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diretto da Romano Luperini

I consigli della redazione per l’estate 2025

Pubblichiamo un pezzo collettivo in cui la redazione – in ordine  alfabeticodà conto dei suoi consigli di lettura per l’estate: autori, temi, generi riflettono la sfaccettata curiosità che ci contraddistingue. Augurandovi buone vacanze, vi aspettiamo a settembre con un nuovo ciclo di pubblicazioni.

Eugenio Montale, Ossi di seppia, 1925-2025 –  Antonella Amato

Cento anni sono trascorsi dal giugno del 1925 quando Ossi di seppia viene stampato e inizia a profilarsi «l’unicità di una storia personale». Dopo un secolo l’attualità e l’universalità di questo libro rimangono intatte: in un’atmosfera corrosiva, tutta la realtà si configura come una minaccia, e l’esistenza una vera e propria prigione, caratterizzata da «una catena che ci lega» o «muraglia che ha in cima i cocci aguzzi di bottiglia». Ad essere protagonista è la fragilità dell’io, il senso di spaesamento e la coscienza di una lacerazione che caratterizza tutti gli uomini: «Felicità raggiunta, si cammina / per te sul fil di lama. / Agli occhi sei barlume che vacilla, / al piede, teso ghiaccio che s’incrina; / e dunque non ti tocchi chi più t’ama. // Se giungi sulle anime invase / di tristezza e le schiari, il tuo mattino / è dolce e turbatore come i nidi delle cimase. / Ma nulla paga il pianto del bambino / a cui fugge il pallone tra le case». Tuttavia, sullo sfondo, resta l’aspirazione a non arrendersi all’«arduo nulla», la necessità di credere in una «seconda vista» che possa creare una rottura nell’ordine naturale delle cose, anzi nella conoscenza normale, un «miracolo» capace, anche solo per un attimo, di riportare la pienezza, l’armonia, la dignità: «Forse riavrò un aspetto: nella luce / radente un moto mi conduce accanto / a una misera fronda che in un vaso / s’alleva in una porta d’osteria. / A lei tendo la mano, e farsi mia / un’altra vita sento, ingombro d’una / forma che mi fu tolta; e quasi anelli / alle dita non foglie mi si attorcono / ma capelli. // Poi più nulla. Oh sommersa!: tu dispari / qual sei venuta, e nulla so di te. / La tua vita è ancor tua: tra i guizzi rari / dal giorno sparsa già. Prega per me / allora ch’io discenda altro cammino / che una via di città / nell’aria persa, innanzi al brulichio / dei vivi; ch’io ti senta accanto: ch’io / scenda senza viltà» (Incontro).

Mario Tobino, Il clandestino, Mondadori (I edizione 1962) – Emanuela Bandini

Quest’anno, in occasione degli ottant’anni della Liberazione, ho deliberatamente dedicato al tema dell’antifascismo e della lotta partigiana una parte delle mie letture, cercando di muovermi tra titoli meno noti rispetto a quelli, ormai veri e propri classici del Novecento, di Calvino, Fenoglio e Vittorini (tra gli altri, L’ombra delle colline di Giovanni Arpino, Fronti e frontiere di Joyce Lussu e I coetanei di Elsa De Giorgi)

Il clandestino non è, come si potrebbe pensare, il nome o il soprannome di qualcuno datosi alla macchia per sfuggire alle persecuzioni nazifasciste, ma è il nome che si dà il gruppo di giovani antifascisti che comincia a formarsi tra le viuzze di Medusa, sonnolenta cittadina della Versilia sotto cui si cela Viareggio, città natale dell’autore. L’arco narrativo, articolato in capitoli che generalmente mettono a fuoco un episodio o un personaggio, si dipana dalla caduta di Mussolini del 25 luglio 1943 al momento in cui, circa un anno dopo, i tedeschi subentrano ai fascisti nel controllo della zona, seguendo il gruppo dal momento dei primi, incerti e goffi, tentativi di azione a quello – a seguito di un evento tragico – della definitiva presa di coscienza della necessità della lotta armata.

I pregi del romanzo, chiaramente autobiografico (il medico del gruppo, Anselmo, è alter ego di Tobino stesso) nonostante la dichiarazione di finzionalità posta in esergo, a mio parere sono due. Il primo è la capacità di mostrare l’eterogeneità del gruppo clandestino, sia dal punto di vista delle classi sociali (il muratore, l’avvocato, il professore di filosofia, il portuale, il commerciante, l’ufficiale della Regia Marina…), sia da quello dei caratteri (il riflessivo, l’impulsivo, l’intraprendente, l’organizzatore…) con, in più, una attenzione (non comune per l’epoca in cui il libro è stato scritto) alle presenze femminili: le tre donne che, in modi diversi, hanno a che fare con il gruppo sono ben caratterizzate e hanno ruoli di rilievo nell’economia della storia e in quella della lotta partigiana. Il secondo pregio, evidente soprattutto nella prima parte del libro, è la profondità non solo dello scavo psicologico, ma anche della riflessione etica, che ben mette in luce il dipanarsi dei pensieri, delle emozioni, delle motivazioni – nobili e meno nobili – sia di chi, nonostante si faccia sempre più evidente lo sfacelo a cui sta andando incontro il regime mussoliniano, resta fedele al fascismo, sia – soprattutto – di coloro in cui nasce, a volte in modo lucido e quasi istintivo, altre tra dubbi e incertezze, «la decisione di agire, di fare, di collaborare a distruggere un mondo dove si provava gusto a umiliare».

Émilie Chazerand, La formica rossa, La Nuova Frontiera, 2024 – Linda Cavadini

Se non fosse che Young adult è un’etichetta che non mi piace per niente e che chiude i libri in una specie di bolla commerciale e non, questo sarebbe uno young adult. Io preferisco dire che è un libro i cui protagonisti hanno quindici anni, tutto per possibilità e tutto esposto sul confine sottile tra grandi drammi e felicità improvvise, come è capitato a tutti a 15 anni. Ed è un libro pieno di quella leggerezza che ti fa afferrare e comprendere le cose sul serio.

La protagonista si chiama Vania Strudel, nome che considera invalidante più del suo difetto congenito all’occhio destro, e come se non bastasse si ritrova con una madre che “non era una bella persona” e un padre tassidermista, il che non è esattamente un grande biglietto da visita quando stai per iniziare il liceo prestigioso del centro città. Fortuna che c’è Pirach, l’amico storico, l’amico di una vita, quello cui si può confidare tutto…a no, perché Pirach si è improvvisamente fidanzato con la nemica storica di Vania  e non ha occhi che per lei. Insomma un settembre che si apre in catastrofe.

Eppure in questo clima da tragedia, le risate superano di gran lunga il dramma, ed è proprio questa la forza del libro: trattare con estrema ironia la complessità che ci sta intorno, evitare pietismi e lacrima facile.

“Certo, visti dalla luna, siamo tutte formiche. Ma tu puoi essere la formica rossa tra quelle nere. Cosa stai aspettando a vivere?” Vania riceve questa mail, assurda e bizzarra, certamente pensa un errore, lei più che una formica si sente uno degli animali impagliati del padre. ma quella formica rossa diventa il motore per scrollarsi di dosso una certa indolenza, meditare vendetta e guardarsi allo specchio davvero. Insomma per crescere.

Paolo Nori, Chiudo la porta e urlo, Mondadori, 2024 – Gabriele Cingolani

Maledetto Paolo Nori! Ma come ti è venuto in mente, a te che sei uno scrittore di Parma innamorato dei russi, di scrivere un libro su Raffaello Baldini, un poeta di Sant’Arcangelo di Romagna che scriveva in un dialetto che tu nemmeno capisci? Che poi, Nori maledetto, diciamola tutta: il libro parla molto più di te (delle tue ansie, dei tuoi amori, delle tue ossessioni) che di Raffaello Baldini. Ma non è solo questo (sii tu stramaledetto, Nori!): il tuo libro è infarcito di citazioni, autocitazioni, trascrizioni di interi tuoi discorsi e articoli; discorsi e articoli che fra l’altro, il più delle volte, non c’entrano nulla con Raffaello Baldini; insomma, ti esibisci in una continua arte del riciclaggio, sempre pericolosamente al limite dell’impostura. Eppure, maledetto Nori!, Chiudo la porta e urlo è un libro doloroso e divertente, duro e godibilissimo – un vortice di contraddizioni, proprio come la vita. Ed è una struggente dichiarazione d’amore per la vita che passa, per gli oggetti che conserviamo nell’illusione di salvare qualcosa dall’oblio, per la letteratura che questa vita ce la fa percepire più vera, più nitida, e ce la fa amare di più, ma con più dolore. E poi è anche, questo libro, un convincente tentativo di esplorare i confini di quel che possa dirsi, oggi, il campo del romanzo: forse, in questo senso, dietro quell’aria scanzonata come sempre, il più consapevole dei libri che hai scritto, maledetto Paolo Nori!

Alberto Guerra Naranjo, Lincon la Voce, Oligo, 2025Morena Marsilio

A chi abbia voglia di immergersi nell’atmosfera di una Cuba anni Settanta consiglio il racconto pubblicato recentemente da Oligo in una nuova collana curata da Davide Barilli, “Azúcar”.

Barilli, che conosce bene le migliori espressioni letterarie di quell’isola, sceglie autori contemporanei, che hanno preso le distanze, ormai, dalla lunga stagione del mito della rivoluzione: si tratta di scrittori che hanno una scarsa notorietà a livello mondiale a causa di quell’embargo che, oltre a privare la popolazione cubana di molti beni necessari alla vita quotidiana, provoca la mancanza della carta e della catena di distribuzione necessarie alla filiera editoriale. Per questo l’operazione congiunta di Barilli e della casa editrice Oligo sono particolarmente meritorie.

“Lincon la Voce” è un racconto lungo – tradotto dal curatore stesso –  nel quale campeggia l’incontro, appena sfiorato, tra due musicisti che in passato hanno lavorato insieme: i due uomini sono ormai anziani e si incrociano nei pressi di un bancomat. Lincon evidentemente non gode di una condizione agiata ed  è malato: imbattersi in un vecchio amico lo agita al punto da pensare di ingoiare le pillole con le quali tiene a bada gli attacchi di ipertensione mentre lo assale la vergogna perché dalla misera borsina di plastica i frutti di guava gli hanno macchiato i pantaloni; Cuqui Sierra, invece, ha uno standard di vita elevato soprattutto se commisurato alla situazione cubana (forse ha vissuto un lungo tratto di vita fuori dall’isola?): è ben vestito, si avvicina allo sportello per prelevare una somma di denaro, nell’auto lussuosa, parcheggiata accanto alla banca, lo attende una donna ben più giovane. Eppure quei due uomini hanno condiviso un tempo in cui l’irresistibile musica habanera li teneva insieme in un gruppo di cui Lincon era “la Voce”, inimitabile e suadente, e Cuqui Sierra il pianista e direttore d’orchestra.

Il racconto alterna il piano temporale del presente con quello del passato – quando Cuba era nell’orbita sovietica-  e nell’arco di una cinquantina di pagine traccia la parabola divergente dei due uomini: lo scrittore restituisce con vivido realismo tanto l’atmosfera della piantagione di zucchero, dove Lincon scopre di avere una voce che “pietrifica perfino i passeri”, quanto quella cittadina dove  il “nero magrolino” si trasferisce per seguire il gruppo musicale; esemplare il brano nel quale si narra il suo arrivo all’Avana:

“[…] Lincon scese dal treno con un pezzo di carta in mano, pronto a divorare l’Avana con la sua voce; […].“ si innamorò per sempre delle strade con più Fiat, Volga e Moskviĉ che Cadillac e Chevrolet; con tutte quelle persone attaccate alle staffe degli autobus, uomini con camicie a maniche corte abbinate ai pantaloni a zampa d’elefante; donne con identici abiti, smanicate, aderenti e identiche acconciature; ragazzi che trafficavano agli angoli delle strade con enormi radio sovietiche; scuola bus vuoti che non si fermavano alle fermate affollate; persone che trasportavano acque in cisterne su carretti rumorosi; guappi che camminavano in mezzo alla strada, fazzoletto in mano, e stivali da lavoro lucidi, con il risvolto abbassato, così da farli sembrare scarpe da sera; tubi con manichette affisse agli angoli delle strade; balconi che gocciolavano sulle spalle dei passanti; […] Finalmente l’Avana, dannazione.” ( pp. 17-19)

 Pregio indiscusso della narrazione è lo stile caratterizzato da lunghe enumerazioni percussive e di forte suggestione: nulla è superfluo nell’abbondante flusso descrittivo di Guerra Naranjo, nulla è superfluo perché rende autenticamente l’atmosfera di Cuba.  Nonostante lo scarto temporale, l’isola e il suo popolo mantengono intatti quella medesima vitalità, festosamente indocile e travolgente.

Fabrizia Ramondino, L’isola riflessa, Nutrimenti, 2025 – Luisa Mirone

Nel 1998 Fabrizia Ramondino si reca a Ventotene, mentre è in atto quella mutazione genetica dei luoghi raccontata da Virzì in Ferie d’agosto. Vorrebbe curare la depressione. Scriverà questo libro prezioso, «a tutti gli effetti un ibrido tra memoir, diario di viaggio e rievocazione storica» (Lipperini, Prefazione). L’isola, minacciata dall’arrivo dei turisti, le appare popolata dalle presenze eternate di esiliati, prigionieri, fuggiaschi d’ogni tempo – in ogni tempo obbligati a osservarsi riflessi nella natura dei luoghi come in uno specchio: eremiti, pirati, matrone romane ripudiate, omosessuali, anarchici, antifascisti notissimi e altri sconosciuti… Il suo occhio «si sofferma a lungo su cose e persone in modo disinteressato», non perché indifferente ma perché «privo di potere» e dunque di segno opposto allo «sguardo insistente e appropriativo del potere». Se quest’ultimo è «stretta pupilla che delimita il proprio campo visivo» (p.28), viceversa lo sguardo di Ramondino è visione, è adesione totale, fino all’impudicizia, agli spazi, alle piante, ai colori, agli odori, alle persone, alle storie di cui quegli spazi sono contenitori. È lo stesso sguardo che mi aveva incantato in Althenopis, ma con una cifra in più: la consapevolezza definitiva di sé, che è anche nella parola asciutta e risolta, scevra di condanna come di perdono: «Non che, come si dice, sia maturata o mi sia trasformata. C’è un’altra. Quasi che insieme a me allora fosse nata una gemella, fatta di ombra, di cui nessuno si era accorto, ma di cui ho sempre percepito la presenza, pur senza riconoscerla. (…) l’altra, quanto aveva da compiere ha compiuto» (p.133). Per me, è pure la sigla sul percorso che ho voluto fare quest’anno, anche tra le pagine di questo blog, attraverso le nostre scrittrici novecentesche: gemelle riemerse e riconosciute a cui affidare ciò che ancora può compiersi di me; di noi. Donne e uomini.

“L’Eternauta”: un lungo viaggio fra mondi e linguaggi – Stefano Rossetti

Una serie televisiva di grande successo e molto discussa ha riportato l’attenzione del pubblico sull’immortale capolavoro letterario del fumettista e scrittore argentino Hector Oesterheld, “L’Eternauta”. L’opera, cui la storia televisiva si ispira ambientandola ai giorni nostri, uscì fra il 1957 e il 1959 con i disegni di F. Solano Lopez, e fu poi ripubblicato nel ‘69 nella versione più nota, illustrata da A. Breccia (la trovate gratuitamente a quest’indirizzo).

Un monumento all’arte narrativa in generale, non solo quella del fumetto, che costò la vita allo sceneggiatore (scomparso il 21 aprile, dopo essere stato prelevato da una squadra armata a La Plata) a causa di evidenti riferimenti profetici e realistici che, negli anni Settanta del secolo scorso, sovrapponevano a una storia apparentemente distopica la quotidianità di morte e oppressione subita da intere popolazioni.

Nell’ottica del nostro presente si constata la stretta attualità della prospettiva narrativa adottata e, con sgomento, la persistenza delle questioni che la vicenda pone.

Spicca l’idea della coesistenza di mondi e universi paralleli, in cui l’intreccio fra passato, presente e futuro inverte la logica della nostra percezione abituale, declinato anche nella serie tv in modo lontanissimo dai giochini visivi tipici dello stile Marvel. Accanto ad esso il tema della minaccia, del conflitto, della guerra come condizioni ontologiche, e il dubbio che ne consegue sulla nostra effettiva volontà (e possibilità) di costruire un mondo di pace e convivenza civile.

Per un docente, si aggiunge ai motivi di interesse anche la ghiotta opportunità di un lavoro di alfabetizzazione ai/ con i media, che metta al centro il dialogo fra i linguaggi – narrazione letteraria tradizionale e per immagini, trascrizione televisiva – e la capacità critica fondamentale di saper coniugare storicizzazione e attualizzazione.

Una serie da vedere. Un libro da (ri)leggere.

Pietro Chiodi, Banditi, Introduzione di G. L. Beccaria, Einaudi, 2015 – Emanuele Zinato

Pietro Chiodi (1915-1970), traduttore di Kant, di Sartre e di Heidegger e partigiano, nel 1939 è un giovane professore di filosofia al liceo di Alba che ha, tra i suoi studenti, Beppe Fenoglio. Come Antonio Giuriolo ricordato nei Piccoli maestri di Meneghello, anche Chiodi esercita una funzione cruciale nell’indurre i suoi allievi alla scelta antifascista partecipando attivamente alla guerriglia.  Banditi è il suo asciutto diario, scritto sulla base di ricordi e di appunti fra il 1945 e il 1946: un testo essenziale, che intendedar conto  in forme scarne e  paratattiche (Beccaria) dei fatti, delle necessità e dei prezzi della lotta armata.  Eppure,  questa forma rigorosamente documentaria, come nei Giorni veri di Giovanna Zangrandi,  finisce per assumere un ritmo narrativo incalzante, epico e tragico.  Per Franco Fortini e per Norberto Bobbio si tratta di  “un capolavoro”,  del  libro partigiano che più di ogni altro dà “l’impressione della reale spietatezza di quella lotta, della severità degli impegni assunti, che bisognava mantenere sino al sacrificio”.

Chiodi è catturato dalle SS italiane nei pressi di Bra e viene interrogato alle Nuove di Torino: deportato in un Lager a Bolzano e a Innsbruck, ammalato,  riesce a farsi passare per un lavoratore volontario e, grazie all’aiuto di persone del luogo, a eludere i controlli e a far ritorno a casa, a Montaldo Roero,  con un viaggio in condizioni estreme, per riprendere la lotta nelle Brigate Garibaldi. Prima e dopo, vede morire uno a uno i suoi  compagni e alcuni dei suoi allievi.

“L’essenzialità che gronda tragedia” (Beccaria) in Banditi ricorda la scrittura  di  Primo Levi: a esempio, il capitolo L’ultimo di Se questo è un uomo e il racconto Oro del Sistema periodico

 Una delle ragioni di questa lettura estiva è didattica: a chi insegna,  offre la possibilità di un percorso che, controcorrente, ponga in luce  la stretta relazione fra resistenza e deportazione (Alberto Cavaglion). L’altra ragione è civile e politica: negli ultimi decenni,  “in una sorta di triplo avvitamento, della violenza partigiana non si è parlato che per condannarne gli eccessi, dimenticando il contesto in cui era andata in scena” (Carlo Greppi). E’ venuto il momento di liberare l’esperienza della Resistenza dall’ipoteca culturale egemone delle destre. Dalle  loro semplificazioni e dalla loro falsa coscienza.  Banditi di Chiodi dà perfettamente conto della  complessità delle scelte che si trovarono a compiere i partigiani: una lotta anomala e fuorilegge, per la dignità e per il riscatto, in uno scenario di guerra totale, contro un nemico spietato,organizzato e militarmente superiore.

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