i frammenti di vita che riferisce». (G. Rubino). Rappresentativo della prima tendenza è Il posto (1983, tradotto per L’Orma nel 2014) dedicato alla storia del padre, mentre verte sulla seconda Gli anni (2008, tradotto in Italia ancora per i tipi de L’Orma nel 2015 e vincitore del Premio Strega Europeo 2016), senz’altro la sua opera più ambiziosa: una ricostruzione della storia collettiva francese dagli anni quaranta al presente sub specie autobiografica. In L’altra figlia la scena è decisamente più intima e ristretta, ma molti temi ritornano: il depositarsi della memoria e il lavoro della scrittura per sollevarne gli strati più profondi, l’indagine sull’immaginario, il costituirsi conflittuale della soggettività nella rete delle interazioni familiari e sociali. E ritornano anche le “fonti” della scrittura, specialmente le fotografie (il libro ne contiene due, oltre alle molte solo descritte), da interrogare per smuovere il passato e intendere ciò che si è divenuti. Il tutto espresso nel consueto stile piano e netto, ma che non cessa di essere interlocutorio.
La forza del libro sta da una parte nella pacatezza e nella severità con cui affronta una materia bruciante, fin troppo disponibile a rigonfiamenti enfatici, dall’altra nel suo continuare ad armeggiare con garbugli che pure non possono essere sciolti del tutto. Un’ostinata volontà di chiarezza anima questo percorso nel passato psichico e famigliare, il quale si avvantaggia dei documenti già altre volte consultati dall’autrice: oltre alle fotografie, il «repertorio personale dell’immaginario» (p. 66), le parole degli altri, materializzate qui negli stralci di alcune lettere di parenti.
Questa tensione razionale trova, tuttavia, un contrappeso nella costitutiva incertezza della scrittura, segnalata fra l’altro dall’accorgimento grafico delle parentesi quadre, che ospitano gli interrogativi balenati nel corso del processo compositivo. Una difficoltà nel dare sostanza linguistica alla persona della sorella e al rapporto tra quel breve tragitto esistenziale e il proprio che è radicata nell’ontologia stessa della scomparsa:
Ho l’impressione di non avere una lingua per te, per dire di te, di non saper parlare di te se non attraverso la negazione, in un perpetuo non-essere. Sei fuori dal linguaggio dei sentimenti e delle emozioni. Sei l’anti-linguaggio. (p. 55)
Da qui deriva il carattere paradossale – ma che la rende tanto più viva – di una ricostruzione che procede per negazioni e domande, e che in molti momenti mette in discussione il proprio statuto e la legittimità delle scelte fatte.
Quando si cerca di dare senso a un contenuto psichico doloroso e parzialmente rimosso, è fondamentale istituire delle distinzioni. Ne L’altra figlia però, allo stesso modo in cui il dire si rapporta a ogni istante con la possibilità del suo ammutolimento, la distinzione tra le due sorelle è posta con forza ma anche negata: la scena della loro relazione – mancata, assurda – è invasa dalla confusione.
L’esistenza di Ginette è, per la sopravvissuta che scrive, larvale, imperfetta: nasce e muore in un racconto (p. 13), per giunta non rivolto alla bambina che suo malgrado se ne impossessa (vive quindi anche in un’appropriazione indebita); vive nel dolore segreto dei genitori e nel segreto che la secondogenita tiene a sua volta chiuso in sé, proscritta dalla «legge del silenzio» (p. 47); vive, infine, sotto i veli e gli autoinganni della rimozione, intravista e subito dopo riprecipitata nella «notte interiore» (p. 63).
Tuttavia, Annie condivide per molti aspetti questa sorte di larva. Si porta dietro il peso di essere nata a compensazione di una perdita, di essere vissuta – almeno fino alla soglia dei sei anni – nel solco lasciato vuoto dalla sorella. Esclusa dall’amore assoluto dei genitori al quale s’era inconsapevolmente affidata, si ritrova illegittima e ridotta a fare da termine di paragone per una bontà più grande: «Alla fine di te dice era più buona di quella lì» (p. 16).
Mentre la figura paterna questa volta è quasi del tutto assente, è la madre, sempre nominata implicitamente con il solo pronome “lei”, ad amministrare l’identità delle sorelle, attribuendo ruoli e qualità. Il primo dei suoi mezzi è il racconto, con il quale dispensa non solo la morte ma anche la vita, questa volta della seconda – quando narra della scampata morte di Annie miracolosamente guarita dal tetano, opponendo risolutamente la sua salvezza alla morte della primogenita. Il suo rapporto profondo con la religione e con gli scomparsi la congiunge alla buona Ginette, mentre contrasta con lo scetticismo della seconda figlia. Ed essa non è mai, per la secondogenita, «nostra madre» (p. 42), ma quella che all’opposto ha sancito un’irrimediabile separazione tra le due sorelle.
Ma la separazione convive con l’indistinzione, un po’ come nel «meccanismo spontaneo della memoria, che appaia tra loro, come figure di un mazzo di carte, individui prelevati a coppie dalla moltitudine degli esseri incontrati» (p. 18). La compresenza ambigua è palese nel motivo della sostituzione («sono venuta al mondo perché tu sei morta e ti ho sostituita», p. 63), ma vi sono almeno altri due passi del libro che insistono su questa dinamica. Nel primo, i due racconti della morte avvenuta e della morte scampata si invertono e confondono nella mente di Annie («Ti vedo sdraiata al mio posto e sono io a morire», p. 33.). Il secondo precede di pochissimo la conclusione:
Peter Pan è scappato dalla finestra aperta dopo aver visto i genitori chini sulla sua culla. Un giorno ritorna. Trova la finestra chiusa. Nella culla c’è un altro bambino. Fugge di nuovo. Non crescerà mai. (p. 79)
Ebbene, chi è Peter Pan, se non l’una e l’altra figlia insieme? È Ginette, sostituita da un’altra e che non crescerà mai per il semplice fatto di essere morta. È Annie, consegnata al sentimento dell’esclusione, in ragione di questo destinata a separarsi duramente dalla propria vita famigliare, infine anch’essa in parte senza possibilità di crescere poiché legata per sempre al trauma del racconto materno.
Forse, allora, la figura di Peter Pan, ribadisce come, per Annie Ernaux, l’unico modo di sfuggire alla confusione delle due figure sia realizzarla compiutamente in quest’altro mondo o altra vita che è la scrittura.
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Fotogragia: G. Biscardi, Ombra, Palermo 2007
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