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diretto da Romano Luperini

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Datemi un testo e ve lo sbranerò: l’analisi del testo tra educazione linguistica ed educazione letteraria

Pubblichiamo la relazione di Giuseppe Noto al convegno “Lingua e letteratura nella scuola secondaria di II grado, nuovi bisogni educativi e ridefinizione del canone” del 22 ottobre 2015, organizzato dal Gruppo di lavoro scuola/università di Torino.

1. Premessa: le Dieci tesi del Giscel

La mia relazione prende spunto da alcune riflessioni nate in me durante una ormai quindicennale esperienza di formatore di insegnanti, sia, per così dire, “in ingresso” (SIS e TFA), sia con anni (in alcui casi molti anni) di esperienza alle spalle (i corsi cosiddetti “143” prima, i PAS poi). Vedo in sala parecchi colleghi che in passato sono stati miei corsisti: e dunque mi scuso con loro, perché sentiranno in gran parte cose che già mi hanno sentito dire.

Voglio partire mettendo a parte chi mi ascolta dello sconcerto che in questi quindici anni sono andato stratificando ogni volta che scoprivo (e scopro) che un documento-monumento per me “sacro” come le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica del Giscel (Gruppo di Intervento e Studio nel campo dell’educazione linguistica) era (ed è) del tutto o quasi sconosciuto; e che erano (e sono) del tutto o quasi assenti nella didattica della lingua italiana sia i presupposti teorici sia le prassi legate al concetto di educazione linguistica.

Ricordo che (cito dalla pagina Internet del Giscel):

Le Dieci tesi […] sono un testo collettivo preparato dai soci del GISCEL nell’inverno e primavera del 1975 e definitivamente approvato in una riunione tenutasi alla Casa della Cultura di Roma il 26 aprile 1975. Con tale testo il GISCEL, un gruppo costituitosi nel 1973 nell’ambito della SLI [= Società di Linguistica Italiana], intende definire i presupposti teorici basilari e le linee d’intervento dell’educazione linguistica, proponendole all’attenzione degli studiosi e degli insegnanti italiani e di tutte le forze che, oggi, in Italia, lavorano per una scuola democratica.

Si tratta di un testo che ha dunque appena compiuto quarant’anni e che (al di là di alcuni tratti lessicali, per così dire, fortemente connotati storicamente e del tutto attingibili semanticamente solo calandosi appieno nel clima sociale e culturale degli anni Settanta) mantiene ancora a mio avviso del tutto inalterata la sua valenza e la sua importanza (la sua forza propulsiva) per chiunque si occupi di insegnamento (insegnamento delle lingua italiana e insegnamento tout court), a tutti i livelli (dalla scuola per l’infanzia all’università). Io lo presento sempre ai miei corsisti e sempre ne nasce una discussione feconda e interessante. E lo presento sia per il suo valore intrinseco sia perché permette di riflettere sul fatto che qualunque discorso sulla didattica non può prescindere dagli obiettivi e dalle finalità di un determinato curriculum formativo e della scuola in generale e quindi dalla funzione che l’insegnamento di ogni singola “materia” e del complesso delle “materie” ha nella formazione di un giovane oggi. Lo statuto delle singole materie e le loro reciproche interrelazioni non sono (starei per dire: ovviamente) storicamente immutabili, ma cambiano in funzione dei nuovi bisogni formativi. Si tratta di intendersi su quali siano oggi i “nuovi bisogni formativi”. È un errore – credo – sia fare della scuola un locus più o meno amoenus a difesa dei valori del passato e tagliato fuori dallo sviluppo della società contemporanea sia

adeguarla passivamente a esigenze esclusivamente tecniche o, peggio, mercantili che ridurrebbero drasticamente la possibilità di un insegnamento critico, formativo, problematico (Luperini, pp. 1-2i).

2. Decodificare, interpretare, decifrare

La scuola deve concepire le “materie scolastiche” non come semplici ripartizioni amministrative, bensì come parti, che assumono senso soltanto nella loro reciproca relazione, della cultura (antropologicamente intesa) di una comunità, quella cultura che la comunità stessa ritiene indispensabile trasmettere ai suoi membri più giovani, al fine di formare cittadini consapevoli, cioè non meri contenitori di informazioni e/o competenze tecnico-specialistiche, ma persone dotate di una formazione globale che li renda in grado sia di percepire la complessità del mondo che li circonda (o che è dentro di loro) e rapportarsi criticamente con essa (decifrarla, o almeno tentare di decifrarla) sia di comunicare se stesse nel modo più completo possibile.

Percepire la complessità del reale, dicevo; e comunicare la complessità del reale. E va da sé – il dato è banale, ma spesso, credo, nella pratica dell’insegnamento ce ne dimentichiamo – che per l’una e per l’altra operazione è necessario possedere pienamente un codice, o meglio una serie di sottocodici che permettano, appunto, di decodificare e di comunicare nel modo più completo possibile.

Se davvero (come ha affermato Jakobson, pp. 185 ss.ii) nell’uso concreto del linguaggio prevale sempre una delle sue funzioni (funzione referenziale, emotiva, fàtica, metalinguistica, conativa e poetica), e la struttura verbale di un messaggio dipende anzitutto dalla funzione in esso predominante, lo studente deve essere messo in grado di avere competenze linguistiche (passive e attive) in rapporto ad ogni tipo di messaggio, deve cioè essere messo nelle condizioni di maneggiare con competenza e con coscienza tutte le funzioni del linguaggio (nelle sue diramazioni diamesiche: scritto/orale). Non solo: poiché non c’è testo nel quale non esista (oltre alla funzione prevalente) la presenza più o meno forte e più o meno esplicita di altre funzioni, ecco che diventa fondamentale per l’acquisizione di una coscienza davvero critica la capacità di decodificare e interpretare il più possibile in profondità ogni tipo di messaggio.

Come permettere, allora, allo studente, di avere piena competenza linguistica, intesa come la

abilità di un parlante a controllare le differenze significative di registro e ad adeguare la struttura dei suoi enunciati agli specifici contesti, alla luce delle sue intenzioni comunicative (Lyons, p. 301, corsivo mioiii)?

3. Linguaggi funzionali

Non si tratta – credo – di rimuovere, per così dire, dal patrimonio linguistico dello studente i linguaggi non-standard o i registri informali che egli possiede, e che anzi quasi sempre coincidono in toto con quel patrimonio: perché quei registri informali sono fondamentali per la comunicazione in certi contesti e per certe funzioni del linguaggio; si tratta di giustapporre ad essi la coscienza che esistono un linguaggio standard e registri (cioè variazioni stilistiche determinate dal contesto e dalla funzione della comunicazione), che sono fondamentali in altri contesti e per altre funzioni del linguaggio, coscienza accompagnata dalla acquisita consapevolezza che senza gli strumenti per decodificare o produrre messaggi relativi a tutte le funzioni che il linguaggio può avere bisognerà inevitabilmente accontentarsi della decodificazione (cioè dell’interpretazione) o della proposizione di messaggi operate da altri.

La via è – a mio parere – quella di far acquisire agli studenti la consapevolezza che la lingua e, per così dire, i diversi “linguaggi funzionali” (cioè dipendenti dalla funzione e dal contesto) sono codici strutturati in un insieme di norme storicamente mutevoli e storicamente e socialmente determinatesi (il che – detto per inciso – aiuta a far comprendere i concetti di “norma” e di “convenzione” sociale, oggi difficilmente attingibili dai nostri studenti).

È buona norma didattica (quante volte ce lo siamo detto e ce lo siamo sentiti dire!), quando si vuole affrontare un argomento, partire dal “già noto” da parte degli studenti. Bene: è un fatto che il giudizio che ha caratterizzato i grammatici fino a pochi anni fa a favore della lingua standard nella sua forma scritta è in realtà un pregiudizio: le varietà non-standard della lingua sono in genere altrettanto regolari e sistematiche della lingua letteraria standard ed hanno le loro norme di correttezza, immanenti nell’uso dei loro parlanti nativi. Si tratta, dunque, di fare acquisire coscientemente allo studente la natura regolare e sistematica delle varietà linguistiche non-standard che egli utilizza, e il fatto che tali varietà sono funzionali a certi contesti e a certi ambiti e non ad altri, in modo da poter successivamente far acquisire la coscienza della necessità di altre varietà linguistiche funzionali ad altri contesti, varietà della cui sistematicità si dovranno e potranno impadronire, perché ormai in possesso del concetto di struttura linguistica.

4. Sbranare il testo

Non solo: aggiungo che a me pare oggi più che mai indispensabile porre lo studente in condizione di decodificare la “valanga” di messaggi che continuamente lo travolge (che significa soprattutto decodificare l’intenzione prevalente di quei messaggi), aiutandolo a cogliere le specificità di tutte le tipologie testuali, secondo le indicazioni di Jakobson cui sopra accennavo. Sbranare ogni tipo di testo in classe, dunque: perché lo studente possa fornirne un’interpretazione fondata e razionalmente comunicabile (e in tal modo si getteranno, peraltro, le basi per il “conflitto delle interpretazioni”, il confronto tra gli individui-studenti che costituiscono la classe come comunità ermeneutica). E quando uso il verbo “sbranare” lo uso in senso proprio, ovvero “rompere in brani” (come dice il Vocabolario della Crusca), che dal mio punto di vista significa rompere l’unità del messaggio testuale e rintracciare in esso i suoi elementi costitutivi, significativi e significanti, connotativi: insomma, le sue strutture profonde, i suoi elementi specifici, quelli che lo distinguono da tutte le altre tipologie testuali.

5. Educazione linguistica e insegnamento della letteratura

Come si inserisce in questo quadro la questione dell’insegnamento della letteratura? Preciso subito (a scanso di equivoci e per non essere coinvolto in lotte intestine tra cosiddetti “linguisti” e cosiddetti “letterati”, lotte che, per quel che ne so, sono ahimè già in atto) che quel che dirò non riguarda l’insegnamento della letteratura tout court ma l’insegnamento della letteratura solo e soltanto per ciò che riguarda l’educazione letteraria come strumento di educazione linguistica. E preciso anche che non intendo entrare, se non tangenzialmente, nella questione della cosiddetta “didattica per competenze” sub specie letteraria, anche perché confesso che sto ancora studiando la questione nel tentativo di comprenderla a fondo. E però sarà a mio avviso opportuno sottolineare sin da subito che in un quadro, come quello attuale, che è deprimente sul piano delle competenze linguistiche dei nostri studenti, bisognerà pur porsi il problema delle priorità (che cosa è più importante fare in classe, su quali competenze “lavorare”). Sarò volutamente e (forse provocatoriamente) outré: in una scuola secondaria di secondo grado dove gli studenti faticano a comprendere un elzeviro giornalistico di media difficoltà o a distinguere un testo conativo da un testo referenziale (un messaggio pubblicitario o propagandistico da uno informativo), non sarà necessario rinunciare a parte dei cosiddetti “contenuti” (letterari) delle ore di Italiano, e dunque ridefinire il canone (o comunque cominciare a chiedersi su quali basi giungere a una ridefinizione del canone)? Di fronte all’emergenza (educativa e nel contempo democratica) legata alla (in)educazione linguistica dei nostri studenti, stiamo ancora a chiederci se fare un canto in più in meno di Dante o una novella in più o in meno di Boccaccio?

Vorrei, per chiudere, concentrarmi, come accennavo sopra, sull’educazione letteraria come strumento di educazione linguistica.

Sintetizzo qui per comodità di chi ascolta le caratteristiche della cosiddetta “funzione poetica” secondo la prospettiva di Jakobson più volte ricordata: essa è

orientata sul messaggio stesso, mira ad attirare l’attenzione del destinatario sulla forma, appunto, del messaggio. Questo è autoriflessivo; attira l’attenzione sulla propria forma concreta, sui materiali verbali (o d’altro genere, se si tratta di un messaggio non verbale) che lo costituiscono, sulla concreta realtà dei significanti (contrapposti ai significati).

Si apre qui, tra i messaggi in cui prevale la funzione poetica e tutti gli altri messaggi, una dicotomia […]. È la contrapposizione tra a. il messaggio autoriflessivo e b. il messaggio transitivo […]: il primo costringe a fissare l’attenzione su di sé; il secondo la lascia filtrare, si serve strumentalmente del materiale verbale per rimandare in modo diretto ad una significazione determinata. Il primo è strutturato […] in modo ambiguo (trattiene su di sé l’attenzione, oltre a rimandare a un referente); il secondo è strutturato in modo da rimandare immediatamente al referente (Ceserani-De Federicis, p. 40iv).

Il giusto rifiuto non per lo strutturalismo di per sé ma per i meccanicismi dello strutturalismo (quante analisi narratologiche, quanti attanti e aiutanti e oppositori hanno funestato le nostre ore in classe come studenti e come docenti!) non deve a mio avviso tramutarsi in rifiuto della centralità del testo: è anzi oggi più che mai richiamare l’attenzione su tale centralità, mettere al centro il testo (letterario) per chiedersi: quali sono le specificità del messaggio letterario, quelle che lo rendono diverse da tutti gli altri messaggi e ne determinano la fondamentale importanza (“non importa quel che si dice, ma come lo si dice”, ovvero, banalizzando e semplificando: la forma non è sovrastruttura, esteriorità estetizzante, ma struttura che determina il messaggio letterario e che contribuisce a creare un sovrasenso, un ulteriore significato oltre a quello del referente cui rimanda).

Nella cosiddetta “scuola delle competenze” oggi tanto in auge quanto, a mio parere, poco perspicua per molti addetti ai lavori quanto a caratteristiche costitutive (e d’altro canto il dibattito al riguardo è in fieri), a me pare che la competenza più rilevante da creare negli studenti nell’ora di letteratura sia quella di saper leggere e interpretare un testo letterario, giungendo in tal modo (e anche grazie alla capacità maieutica dell’insegnante) a concetti di “poetica” e di “storia letteraria”: quei concetti dai quali invece spesso gli studenti, leggendoli sul manuale (nella “teoria”, come a volte dicono), partono, di modo che poi, nella peggiore delle ipotesi, non leggono i testi (considerati inutili appendici del “programma” di “storia della letteratura”) o, nella migliore delle ipotesi, li leggono vedendo in essi solo e soltanto quello che il manuale (la critica letteraria) ha detto loro che vi si può vedere.

NOTE

iRomano Luperini et alii, La scrittura e l’interpretazione. Storia e antologia della letteratura italiana nel quadro della civiltà europea, vol. I: Dalle origini al Manierismo (1610). Strumenti, Palermo, Palumbo, 1998.

iiRoman Jakobson, Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966 e ss.

iiiJohn Lyons, Lezioni di linguistica, Roma-Bari, Laterza, 1984 (ed. originale: Language andLinguistic, Cambridge, University Press, 1981).

ivRemo Ceserani e Lidia De Federicis, Il materiale e l’immaginario. Laboratorio di analisi dei testi e di lavoro critico. Volume X: Strumenti. Termini, concetti, problemi di metodo, Torino, Loescher, 1980.

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