L’opera sta nel mondo. Maria Borio incontra gli studenti
A cura di Antonio Vigilante
La nostra collaboratrice Maria Borio ha incontrato alcuni studenti e studentesse di un liceo senese, per un dialogo sulla sua poesia. Pubblichiamo l’intervista che le è stata fatta in quell’occasione dal prof. Antonio Vigilante.
A. V. Contrariamente a quello che si pensa, gli adolescenti leggono molto, probabilmente più degli adulti; leggono però poca poesia, e pochissima poesia contemporanea. Perché accade secondo te?
M. B. Credo che gli adolescenti possiedano una straordinaria ricettività nei confronti della poesia. La poesia è un linguaggio essenzialmente alogico, che tocca nuclei di significato legati a una percezione in cui le epifanie e l’istinto hanno un ruolo di primo piano sia nella costruzione delle immagini sia nell’espressione dei concetti. L’esperienza di un adolescente ha molti contatti con significati epifanici e con l’universo dell’‘istinto’. Tuttavia, la comprensione delle strutture formali necessita di una conoscenza più vasta, anche di studio, ed è plausibile che a quindici o sedici anni non si possieda o si possieda in modo sommario. Ma, è vero, i ragazzi non hanno molte occasioni di confrontarsi con la poesia contemporanea. Capita che gli adolescenti abbiano letto Leopardi, magari grazie alla scuola, e abbiano letto poesie di Baudelaire o di Bukowski, ad esempio, perché sono autori entrati a far parte del mainstream occidentale. La realtà che circonda i ragazzi offre poche occasioni di confronto con la poesia. Internet, ad esempio, è un mezzo con cui hanno una familiarità impressionante ed è pieno di poesia, ma in forme dispersive, confusionarie e poco affidabili. Esistono alcune riviste online, alcuni siti o blog molto seri, che tuttavia si conoscono limitatamente (tra le riviste che hanno anche una versione online ci sono, ad esempio, «Atelier», «Nuovi Argomenti» con la rubrica Officina poesia, ma anche la parte di poesia di «Alfabeta 2»; tra i siti/blog uno è gestito tra l’altro da ragazzi laureati a Siena e si chiama formavera, oppure ce ne sono altri come poetarumsilva o il blog di poesia di Rai News; poi ci sono siti/blog letterari che fanno pubblicazioni di poesia in percentuale ridotta rispetto agli altri contenuti, come doppiozero, illavoroculturale, laletteraturaenoi, leparolelelecose, minimaetmoralia, nazione indiana). La scuola, d’altra parte, è regolata dai programmi e da una routine che spesso, purtroppo, fanno tagli alla letteratura del Novecento. Dal momento che i mass media in Italia sembrano ancora indirizzati pressoché esclusivamente verso una informazione d’altro tipo, penso che oggi la conoscenza della letteratura per i ragazzi torni a passare, in parte consistente, dalla scuola. Sono lontani i tempi in cui la scuola era decisiva per l’insegnamento della lingua nazionale…, ma oggi gli insegnanti, e molto più che negli ultimi decenni del secolo scorso, hanno un ruolo cardine per la formazione culturale delle future generazioni.
A. V. Durante l’incontro hai notato che in Italia moltissimi scrivono poesie e le pubblicano. D’altra parte, i libri di poesia si vendono poco. Come si spiega questa volontà di essere poeti-autori in un paese che ha pochi lettori di poesia?
M. B. Questo fatto è uno dei paradossi del mondo della poesia italiana di oggi. Il punto, però, è il seguente: tanti scrivono in versi o in forme poetiche, ma ciò non equivale a dire che vi sono tanti poeti. In arte, essere un autore non vuol dire essere un esecutore, così come l’opera non è una cosa. Non penso ci sia nulla di male nel fatto che tantissimi scrivano versi o ‘poesia’, ciò fa parte di un bisogno umano di espressione. Il problema è la coscienza dell’autorialità, e della letteratura. Per la quale occorrono diversi fattori: a un livello individuale, la lettura e il confronto; a un livello che possiamo chiamare ‘sociale’, l’onestà della critica, una attenzione migliore da parte dei media e anche la funzione formativa della scuola.
A. V. Quali sono secondo te i migliori cinque libri di poesia usciti in Italia negli ultimi dieci anni?
M. B. Mi chiedo spesso che cosa potrebbe emergere se questa domanda fosse posta a un campione significativo di lettori di cultura medio alta in Italia oggi… Mi fa molto riflettere, comunque, il fatto che la maggior parte dei romanzieri italiani frequentino poco la poesia. Cerco tuttavia di rispondere. Per il decennio che va dal 2005 al 2015, mantenendo un poco elastici i ‘confini’, penso che opere che hanno un valore particolare siano Umana gloria di Mario Benedetti (2004), Tema dell’addio di Milo De Angelis (2005), Dal balcone del corpo di Antonella Anedda (2008).
A. V. Le forme metriche e strofiche della tradizione italiana (endecasillabo, sonetto ecc.) hanno ancora qualche valore per un poeta di oggi?
M. B. Penso di sì. Possono non avere un valore manifesto, si usano raramente. Il cosiddetto neometricismo, che riguarda soprattutto autori come Patrizia Valduga o Gabriele Frasca (anche Raboni o Fortini hanno scritto in sonetto, ma il loro rapporto con il fenomeno del neometricismo pare piuttosto laterale…), non è più in voga e ci si sta muovendo verso forme di ibridazione tra generi, piuttosto che di recupero di stilemi tradizionali, e verso forme di ricerca sul ritmo. Credo però che la pronuncia endecasillabica, ad esempio, sia in qualche modo connaturata alla dizione di un poeta italiano, alla suo senso del suono, del ritmo, e penso che ciò non riguardi solo l’endecasillabo. Tuttavia, gli usi che vengono fatti sono aperti. Ciò avviene ormai da molti decenni. Questo riguarda anche il sonetto – forse anche grazie alla sua brevità – che torna in rivisitazioni fluide (sia per quanto riguarda le rime, sia per quanto riguarda i metri, sia per le spaziature tra quartine e terzine). Invece, forme come la canzone, ad esempio, se vogliamo prenderne una dal repertorio classico, mi paiono davvero reperti. Oggi, però, magari potremmo dire che il poemetto, in alcuni casi, possa assumere anche la funzione che in un passato lontano aveva la canzone.
A. V. Spesso i poeti attuali usano una scrittura che non è di facilissima comprensione, e che richiede un lavoro di interpretazione, che come ogni interpretazione può allontanarsi dalle intenzioni dell’autore. A tuo avviso esiste la “giusta” interpretazione di una poesia oppure ogni lettore ha il diritto di interpretarla secondo la sua sensibilità? E chi stabilisce, nel primo caso, la giusta interpretazione?
M. B. Penso che la poesia, pur avendo una forma attenta, ben più controllata rispetto a quella della narrativa, sia un scrittura che offre diverse libertà di interpretazione, ma soprattutto di percezione, di suggestione. C’è un nucleo di significati di base, essenziali, e c’è un margine ampio di suggestione. Ciò non vuol dire anarchia. Forse, alcune note da parte dell’autore potrebbero dare una dritta al lettore. Il rigore interpretativo filologico, d’altra parte, è a volte un crivello non necessariamente veritiero. Ascoltare la lettura di poesia dovrebbe funzionare come l’ascolto di un brano di musica. La stessa lettura silenziosa, individuale, di una poesia dovrebbe richiamare un ritmo interno, come se la sua lingua si trasformasse anche in qualcosa di fisico. La poesia però usa un linguaggio verbale, in rapporto al quale le dinamiche di comunicazione non sono la stessa cosa rispetto a quelle del linguaggio della musica; sono affini, ma non sono la stessa cosa. Credo che un poeta debba sempre ricordare il tipo di linguaggio che sta usando, la specificità verbale del suo linguaggio e le relative conseguenze. E penso che la poesia, nel suo rapporto con il pubblico, più che altre forme letterarie, abbia anche bisogno di un dialogo con la critica.
A. V. Il poeta ha un qualche compito sociale e politico da svolgere, una qualche missione civile, oppure no?
M. B. Un artista ha come primo compito la sua opera. Ma l’opera sta nel mondo. Essere un artista socialmente impegnato e avere una missione civile non garantiscono, di per sé, la qualità dell’opera. Ma l’opera sta nel mondo. Anche se racconta soltanto la sua individualità, il suo piccolo spazio, lo scrittore porta la sua scrittura nel mondo, nella realtà, alla fine… Penso che ogni artista, prima o poi, nella sua vita, si trovi a fare i conti con il problema del ruolo civile. I modi in cui ciò si manifesta sono diversi, ma penso che ogni artista arrivi a porsi a un certo punto, anche solo segretamente, questa domanda.
A. V. Che rapporto ha la poesia con la bellezza? Il poeta deve esprimere il bello, oppure può anche dire l’orrore, la disarmonia, l’eccesso?
M. B. La divisione tra ‘bello’ neoclassico e ‘brutto’ romantico, tra apollineo e dionisiaco, è stata rotta a metà del Novecento, sicuramente dopo la seconda guerra mondiale. La letteratura è il campo di tutti i contenuti. Una poesia è bella o brutta se è un’opera d’arte o meno, se funziona come opera d’arte; nessun pregiudizio riguardo ai suoi contenuti.
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