La passione del professore. L’insegnante di lettere: tra tecnica, flessibilità ed educazione linguistica
Le passioni son così contagiose che
passano con la massima facilità da una persona all’altra
e producono un moto corrispondente in tutti i cuori umani
(Hume, Trattato sulla natura umana)
Ho tra le mani «i manifesti della scuola futurista» progettati dai miei ragazzi, uno recita: «Noi aboliamo la scuola. Da oggi il suo nome sarà Tempo libero. I professori non dovranno avere più di 35 anni e non ci saranno donne. Sono aboliti grembiuli divise e cravatte, saranno permesse solo le anticravatte di metallo leggerissimo e lucentissimo. Niente banchi e cattedre, noi insegneremo nei giardini, nei bar e sui treni. Prima di ogni lezione suoneremo la musica roboante e ascolteremo il rumore della città.» Portarli all’imitazione del linguaggio e dei contenuti dell’avanguardia futurista è stato un lungo percorso: prima abbiamo letto e osservato tutti i manifesti, compresi quelli della cucina e della moda femminile; poi abbiamo studiato il lessico e i contenuti e in ultimo abbiamo analizzato la loro realizzazione pratica, e non vi dico le facce dei miei studenti di fronte ad un balletto futurista su musica di Virgilio Mortari. Per farlo abbiamo usato strumenti diversi: video, immagini, mappe concettuali, testi scritti e compiti di realtà caricati a mo’ di ipertesto, o ipermedia se preferite, sulla piattaforma padlet. Credo di poter dire che ora sappiano cosa sia il Futurismo, anche e soprattutto grazie a questo compito di realtà. Enrico, uscendo dall’aula, mi incalza: «Prof è stato faticoso, ma a cosa serve?»: la sua domanda mi rimbomba nel petto. L’ho pensata tante volte anche io (ma non ho mai avuto il coraggio di farla) mentre al liceo mi spaccavo la testa sulle traduzioni. Lasciamo lì sospesa per un attimo la risposta, la riprenderemo in seguito.
In questi anni, la scuola e la società stanno rincorrendo faticosamente il «qui ed ora», il metodo, ciò che è utile, quantificabile, spendibile, efficiente e funzionale. A noi docenti viene chiesto, giustamente, di essere tecnici della didattica, il che significa concretamente: progettare e compilare protocolli, programmazioni, monitoraggi, griglie di valutazione e autovalutazione; utilizzare tecniche e tecnologie diverse per favorire l’apprendimento degli studenti; coordinare team, commissioni e progetti. Chiariamo un punto, prima dell’accusa di essere reazionaria: io faccio coding coi miei ragazzi e lo ritengo importante, sono nel gruppo di autovalutazione della mia scuola, impiego quotidianamente le nuove tecnologie, utilizzo una piattaforma di e-learnig, navigo parecchio in rete, non mi arrischio con la robotica per limiti personali, ma cerco di spingere perché il mio istituto si muova in tal senso. Eppure, sempre più spesso, provo una certa insofferenza verso questa necessità di analisi, di griglie di monitoraggio e autovalutazione e verso la spasmodica ricerca di dimostrare, quantificare e scomporre gli apprendimenti. Al contempo, soprattutto alla scuola media, avverto forte la pressione a essere un docente flessibile e funzionale, un intrattenitore, uno che può insegnare qualunque cosa, dalla prevenzione alle sostanze, al pensiero computazionale, alle life skill, ma rigorosamente con metodi nuovi e accattivanti. Ma io sono un insegnante di lettere e voglio restarlo (senza dimenticare tutto il resto). Cosa fare, da dove partire, dunque? Credo che il mio primo compito come docente di italiano alla scuola media sia l’educazione linguistica fatta anche attraverso la letteratura: riscrivere “Alla sera” in un linguaggio moderno è un esercizio di interpretazione, di lessico, di grammatica, di ermeneutica insomma. E così, nella penna di Simone, lo spirto guerrier ch’entro me rugge è diventato, dopo innumerevoli passaggi (parafrasi letterale, parafrasi interpretativa, riscrittura personale) quel demonio mai in pace assetato di lotta che urla dentro di me. Con buona pace di Foscolo. La letteratura è disciplina aperta e reticolare, ingresso in altri mondi, è bellezza e passione, è parola che ha infinite possibilità: a noi docenti il compito di mediare tutto ciò, utilizzando strumenti diversi in cui trovano spazio le tecnologie, la lezione frontale, i laboratori di scrittura, tutti i testi e i media possibili, perché la didattica è vincente solo se integrata. Ci sono i testi, ci sono i ragazzi, ci siamo noi: come innestare il dialogo? Usando un fil rouge necessario all’insegnamento: la passione, perché senza passione non c’è insegnamento, non c’è relazione.
Dobbiamo insegnare la passione
«Di tutti questi tre anni, a me è piaciuta solo la Divina Commedia: me la ricordo ancora bene.» Kevin è uno di quegli studenti che ti mettono in croce: il suo percorso scolastico è drammatico anche se abbiamo provato veramente di tutto. Se dovessi essere valutata in base ai suoi risultati scolastici, sarei immediatamente licenziata: scrive in modo semplice e spesso scorretto, non ha mai fatto un compito di grammatica, usa un lessico da strada. Eppure Dante lo ha catturato, lo ha appassionato: io non so se può bastare, anzi presumibilmente no, ma ho imparato stando coi ragazzi che il poco può essere tantissimo, tutto dipende dallo sguardo con cui li si guarda. Noi, in classe, non leggiamo le opere per descriverle, ma per capirle e vivere un po’ con loro, per farci conquistare e per appassionarci: sono felice che Kevin sia stato in compagnia di Dante e so che senza la scuola ciò non sarebbe stato possibile. La prima volta che sono entrata in un’aula ho avuto la certezza di aver trovato il luogo in cui la mia passione per la letteratura e per i ragazzi avrebbe potuto prendere forma: ancora oggi è un sentimento che provo, ben conscia della fatica. E’ dalla passione che scaturisce la mia voglia di ricerca e studio di testi, di metodi, di approcci, essa è la chiave fondamentale per far nascere la curiosità, l’attrazione e dunque il sapere. Attenzione, per passione non intendo le parole tronfie dei parolai, quelli per cui tutto è bello, facile e grandioso: quella di Madame Bovary non è passione, è distruzione ed egoismo. La passione è umiltà, è costanza, è serietà, è il tempo dilatato e continuo dello studio: senza passione non c’è conoscenza. Ed essa è contagiosa: di fronte a un docente appassionato gli studenti non potranno che riconoscerne la coerenza e quantomeno domandarsi ma cos’ha di così speciale quella roba lì per cui ‘sto tizio si infervora tanto? Noi docenti abbiamo il compito preciso non di insegnare con passione, ma di insegnare e testimoniare la passione, ben consapevoli che questo non significa automaticamente che i ragazzi studieranno e si appassioneranno a loro volta. La nostra passione si misura dall’accuratezza con cui prepariamo una lezione, dalla cura con cui ci sforziamo di farla apprendere, da come viviamo la scuola e il nostro essere intellettuali.
Le tre passioni necessarie: studio, relazione, partecipazione (ovvero amore per la materia, per i ragazzi, per la scuola)
Qualche settimana fa sono entrata in classe e la Lim (lavagna interattiva multimediale) non ne voleva sapere di accendersi, così ed è stata provvisoriamente sostituita dalla cara vecchia lavagna d’ardesia che non usavo da 10 anni. Quella mattina è andato a farsi benedire tutto il lavoro preparato: con me avevo solo «Ed è subito sera» di Quasimodo. Ho scritto la poesia alla lavagna e dato loro i nostri tradizionali venti minuti per scrivere cosa per loro significasse la poesia, provando a fare una parafrasi non letterale. Alla fine Irene se ne è uscita con questa parafrasi: «Tutti stanno soli in se stessi, trapassati da un attimo di felicità che subito finisce con la morte. Penso sia vero che ognuno è solo con se stesso, condividendo solo dentro di sé cosa realmente pensa delle cose e delle persone, poi tutto finisce. Questa poesia ci fa capire che nulla è infinito». Ho poi spiegato il significato di poesia ermetica e Alessandro ha colto provocatoriamente nel segno chiedendomi: «Prof. ma se la poesia è chiusa come un barattolo con chiusura ermetica, se la apriamo e la spieghiamo, fa la muffa come i sottaceti?» E allora abbiamo discusso se si possa spiegare la poesia, su cosa si perda traducendola in prosa, sul senso di fare poesie dal significato criptato e nascosto. La loro conclusione è che la poesia va spiegata, ma non troppo (perdonateli, sono all’esordio con la letteratura). Mi sono accorta che, anche se la LIM mi aveva abbandonato e non avevo potuto mostrare video, schemi e ammennicoli vari, c’era tutto il necessario: i versi, il dialogo, il professore e i ragazzi. Il fondamento della scuola sono i testi, la relazione tra docente e studente e la partecipazione con l’ambiente intorno. Noi docenti dobbiamo essere cultori della nostra materia e continuare a studiarla; non dobbiamo focalizzarci solo sulla didattica, su come si insegna, ma è necessario che teniamo desta l’attenzione sui contenuti che portiamo in classe, su ciò che insegniamo: quella è e deve essere la nostra prima vera passione. Ma attenzione, fare il docente a scuola non è essere un critico letterario o un docente universitario: noi siamo lì con e per gli studenti, inseriti in un contesto preciso; non possiamo sottrarci alla relazione, che non è relazione amicale, di supporto, di cura. E’ relazione tra docente e discente per l’acquisizione del sapere. Il docente lavora a scuola, insieme ad altri docenti, non è una monade che entra dal portone ed esce: deve partecipare attivamente alla vita del suo istituto e non solo a ciò che gli compete per obblighi di un contratto rimasto ad un tempo passato. Mi stupisco sempre che nella scuola ci siano persone con mille incarichi ed altre che non ne accettano alcuno: il nostro lavoro non può e non deve esaurirsi nell’aula e nel tavolo su cui studiamo e correggiamo le verifiche. La passione per la scuola è fondamentale. Un professore, un maestro che non studia costantemente, non entra in relazione con gli studenti e non partecipa alla vita della scuola non è un professore, non è un maestro, non è un professionista, è solo “uno di passaggio”, di cui non rimarrà nulla, un’occasione sprecata per sé e per gli altri.Ah, per tornare all’inizio, se vi chiedete cosa io abbia risposto alla domanda di Enrico: «A che serve scrivere una poesia futurista?» questa è stata la mia risposta: «A niente, ovvio. Ma è stato bello no? Avete dato un senso e un significato a qualcosa che prima vi era oscuro.» Mi ha sorriso e annuito. E io sono certa abbia capito.
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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Che si apra il dibattito
Molto giusto ciò che scrive Linda Cavadini. Io personalmente concordo su tutto e qualche tempo fa avevo scritto in questa stessa sede cose intonate proprio sul tema della passione e dell’entusiasmo, di quanto sia importante – anzi fondamentale – inscrivere tali sentimenti nel codice pedagogico e, soprattutto, nelle nostre lezioni quotidiane. Leggendo l’intervento di Linda è come se però si fosse precisata nella mia mente una sensazione che vi vagava senza coagularsi ancora in pensiero, sensazione già suggerita da molti interventi letti su questo blog e su altri dove gli insegnanti si raccontano e riflettono sulle proprie esperienze. In tutti, o quasi, mi pare si intraveda la “solitudine” dell’insegnante, si legge la sua relazione di singolo che fronteggia un gruppo: raccontando dell’insegnante che cerca strategie per incentivare la curiosità, la partecipazione attiva, la risposta emotiva e razionale dei propri studenti, si racconta comunque di una relazione duale – ‘io’ (l’insegnante) in rapporto con ‘loro’ (i miei studenti). Ebbene, io credo che proprio per ottenere un maggiore entusiasmo, interesse e partecipazione delle nostre classi, la coppia Io-Loro dovremmo pensarla quanto più aperta e allargata possibile; dovremmo cioè accogliere i nostri studenti (intesi come singoli, più che come gruppo-classe) dentro dinamiche che coinvolgono altre ‘coppie’, altre relazioni, altri dibattiti, senza proporci sempre come unici interlocutori, unici portatori di conoscenze e metodi, unici sacerdoti del sapere. Penso allora a lezioni che, affiancandosi a quelle tradizionali e frontali, propongano in classe altre partecipazioni (quelle [i]in praesentia [/i]di colleghi, esperti esterni, testimoni di qualche evento, ma anche [i]in absentia[/i]con registrazioni, interviste-video, ecc.). Tutti interventi che però, a differenza di come avviene generalmente, non siano intesi come alternativi alle nostre lezioni, saperi autorevoli che tacciono i nostri o a essi si sostituiscono (“oggi verrà il professor Tale, famoso studioso di Manzoni, a farci capire meglio I promessi sposi”), ma siano invece proposti come voci di un dibattito che si anima davanti ai nostri studenti chiamandoli in causa, invocando il loro punto di vista, le loro valutazioni, il loro giudizio, il loro “prendere (una) parte”. “Oggi ci sarà dibattito, e non la mia lezione” – e da qui si dovrebbe partire per una discussione (ordinata e rispettosa) che affianca voci a voci, idee a idee, interpretazioni a interpretazioni: quelle degli invitati, le nostre, quelle degli studenti a cui viene riconosciuto diritto di parola.
La scuola e l’università dovrebbero insomma prevedere, e non solo per le materie umanistiche, (tanti) momenti non spontanei ma formalizzati e istituzionalizzati in cui a insegnare siano due, tre persone – sul modello della famosa co-presenza che nel nostro ordinamento la (sola) scuola primaria ha previsto per parecchi anni fin quando non si è abbattuta sul nostro sistema educativo l’intrepida Gelmini. E, del resto, come insegnare meglio e come praticare altrimenti il pensiero critico, la sua storia fatta di approcci e metodi diversi, di discorsi in conflitto, di visioni del mondo a volte contrastanti, se non mostrando tutto questo [i]in fieri[/i], [i]in progress[/i], in atto? Noi sì, in classe raccontiamo sempre il dibattito critico che un testo, un’epoca, un autore hanno stimolato, ma quanto recepiscono del senso del processo ermeneutico i nostri studenti se ci limitiamo a narrarlo, e sempre con la stessa voce narrante e lo stesso punto di vista onnisciente, ossia il nostro?
Certo, tutto questo va preparato ogni volta, fornendo materiali agli studenti affinché si preparino alla [i]disputatio[/i], scegliendo colleghi o esperti coinvolgenti e non supponenti, architettando agoni dal clima sereno dove sia divertente partecipare, ecc. ecc. Credo però che valga la pena fare questo sforzo anche in virtù di un’altra cosa che scriveva giustamente Linda Cavadini: “Il docente lavora a scuola, insieme ad altri docenti, non è una monade che entra dal portone ed esce: deve partecipare attivamente alla vita del suo istituto e non solo a ciò che gli compete per obblighi di un contratto rimasto ad un tempo passato”. La mia proposta va appunto in questa direzione: aprire la monade per sentirci meno soli, e soprattutto meno unici e centrali nella formazione dei nostri studenti. Un attacco al nostro narcisismo, lo so, un dover lasciare un pezzo di palcoscenico a qualcun altro, è vero. Ma la ferita potrà rimarginarsi, come le altre, e ci farà solo bene sentirci meno titani.
dirigente scolastico
La cultura prevalente del ‘misurabile’ induce per opposizione una cultura del ‘non misurabile’, etichettata per es. come ‘passione’ o ‘inutile’. Sono due facce della stessa medaglia. Bello l’articolo di Linda! Mi chiedo però: come fare perché le [i]humanae litterae[/i] mantengano la loro promessa di crescita umana oltre l’hapax dell’intervento estemporaneo, oltre l’attimo di gloria dell’alunno normalmente ‘insufficiente’? E poi: lo stesso contributo di Linda manifesta come si debba continuare a riflettere su un vecchio detto di Marshall Mac Luhan: il mezzo [b]è [/b] il messaggio: passare dalla LIM alla lavagna di ardesia ha cambiato il contesto riconducendo la classe in una condizione di essenzialità, comunque produttiva.
Mi interessa la vostra risposta!
come l’uom s’etterna
Direi discussione semplice si apre! Provo a rispondere.
“come fare perché le humanae litterae mantengano la loro promessa di crescita umana oltre l’hapax dell’intervento estemporaneo, oltre l’attimo di gloria dell’alunno normalmente ‘insufficiente’?” domanda Michele. Io mi pongo questa domanda un giorno sì l’altro pure quando finisco una lezione e non riesco a darmi risposte molto illuminanti. Mi vengono in mente i versi di Dante di fronte a Brunetto: [i]ad ora ad ora m’insegnavate come l’uom s’etterna[/i]. Il poeta è davanti a Brunetto, cotto e mangiato dal fuoco, peccatore e dannato eppure gli riconosce l’enorme merito di avergli insegnato come diventare uomo, persona, come avvicinarsi a Dio. So che la critica intrepreta [i] l’uom s’etterna[/i] come ricerca della gloria, ma mi piace pensare che il poeta si riferisse proprio a quella crescita umana che cita Michele. Dante parla di “ad ora ad ora” cioè costantemente e lentamente: il tempo del docente è dilatato, la nostra azione non vive di attimi e di hapax, ma di quotidinanità e costanza. Poi dice “m’insegnavate”, insegnavata a me, entravate in relazione con me, incontravate me. Le humanae litterae, sono umane, hanno bisogno dell’uomo, non sono solo frutto, testimonianza ed espressione dell’uomo. Perchè mantengano la loro promessa di crescita umana hanno bisogno, almeno all’inizio, di essere mediate da un incontro, dalla relazione, dallo sguardo che guarda. Un docente non può dimenticarlo. Io credo che le humanae litterae da sole non promettano di far crescere nulla, forse solo la polvere: hanno bisogno di un uomo che le scopra o le faccia scoprire.
Su MC Luhan…già, mai dimenticarlo. Puchè il messaggio ci sia, anche se com’era l’altro detto? Non si può non comunicare
Bella la proposta di Roberto: nel mio piccolo il prossimo anno[u]insieme[/u] ai docenti di lettere della mia scuola vorremmo allestire i cafè letterari. Quattro cinque incontri l’anno in cui docenti, studenti e docenti esterni chiacchierino su libri, testi poesie: guardandoci in faccia, ma usando anche i collegamenti video e la piattaforma fidenia per scambiarci idee e commenti. Il tutto inserito nel progetto lettura che prevede: letture integrali di libri, sfide di lettura, nonni che raccontano in classe il “loro” libro, incontri con autori e tutto quello che ci verà in mente e sarà realizzabile. Ti saprò dire (e se vuoi partecipare abbiamo skype)!