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diretto da Romano Luperini

Pochi giorni fa è stato pubblicato dall’editore Castelvecchi il volume di Romano Luperini e Beppe Corlito Il Sessantotto e noi. Testimonianza a due voci. Pubblichiamo qui l’introduzione e il primo capitolo del volume, ringraziando autori ed editore per la disponibilità.

Premessa. Un paradosso ironico

Per qualche mese, a partire dall’inverno 2022-2023, gli autori di questo libro hanno discusso sul Sessantotto. Un paradosso ironico. In quelle settimane andava al potere in Italia un governo di estrema destra, il più a destra nella storia della nostra Repubblica. E noi discutevamo invece dei giorni in cui sembrava possibile progettare un futuro migliore, vagamente socialista, in cui tutti ci saremmo sentiti più realizzati, senza forti dislivelli sociali e senza autoritarismi, più eguali e più liberi.

Pensavamo allora che non volevamo morire democristiani; e ora ci troviamo invece a temere di dover morire fascisti o postfascisti. In questa situazione ha ancora senso parlare del Sessantotto? Il libro che presentiamo vorrebbe essere una scommessa che questo senso sia ancora possibile.

Il 1968 è diventato – come il 1848 – un anno per antonomasia, perché ha rappresentato una svolta planetaria (più del 1848, che fu solo europeo), uno spartiacque per cui nulla di quanto esisteva prima è potuto essere uguale, dopo. In noi, che abbiamo preparato e “fatto il Sessantotto”, questo anno ha lasciato un’impronta indelebile. E non solo perché nessuno può dimenticare la propria gioventù. Ci sembrò allora che tutto il mondo fosse giovane come noi e il cielo che volevamo assaltare più a portata di mano. Non possiamo rinnegare ciò che abbiamo fatto allora, compresi gli errori, di cui cerchiamo di dare onestamente conto in queste pagine. Non possiamo pentirci, perché il prezzo da pagare sarebbe troppo alto. Riguarda la nostra stessa vita. Ha scritto Luciano Della Mea: «Un’esperienza come quella è una sorta di dono della storia e chi veramente la visse ne rimase positivamente segnato in modo permanente: al di là e contro la sconfitta politica»[1].

In questa storia la memoria, con tutti i suoi rischi prospettici e pur carica dei suoi vissuti emotivi, ha un ruolo centrale: tanto la memoria individuale, quanto quella collettiva. A differenza di altri periodi storici, per esempio la Resistenza antifascista, del Sessantotto quasi non esiste una memorialistica, come se coloro che ne furono protagonisti avessero scelto il silenzio nello sbigottimento della sconfitta. Non esistono neppure molti studi degli storici, a cui a distanza di oltre mezzo secolo dovrebbe essere affidato il compito di una ricostruzione dei fatti sulla base dei documenti dispersi in molti giornali, riviste e in vari archivi (pochi anche quelli e mal conservati). A differenza della Resistenza o del Risorgimento, entrambi in larga misura la storia di altre due generazioni generose di giovani, nell’organizzazione accademica degli studi, agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso non sono stati dedicati cattedre e neppure corsi. È stato scritto che c’è stata una rimozione del Sessantotto, soprattutto da parte di coloro che l’hanno vissuto, e poi da parte degli storici. E noi, invece, nell’imminenza dello scadere del tempo che ci è concesso, abbiamo deciso di scrivere e di ricordare, oltre le occasioni degli anni che finiscono con otto, i decennali. Pensiamo che una testimonianza sia necessaria e che possiamo essere fonte di una storia tutta da scrivere, perché etimologicamente dal greco antico ιστὸριov si tratta in primo luogo di una ‘testimonianza’. E noi siamo stati appunto due testimoni.

Pensiamo, però, che il semplice ricordo, la memoria di quanto abbiamo fatto e vissuto, non assolva pienamente al compito che ci siamo dati, perché una riflessione e un ragionamento sono necessari. Siamo consapevoli di essere stati parte di un processo storico e per certi versi, tra luci e ombre, protagonisti di un’epoca alle nostre spalle. Il nostro è un bilancio della vita che abbiamo vissuto e, insieme, è anche il bilancio di una generazione di amici e di amiche, di compagni e di compagne, che hanno camminato sotto braccio a noi e che ancora oggi riconosciamo a prima vista membri di quell’antica comunanza. Dobbiamo pure dire che i due termini “amici” e “compagni” (come ha scritto Ernesto Che Guevara) hanno coinciso da allora, salvo pochi apporti successivi. Abbiamo costituito per tanti versi una comunità di destino.

In questo senso, quanto abbiamo scritto nelle pagine che seguono è una sorta di testamento rivolto al futuro. È un lascito alle generazioni a venire, che ci auguriamo possano popolare il nostro pianeta con minore arroganza delle precedenti. Il Sessantotto ha immaginato se stesso come un movimento senza fine, ha pensato se stesso come una rivoluzione che avrebbe dovuto proseguire di tappa in tappa senza mai raggiungere una meta ultima. Perciò, nonostante la sconfitta che abbiamo subito, quel movimento non si è mai concluso.

C’è una ragione profonda di natura storica per cui il Sessantotto viene rimosso, fa così fatica a emergere sul serio alla coscienza degli storici, dei sociologi e degli studiosi in generale, dei suoi stessi protagonisti, oggi dispersi. Esso non apriva solo una nuova stagione di lotte, in realtà ne chiudeva una. In quegli anni arrivavano al pettine le contraddizioni delle due classi principali in campo. Il capitalismo aveva mobilitato forze produttive che non riusciva a gestire. Anche l’università, rigurgitante di giovani, era dotata di istituzioni e di strutture incapaci di contenerli. La fabbrica fordista giungeva al suo acme e si avviava alla ristrutturazione planetaria della produzione centrata sulle macchine elettroniche. Contemporaneamente, le organizzazioni tradizionali del movimento operaio (partiti e sindacati) entravano in crisi, non riuscivano più a organizzare e a rappresentare pienamente né gli operai, né gli studenti, né gli strati intermedi della società progressivamente proletarizzati. La cultura politica e organizzativa della Terza Internazionale era arrivata al capolinea, cosa di cui non ci rendevamo ancora pienamente conto. Il mito del comunismo realizzato “oltre cortina” si eclissava, e noi già allora ne eravamo del tutto consapevoli.

I pochi saggi scritti in proposito, gli ancora più rari libri di storia di quegli anni, le memorie e i racconti anch’essi esigui, trascurando gli articoli giornalistici d’occasione, tendono a addensarsi su un concetto elaborato da Rudi Dutschke – Rudi “il rosso”, del movimento degli studenti berlinese –, contenuto in un’espressione evocativa: «La lunga marcia attraverso le istituzioni». Anche noi per strade diverse siamo arrivati alla medesima conclusione. Il concetto evoca la lunga marcia della rivoluzione cinese, che nel Sessantotto ebbe un momento di celebrità, il quale ne oscurò i limiti. Mette al centro il modello di contestazione radicale dell’autorità a partire dall’istituzione universitaria, dove il movimento nacque in tutto il mondo, per investire tutte le scuole, gli ospedali, i manicomi, le altre istituzioni “totali” come il carcere, la magistratura, l’esercito e, soprattutto, la fabbrica fordista della catena di montaggio, che costituiva una vera istituzione autoritaria estendendosi alle città-fabbrica dove venne insediata. Il concetto di Dutschke si attagliava bene anche all’idea diffusa che il movimento era senza fine, ininterrotto. Per noi è l’unico modello di una possibile rivoluzione socialista in Occidente, che, lontano dall’idea dell’insurrezione ottocentesca, configura l’unica ipotesi di rivoluzione possibile nelle società capitalistiche complesse, quella della progressiva conquista delle “casematte borghesi” teorizzata da Gramsci e strettamente connessa al suo concetto di egemonia.

Un’altra domanda che ci siamo posti è se il Sessantotto avesse una possibilità di essere vittorioso o fosse solo una bella utopia. Vorremmo chiarire che il concetto di utopia, dell’“isola che non c’è”, indica comunque una rotta su cui indirizzare la navigazione. Contemporaneamente non crediamo che il movimento sia tutto, e tantomeno che il fine sia nulla, secondo un aforisma fin troppo celebre. Viceversa, il nostro obiettivo era e rimane una società di uguali, in cui abbiano lo stesso diritto di cittadinanza tutte le diversità, la società senza classi e senza lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. In una sorta di eterogenesi dei fini, il movimento del Sessantotto ha prodotto non un nuovo assetto sociale, ma un enorme processo di modernizzazione dei costumi, di liberazione delle donne e delle diversità, di maggior libertà all’interno di tutte le istituzioni.

La riflessione sul Sessantotto si potrà riaprire solo quando qualche movimento politico ne riprenderà la lezione e l’eredità, ne criticherà e supererà i limiti.

PS: Il testo deriva dalla registrazione di un dibattito a due voci durato qualche settimana a partire dell’inverno 2022-2023. Di qui la vivacità – qualche volta irrituale – del parlato, e qualche ridondanza e ripetizione dei concetti.

Capitolo 1. Uno o tanti Sessantotto? Il Sessantotto fenomeno globale

CORLITO Il movimento del Sessantotto va considerato come un unico fenomeno planetario, nel senso che temporalmente corrisponde al momento in cui si affaccia sulla scena del mondo la generazione dei baby boomer, coloro che erano nati durante e subito dopo l’ultima guerra mondiale. Tale generazione, la nostra, ha caratteristiche analoghe su tutto il pianeta. Non si tratta solo di caratteristiche generazionali omogenee, ma anche della loro modalità di approcciarsi alla politica: c’è un elemento creativo innovativo e giocoso, che è un carattere – secondo me – abbastanza universale. I giovani dell’epoca guardano alla politica in modo meno grigio, molto meno formale delle generazioni precedenti. Gli studenti sono sempre stati storicamente, nell’Ottocento e nel Novecento, un ceto sociale disponibile all’innovazione, magari anche alla rivoluzione, ma tali caratteristiche sono molto più marcate nel Sessantotto, e certamente più creative. Lo slogan “l’immaginazione al potere” riflette esattamente questa disposizione creativa e giocosa, che incrocia il bisogno di rovesciare lo stato delle cose presenti e il desiderio libertario più radicale.

Ovviamente le varie situazioni nazionali sono diverse. Abbiamo una partenza americana: il movimento nasce a Berkeley, in California, nel 1966, un paio d’anni prima rispetto a noi. In Italia c’erano alcuni fermenti precedenti al Sessantotto, che almeno ho vissuto personalmente dentro lo PSIUP, alimentati da una riflessione interna alla sinistra socialista, quella che ha fornito prevalentemente i quadri al movimento del Sessantotto. I prodromi italiani, però, non avevano le caratteristiche di massa che ebbe il movimento negli USA. Ricordiamo il discorso di Mario Savio, il leader di Berkeley, centrato sulla questione delle macchine, cioè su una critica all’università americana come azienda, come fabbrica, mentre gli studenti venivano intesi come subalterni alla produzione al pari delle macchine. Il discorso si trova facilmente anche videoregistrato su YouTube[2]. Vi è una corrispondenza tra l’idea di Savio e un fenomeno che stava avvenendo in quegli anni. Sono gli anni in cui si verifica un passaggio all’interno del modo di produzione capitalistico, che rimane sempre lo stesso, centrato sulle macchine, ma in cui le macchine stanno cambiando. Da quelle elettromeccaniche si passa alle elettroniche, cioè tutti i fondamenti della terza rivoluzione industriale, quella elettronica, sono già in campo: viene inventato il microprocessore, cioè si passa dalle prime mastodontiche macchine a schede perforate al calcolatore basato sul microprocessore, che miniaturizza un insieme che tiene sulla stessa linea di lavoro il processo di calcolo e la memoria. Una vera catena di montaggio viene concentrata in pochi millimetri di spazio. Nello stesso periodo vengono inventate le prime stampanti. Contemporaneamente viene messo a punto il precursore di Internet, poi perfezionato al CERN di Ginevra, Arpanet, uno strumento di comunicazione elettronica dell’esercito americano.

Secondo me, nel discorso di Savio c’è l’intuizione che sta cambiando qualcosa nel mondo della produzione esattamente sul versante delle macchine. Come aumenta di gran lunga l’integrazione produttiva delle macchine, così gli esseri umani, in particolare sul versante della formazione intellettuale, vengono integrati come macchine nella produzione, diventano rotelle di un enorme ingranaggio produttivo, che è il sistema sociale in grado di inglobare tutto. Nel linguaggio dell’epoca si diceva direttamente “il sistema”. Questo sarà uno dei temi del movimento.

Un’altra caratteristica su scala planetaria del movimento è l’atteggiamento antiautoritario, cioè l’avversione per le autorità costituite, o meglio per il sistema che ovviamente assume toni diversi in Occidente o in Oriente. In Occidente le autorità costituite furono quelle accademiche, all’inizio, e poi, con l’uscita dall’università, furono “i padroni” nelle fabbriche e gli uomini politici di potere nella società e nelle istituzioni. Oltre il muro di Berlino, di là dalla cortina di ferro, ovviamente l’autorità coincideva con quella dei partiti comunisti al potere. Quindi l’antiautoritarismo in apparenza assume due versioni diverse, ma di fatto fa riferimento alla stessa questione. In modo analogo si può dire rispetto alla rivoluzione culturale cinese: la generazione ribelle è la stessa con le medesime capacità creative. Ricordiamo l’invenzione cinese dei tatzebao, che ha fatto epoca in tutto il mondo come strumento di comunicazione innovativo, cioè il grande manifesto scritto a mano, a grandi caratteri, con la vernice e da attaccare sui muri. L’antiautoritarismo corrisponde alla contestazione radicale della capacità di integrazione del sistema che assorbe ogni diversità.

Della rivoluzione culturale cinese ci affascinava soprattutto il fatto che introducesse un discorso relativo a una rivoluzione nel campo della sovrastruttura culturale. Anche laddove, come sembrava essere in Cina, era avvenuto un cambio della proprietà dei mezzi di produzione, diventati statali, la rivoluzione non finiva semplicemente con questo passaggio, ma continuava sul terreno della cultura, perché il punto di vista borghese, come si diceva allora, continua a riprodursi anche durante la costruzione della società socialista. Ciò esercitava un’attrazione sul movimento studentesco, anche su quello francese che aveva simpatie per il maoismo. La ragione della simpatia era culturale, per il fatto che rappresentava l’inveramento dell’idea della rivoluzione permanente, cioè di un movimento che continuamente si confronta col potere. La rivoluzione diventa un processo infinito prima, durante e dopo la rivoluzione sociale. Il percorso continuo della rivoluzione, senza una fine precostituita, era una delle caratteristiche essenziali del movimento del Sessantotto.

Sottovalutavamo che c’era anche la strumentalizzazione delle “guardie rosse”, usate dal potere per risolvere le questioni aperte all’interno del vertice del Partito Comunista cinese.

LUPERINI Un’altra considerazione rispetto alla questione dei “molti Sessantotto”. Il movimento nasce soprattutto nelle università, da cui poi si diffonde anche alle scuole medie. La stagione delle occupazioni delle scuole in Italia è successiva al Sessantotto, sta a cavallo dell’autunno-inverno 1968-1969. Allora, dalle occupazioni delle facoltà universitarie si passa all’occupazione delle scuole medie. Insomma, esiste un Sessantotto degli studenti universitari e uno degli studenti medi.

C’era sicuramente anche un Sessantotto operaio fin dagli inizi: l’occupazione dell’università corrispondeva anche a un’esperienza che gli operai conoscevano bene: lo strumento di lotta dell’occupazione delle fabbriche. Il movimento operaio assume – soprattutto nel cosiddetto “autunno caldo” del 1969 per il rinnovo dei contratti nazionali di lavoro – alcuni aspetti più radicali del movimento studentesco, in particolare l’idea della centralità dell’assemblea, in cui si afferma la pratica di una democrazia diretta. L’assemblea elegge delegati che sono sempre revocabili. Nelle fabbriche vengono eletti i delegati di linea, che formano i consigli di fabbrica, i quali superano la vecchia organizzazione sindacale delle commissioni interne. L’assemblea di fabbrica è paragonabile all’assemblea studentesca, e lo strumento assembleare diventa la forma organizzativa di tutte le istanze sociali che nascono nel Sessantotto.

CORLITO C’è in proposito un passaggio che lega l’esperienza del Sessantotto alla Resistenza: la considerazione è di Guido Quazza, uno storico dell’Università di Torino, che era stato capo partigiano; egli sostiene che ci sono delle somiglianze tra l’organizzazione del movimento studentesco e quella della banda partigiana, che aveva caratteristiche di discussione interna e, pur essendo un’organizzazione militare, modalità decisionali simili all’assemblea sessantottesca. Scrive De Luna: «A segnalare il nesso tra il Sessantotto e la Resistenza era stato, tra i primi, in particolare Guido Quazza, che aveva in questo senso sottolineato una serie di aspetti (la dedizione completa alla militanza che evocava la “partecipazione integrale” del combattente partigiano, il prevalere dell’iniziativa dal basso e il rifiuto della delega che suggerivano una certa analogia tra l’assemblea studentesca e la banda partigiana) effettivamente centrali nella concezione della politica»[3].

LUPERINI C’è, poi, il Sessantotto delle donne, un po’ più sfasato: le donne diventano protagoniste del movimento qualche anno dopo rispetto alla nascita di quello degli studenti, ma ne riprendono alcuni aspetti. Per esempio, Eric Hobsbawm sostiene che il movimento femminista è influenzato dalle modalità di pensare alla politica degli studenti. Anche le donne assumono l’atteggiamento antiautoritario come ribellione allo strapotere maschile.

L’altro elemento particolarmente interessante è l’aspetto anti-istituzionale. Il movimento del Sessantotto pensava all’occupazione di tutte le istituzioni. L’università è un’istituzione come la fabbrica e come tutte le “istituzioni totali”, quelle rigidamente e gerarchicamente amministrate con uno stretto controllo delle possibilità di muoversi al loro interno e tra dentro e fuori, cioè manicomi, carceri, esercito. Per certi versi anche la magistratura è stata investita da questa battaglia contro le istituzioni, nelle quali la politica del movimento rintracciava alcune caratteristiche comuni di autoritarismo, di autosufficienza, di impermeabilità rispetto alle istanze sociali, a ciò che viene dal basso. Nascono in questo contesto organizzazioni come Psichiatria Democratica (1973), Magistratura Democratica (1964), Medicina Democratica (1972), attive ancora oggi.

CORLITO La lotta per il superamento dei manicomi è parte di questo processo. La lotta contro i manicomi nasce prima del Sessantotto dall’esperienza di Gorizia, condotta da Franco Basaglia, che comincia nel 1963 e poi si estende a macchia di leopardo in molti manicomi italiani. I suoi strumenti derivano dall’esperienza anti-istituzionale inglese, che porta alla fondazione della psichiatria sociale nel secondo dopoguerra, ma la lotta contro i manicomi in Italia assume subito caratteri più marcatamente politici. Il libro famoso, uscito per Einaudi, che riporta la contestazione antimanicomiale del gruppo di psichiatri raccolto intorno a Basaglia, è edito nel 1968, nella nota Serie Bianca col quadratino rosso in copertina. Si trattava di una collana di saggistica che riportava le esperienze anti-istituzionali del pianeta, molto diffusa tra i quadri del movimento: uno dei primi libri pubblicati fu proprio quello a cura di Basaglia con il titolo, appunto, di L’istituzione negata.

L’idea era che le istituzioni siano articolazioni decentrate dell’organizzazione del potere statale e sociale e che la loro conquista potesse avvenire dal basso attraverso lo sviluppo di tutti gli spazi democratici. Poi il processo poteva arrivare a mettere in crisi il nocciolo centrale, cioè il potere di una classe sull’altra. In realtà, tale strada non fu praticata perché contrastava con l’urgenza dell’azione e con lo slogan “tutto e subito”, con la paura che il sistema recuperasse le contraddizioni e gli obiettivi, e che gli spazi potessero chiudersi rapidamente.

LUPERINI Un percorso simile è quello che si pensava dovesse avvenire in fabbrica, dove le lotte dovevano portare al cambiamento della produzione, a incidere sul lavoro alla catena di montaggio e sul funzionamento delle macchine. Si pensava, poi, di passare dalla lotta contro lo sfruttamento immediato, in fabbrica, a quella nella società. Ciò riguardava anche gli studenti a partire dalle Tesi della Sapienza (Pisa, febbraio 1967). La domanda era: gli studenti hanno diritto al salario come i lavoratori? Apparentemente no, perché l’università non è una fabbrica, ma allora intendevamo una società strutturata come fabbrica. Si passa dall’idea dello sfruttamento limitato alla fabbrica a quella dello sfruttamento che riguarda l’intera società, dallo sfruttamento aziendale a quello sociale. Lo sfruttamento non era solo operaio, come si era pensato sulla scia di Marx fino al secondo conflitto mondiale.

C’è, poi, una seconda cosa da dire: la questione dell’inchiesta. Veniva dalla rivista «Quaderni Rossi». Molti quadri del Sessantotto erano passati attraverso l’esperienza dei «Quaderni Rossi» e la lezione di Raniero Panzieri. Si trattava di piccoli gruppi legati soprattutto all’esperienza sindacale, all’organizzazione della fabbrica, alla lotta contro il cottimo. Ho partecipato alle prime riunioni, che in Italia si tenevano in piccoli gruppi per discutere, pensare e organizzarsi. Eravamo iscritti al PCI, ma soprattutto al PSI, alla sinistra socialista e ai sindacati. Sostenevamo il lavoro di inchiesta, che fra l’altro ci sembrava coerente all’indicazione di Mao: non ha diritto di parola chi non ha fatto l’inchiesta e non ha esperienza diretta sul luogo di lavoro[4].


[1] Luciano Della Mea, Introduzione, in Roberto Massari, Adriano Sofri, il ’68 e il Potere Operaio Pisano, Massari Editore, 1998, p. 14.

[2] Mario Savio, Operation of the Machine, Sproul Hall, University of California,Berkeley, 2 dicembre 1964, bit.ly/47AiHC0.

[3] Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio, 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Feltrinelli, 2011, p. 82.

[4] Mao Tse-tung, Chi non fa inchieste non ha diritto di parola (1931), in Id., Opere, Edizioni Rapporti Sociali, 2007, pp. 131-132.

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