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Tra neorealismo e persistenze moderniste: il romanzo italiano degli anni Cinquanta

Pubblichiamo la Premessa al recente volume di Massimiliano Tortora, Tra neorealismo e persistenze moderniste: il romanzo italiano degli anni Cinquanta, Ledizioni 2024, ringraziando autore ed editore.

1 Gli anni Cinquanta iniziano nel ’48 e finiscono nel ’63

Il 1948 si caratterizza per due elementi che hanno immediate conseguenze nel campo della produzione narrativa. In primo luogo le elezioni del 18 aprile – o meglio la sconfitta del Fronte popolare – mettono fine alle speranze rivoluzionarie o almeno di cambiamento radicale della società post-fascista: tramonta ogni forma di cieco ottimismo nel futuro e nello svolgimento teleologico della storia, dal male verso il bene. A partire dal ’48 è con il presente, e con le forze reazionarie che lo governano, che occorre fare i conti: se ne ricava che l’onda lunga della Resistenza sembra prosciugata; o almeno questa è la lettura offerta dalla sponda marxista, e fatta propria da molti romanzieri. In secondo luogo proprio intorno al ’48 l’editoria registra un incremento significativo delle vendite di romanzi, un genere che continuerà la sua crescita per un ventennio, imponendosi come quello di riferimento sia in campo editoriale, che più strettamente letterario. È in questo incrocio tra mutamento politico (fine del dopoguerra) e cambio di passo editoriale che prende corpo il romanzo italiano degli anni Cinquanta.

Come tutte le periodizzazioni, e soprattutto quelle stringenti (addirittura legate a un decennio), anche questa è inevitabilmente parziale e artificiale, sia in senso diacronico, che sincronico. In ogni caso, per quanto concerne il prima e il dopo del romanzo italiano degli anni Cinquanta, a monte abbiamo il ’48 – per i motivi appena detti, i quali però non smentiscono una continuità, soprattutto per quanto concerne le strutture formali, con il decennio prebellico – e a valle il ’63, anno in cui il Gruppo63, l’uscita di molti nuovi romanzi (Capriccio italiano, Fratelli d’Italia, La ferita dell’aprile, oltre che Lessico famigliare, Una questione privata, La cognizione del dolore; e l’anno prima Memoriale e La vita agra) e la svolta di Calvino determinano un significativo cambio di paradigma letterario.

Al contempo non si pensi agli anni Cinquanta come a un decennio a tinte unite: se certamente si impone una corrente di romanzo realistico e ben fatto – capace di conciliare cura formale e appeal verso il grande pubblico, realismo (anche sociale) e attenzione all’interiorità, narrazione oggettiva e incapacità di arrivare a un nucleo stabile di verità – negli stessi anni escono anche molte opere che da quel modello più tradizionale divergono: basti pensare all’edizione in volume del Pasticciaccio, per far toccare con mano come ogni tentativo di ridurre un’epoca a una sola corrente sia operazione fallimentare e controproducente.

Ciò non toglie che per una certa fase – quella appunto tra la fine del dopoguerra e il ’63 – il colore dominante della narrativa italiana è quello del romanzo lineare e realistico. E questo tipo di romanzo, che qui chiamiamo degli anni Cinquanta, viene variamente indagato nei tredici saggi che costituiscono il presente volume.

2 Superare la letteratura resistenziale

Le esigenze di superare la letteratura di marca resistenziale – intesa come narrazione di gesta partigiane, di fiducia nell’avvenire, di lucidità ideologica – si hanno già alla fine degli anni Quaranta, e diventano poi conclamate con la battaglia portata avanti da Vittorini con i “Gettoni” (e non solo con quelli), fino alla tardiva e ormai fuori tempo polemica su Metello. È in questi anni che molti scrittori si cimentano con il reportage e con quello strano sottogenere che possiamo chiamare il viaggio in Italia: tra gli altri abbiamo Sciascia, con Le parrocchie di Regalpetra e gli interventi di Ginzburg sull’Abruzzo, su Matera e sulle fabbriche torinesi. Mentre più avanti l’altro topos del viaggio in Unione Sovietica dismette i panni della celebrazione per assumere quelli della denuncia, come dimostra il reportage di Moravia del ’56. Sono solo alcuni esempi, tra altri che pure sono presenti nel panorama editoriale di questi anni, che si indagano in questo volume, con l’obiettivo di mostrare come di fatto la narrativa di eventi realmente accaduti (ossia la guerra) entri in crisi, e si cerchi una nuova forma di racconto; a volte anche passando attraverso la scrittura documentaria, che però assume un passo decisamente narrativo (e a tratti letterario).

Ma dietro queste inchieste – che siano in Italia o che siano all’estero – c’è sempre la contestazione del presente: è questo il punto di discrimine rispetto alla letteratura resistenziale. Quest’ultima infatti, nel raccontare gli eventi gloriosi appena trascorsi, è tutta proiettata al futuro, che deve dare corpo e sostanza agli ideali che hanno animato la Resistenza. A partire dal ’48 la visione prolettica del romanzo resistenziale lascia spazio a uno sguardo preoccupato, quando non desolato, del presente, che inevitabilmente assume anche i toni nostalgici per un passato che prometteva ciò non ha potuto poi mantenere. Il romanzo degli anni Cinquanta – nell’accezione che abbiamo sopra sommariamente indicato – ha proprio questa fisionomia: racconta l’Italia contemporanea, e ne misura la distanza (in difetto) dagli ideali resistenziali. Sono emblematiche, in tal senso, le pagine di Bassani e di Arpino: le prime sono tutte volte a denunciare una società troppo pronta a dimenticare gli orrori del fascismo, e dunque a sbarazzarsi di quegli anticorpi (la memoria di ciò che è stato) necessari a difendere una comunità democratica (e in questa direzione si muove tutta la letteratura sulla Shoah, e Primo Levi in particolare); le seconde, più politicamente orientate, nel descrivere la realtà circostante prendono atto di come quel progetto di uguaglianza sociale sia fallito, o comunque lontano dalla sua realizzazione.

Ma gli anni Cinquanta sono anche quelli del boom economico, che complica i rapporti sociali, e rende più ambigue, e paradossalmente ancor più violente, le gerarchie di potere. La naturale e legittima propensione al benessere viene pagata con il tasso di qualità della vita, la solidarietà, la cura di sé: Mastronardi, Volponi e il romanzo industriale ruotano tutti intorno a questa contraddizione. Ma proprio Mastronardi e soprattutto Volponi risentono già dei venti sperimentali che alimenteranno la svolta del ’63; e infatti la loro architettura romanzesca è più mossa e articolata di quella che sorreggeva le opere di Bassani, di Arpino, di Cassola e di tanti altri. Siamo alla fine del romanzo degli anni Cinquanta.

3 Neorealismo e modernismo

Mi è già capitato in più occasioni di sostenere che la poetica modernista – quella dei romanzi di Svevo, Pirandello, Tozzi, ecc. per intenderci – si esaurisce alla fine degli anni Venti, per essere poi sostituita da una stagione del romanzo realistico, inaugurata da Gli indifferenti di Moravia e protrattasi fino al ’63 (data altrettanto simbolica, con la quale si intende sempre un certo momento di svolta). E conseguentemente gli anni Cinquanta e anche il suo romanzo realistico e ben fatto – il best seller di qualità – rientrano in questa lunga arcata (pur mantenendo una loro specificità e riconoscibilità).

Ora se gli stilemi modernisti si esauriscono con la scomparsa di Tozzi, Svevo e Pirandello, non viene meno la condizione modernista che è alla base di tale poetica. In fondo tutto il Novecento – procediamo per grossolane generalizzazioni – si muove all’interno di una visione del mondo che è quella elaborata a inizio secolo: una visione freudiana, relativistica, secolarizzata e via dicendo. Tuttavia a partire dagli anni Trenta, e ancor di più negli anni Cinquanta, la condizione modernista non deve più essere spiegata al lettore (come accadeva invece con le lunghe analisi sveviane): è un elemento antropologicamente condiviso tra chi scrive e chi legge; più correttamente introiettato e dunque, per questo motivo, dato ormai per scontato.

Interessante, pertanto, è più che altro analizzare il modo in cui i romanzieri del secondo dopoguerra esprimono una condizione modernista, senza per questo doverla esplicitare. In genere, ad agire da principio regolatore, è la figura del narratore, che è sì potenzialmente onnisciente, ma adotta in maniera quasi costante una focalizzazione interna fissa al protagonista, finendo dunque per fornire al lettore un punto di vista parziale e soggettivo. È chiaro che con una simile costruzione il raggiungimento della verità è sempre parziale: lo dimostra Bassani, che non a caso esprime chiaramente il suo debito nei confronti di Svevo e Proust, lo rivendica un giovanissimo Pomilio nei suoi primi interventi critici, lo indicano gli indici di «Botteghe Oscure» (rivista uscita dal ’48 al ’60), e lo rivela l’esordiente Mastronardi.

Ma certi meccanismi modernisti sono ancor più visibili in Volponi, che esordisce nel ’62. Siamo già in anni più marcatamente sperimentali, in cui il realismo tradizionale, intriso di modernismo, comincia a traballare. E infatti un’opera come Memoriale, con un narratore omodiegetico alterato psichicamente, è certamente più composita di tanta letteratura di pochi anni precedenti. Come già detto ci avviamo alla fine del romanzo degli anni Cinquanta, e non solo per motivi strettamente cronologici. Una nuova generazione di scrittori sta prendendo il sopravvento, per dare avvio a una stagione diversa: quella che oscillerà tra neoavanguardia, sperimentalismo, romanzi-monstre; una stagione insomma che soppianta la lunga fase del neorealismo, che aveva trovato negli anni Cinquanta, e nel suo romanzo, la sua espressione più matura.

Roma, luglio 2024

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