Gli insegnanti, la riflessione pedagogica e la Pedagogia
Premessa
In un recente articolo, il dirigente scolastico Stefano Stefanel sostiene la tesi secondo la quale gli insegnanti rifiuterebbero la Pedagogia perché impegnati nella strenua difesa delle discipline, che conferirebbero loro un “potere” a cui non vogliono rinunciare. Questa singolare tesi, oltre a presupporre un’idea ben poco lusinghiera degli insegnanti, sembra basarsi sulla sicurezza che esista una pedagogia, incarnata ovviamente dall’autore dell’articolo e da tutti coloro che la pensano come lui: nella fattispecie, da coloro che ritengono la Pedagogia non una riflessione aperta sull’educazione, che preveda confronti e conflitti di interpretazioni, ma una scienza che conosce progressi oggettivi e dimostrabili e che procede attraverso il dato ultimo di “evidenze empiriche” indiscutibili.
Esula da queste osservazioni l’intento, che richiederebbe uno studio caso per caso, di mostrare come tante affermazioni “scientifiche” si basino spesso su sperimentazioni limitatissime, prive di controllo sulle innumerevoli variabili che l’educazione degli esseri umani presenta, e siano segnate da premesse ideologiche che portano qualche ricercatore a effettuare un attento cherry-picking tra dati e teorie, per trovare conferma a ciò che vuole dimostrare. Quello che interessa qui affermare è che gli insegnanti non rifiutano affatto la riflessione pedagogica — d’altra parte insita nel loro lavoro quotidiano — al contrario di quello che sembra pensare Stefanel, che pone nel cuore dell’insegnamento un’assurda scissione tra disciplinarismo e pedagogia; ciò che rifiutano è, appunto, l’imposizione di una pedagogia scollegata dalla realtà e dalla loro esperienza educativa, imposta più o meno violentemente dalla burocrazia ministeriale, di cui riconoscono l’astrattezza, il carattere ideologico e la scarsa congruenza con la natura e le finalità del proprio lavoro. La pretesa infatti di incarnare la Pedagogia offre una comoda scappatoia rispetto alla domanda che dovrebbe essere ineludibile per insegnanti ed educatori: quale pedagogia? O anche: per quali finalità? E ancora: rispondente a quale idea dell’essere umano? Domande che hanno a che fare con il pensiero, che nessuna sedicente evidenza empirica può sostituire.
Non è possibile ignorare il fatto che nell’àmbito della riflessione pedagogica si registra una molteplicità di posizioni che conducono anche a idee opposte su ciò che l’educazione dovrebbe essere. Tra le sole pedagogie democratiche, che si soffermano sul carattere emancipativo della scuola, troviamo le posizioni più diverse: per averne un’idea è molto utile leggere ad esempio il recente saggio di Christian Laval e Francis Vergne, Educazione democratica[1]. In generale, basterà accennare a questioni di notevole ampiezza e complessità, come quella che riguarda il rapporto tra istruzione ed educazione, la cui definizione è tutt’altro che scontata; o alla possibilità di porre alla base della riflessione pedagogica un frettoloso cognitivismo-comportamentismo, o visioni più ricche e articolate dell’essere umano, come quella offerta dalla psicoanalisi, per comprendere come qualunque pretesa di incarnare da esperti la scienza pedagogica sia piuttosto spericolata.
Vale la pena soffermarsi quindi su due posizioni che vengono presentate, nel dibattito (o non-dibattito) pubblico sulla scuola, come scientifiche e auto-evidenti: quella riguardante la necessità del superamento di una presunta didattica trasmissiva unidirezionale; e quella sulla altrettanto presunta dannosità dei voti, a prescindere dalle intenzioni con cui vengono assegnati, dal contesto, e dalla situazione educativa.
Sulla (presunta) didattica trasmissiva
Per quanto riguarda la didattica trasmissiva, sono innumerevoli le prese di posizione che, a partire dall’attivismo pedagogico di John Dewey, non di rado estremizzato, deformato e strumentalizzato, denunciano la presunta inefficacia dell’insegnamento fondato sulle spiegazioni degli insegnanti e sulla trasmissione delle conoscenze. In un recente documento l’Associazione dirigenti pubblici e alte professionalità (sic!) della scuola, già Associazione nazionale presidi, parla dell’insegnamento, riferito al curricolo tradizionalmente conosciuto, in termini di «trasmissione descrittiva e di tipo statico e oggettivo». Queste parole ci permettono di mettere a fuoco un punto essenziale. Posto che ci si potrebbe proficuamente interrogare sulle caratteristiche dei curricoli, anche in un’ottica verticale tra ordini, non si comprende però che cosa legittimi l’attribuzione alla trasmissione delle conoscenze e al suo strumento di elezione, la sempre più demonizzata lezione frontale, le connotazioni di unidirezionalità, di staticità e di passività da parte degli studenti? C’è qui un passaggio che si vuole dare come autoevidente, ma che in realtà non lo è affatto: perché mai la proposta di contenuti da parte di chi ne ha una conoscenza oggettivamente più ampia dovrebbe escludere l’interazione, la comunicazione in tutte le direzioni e a tutti i livelli, l’elaborazione comune di interpretazioni attorno a quei contenuti? Perché la classe non dovrebbe diventare una “comunità interpretante” (per riprendere la centratissima definizione di Romano Luperini) attorno ai contenuti introdotti dal docente? E chi altro potrebbe introdurre questi contenuti, se non chi ha già consapevolezza della loro esistenza e della loro eventuale progressività? Su cosa si basa la relazione tra insegnanti e gruppo classe, se non su un lavoro comune attorno a queste conoscenze di cui l’insegnante è portatore, pur consapevole della loro parzialità e incompletezza, e che prendono vita, vengono attualizzate nel momento stesso della loro proposta alla classe? Chi accusa gli insegnanti di trasmettere nozioni a un uditorio passivo e di identificare la lezione con una comunicazione unidirezionale, lo fa perché probabilmente non ha ben compreso la differenza che esiste tra nozioni e conoscenze: chiuse in sé le prime (ammesso che possa esistere una pura nozione di questo tipo: di fronte al semplice dato “la Prima Guerra Mondiale scoppia nel 1914” o “la somma degli angoli interni di un triangolo fa sempre 180 gradi” le immagini mentali, le fantasie e i ragionamenti corrispondenti saranno davvero uguali per tutti?); aperte le seconde al lavoro interminabile della rielaborazione, dell’interpretazione, dell’attualizzazione.
Infine, chi ha detto che l’ascolto, da parte degli studenti, non sia esso stesso un’attività? Su questi argomenti, la riflessione pedagogica attuale è andata ben oltre i luoghi comuni riproposti, quelli sì passivamente, da attardati pedagogisti nostrani. Bastino tra tutte le parole illuminanti di Gert Biesta:
Negli ultimi vent’anni, in numerose pubblicazioni accademiche e documenti di ‘policy’ dell’insegnamento, è apparsa spesso la tesi secondo cui il cosiddetto insegnamento tradizionale — un’organizzazione dell’educazione tale per cui l’insegnante parla e gli studenti dovrebbero ascoltare e assorbire passivamente informazioni — è da considerarsi obsoleto. D’altra parte, un approccio presumibilmente più moderno, incentrato sulla facilitazione […], è considerato buono, desiderabile e “d’avanguardia”. Si noti come l’opposizione fra “tradizionale” e “d’avanguardia” sia già di per sé stantia, e non dovremmo nemmeno dimenticare che criticare l’insegnamento tradizionale è, oggigiorno, una mossa tradizionalista […]. Inoltre questa critica sembra avere poco mordente, perché anche laddove gli insegnanti parlino e gli studenti siedano in silenzio, in realtà, questi ultimi stanno comunque compiendo numerose azioni […]. A tal proposito, sono pienamente d’accordo con l’osservazione di Virginia Richardson, secondo la quale “gli studenti conferiscono significato anche alle attività cui vanno incontro nel contesto di un modello di insegnamento trasmissivo”.[2]
D’altra parte, del carattere conformista e superficiale di alcune critiche all’insegnamento tradizionale, basate su formule astratte in nome di una innovazione che scambia mezzi e fini, abbiamo una corrosiva e precoce denuncia nell’opera di un grande scrittore quasi dimenticato come Lucio Mastronardi:
Le lezioni le tiene una professoressa di pedagogia. “Cari maestri, mettetevi in mente che il fanciullo non è un vaso da riempire…” esordì la professoressa. “Ma un vaso da vuotare!”, sghignazzò Nanini […] La professoressa si irritò: “Ma un focolare da accendere”, disse […]. Si ricordi che sta parlando con una funzionaria del gruppo A…” […]. “Una lezione sul ferro per la quarta elementare […]. Come farebbe lei a spiegare il ferro?”, domandò a una maestrina. “Guarderei quello che dice il sussidiario”, rispose la maestrina. “Ah!”, urlò quella con una faccia disgustata, “il libresco! Ancora il libresco! Per fare una lezione sul ferro cominceremo a portare la scolaresca a casa di un minatore!”. “Impossibile, urlò Nanini, “a Vigevano non ci sono i minatori!”. La professoressa dopo un momento di smarrimento si riprese: “Quando andate a fare le gite scolastiche, scegliete un luogo dove ci siano minatori…”.[3]
Gli stessi luoghi comuni della critica alla didattica trasmissiva vengono riproposti meccanicamente, senza passare attraverso alcuna elaborazione culturale o prospettiva storica, nel confuso documento di ANP sopra citato: «Una scuola quindi più orientata al fare, ad approcci innovativi di apprendimento/ insegnamento, alla pratica laboratoriale come valore in sé e non solo come possibilità di mettere in pratica ciò che si è imparato». Troviamo qui, ancora una volta, l’assurda scissione tra lezione ed esperienza, come se la lezione non fosse anch’essa, in sé, un’esperienza altamente significativa.
Sulla (presunta) dannosità dei voti
L’altro grande tema su cui di recente una sedicente Pedagogia ha preteso di dire l’ultima parola, attraverso presunte evidenze empiriche, è quello della valutazione e del voto. Alcuni pedagogisti, impegnati nella battaglia per l’abolizione dei voti in tutti gli ordini di scuola, ne hanno di volta in volta denunciato l’inutilità, la dannosità, fino alla recisa affermazione «i voti bloccano l’apprendimento».
A favore di una così impegnativa dichiarazione sono state citate limitatissime ricerche di area anglosassone, e si è fatto cenno a sperimentazioni future, di cui però sarebbero già prevedibili i risultati (a conferma del fatto che quando si vuole si trova sempre ciò che si cerca). Ecco, la frase «i voti bloccano l’apprendimento» è un ottimo esempio di ciò che la pedagogia non dovrebbe essere: trasformare legittime riflessioni e istanze, che si inseriscono in un dibattito aperto e plurale (ad esempio sull’utilità o meno del voto), in evidenze “scientifiche” oggettive e indiscutibili, significa compiere una forzatura che squalifica le stesse scienze dell’educazione e le pone potenzialmente al servizio di qualunque operazione politica o ideologica.
Di un uso spericolato delle scienze umane a conferma di tesi precostituite, d’altra parte, la storia ci offre fin troppi tristi esempi; e un vero scienziato chiederebbe a chi fa recise affermazioni sulla dannosità dei voti se, nell’interpretare gli eventuali dati portati a sostegno di ciò che si dice, si sia tenuto conto di tutte le possibili variabili. Si scoprirebbe allora che le variabili, nel contesto educativo, sono così numerose da impedire qualunque affermazione assoluta, che prescinda dalla situazione particolare a cui si riferiscono. La dannosità o meno del voto, ad esempio, non può non avere a che fare con l’età la personalità degli studenti, con la situazione, con la qualità della relazione tra studenti e insegnanti, con la finalità e la modalità con la quale e per la quale il voto viene assegnato… L’elenco potrebbe continuare a lungo e riguarda anche i significati di cui, a prescindere dalla scuola, una società ipercompetitiva satura il voto, che rischia di precipitare nelle classi con una carica simbolica spesso del tutto aliena al contesto educativo.
La pretesa di incarnare la scienza sembra invece un facile modo per sottrarsi a obiezioni, confronti e conflitti di interpretazioni, e sostituire il pensiero e la riflessione con presunti fatti. Soprattutto, è un ottimo escamotage per evitare l’emersione nel dibattito delle proprie motivazioni politiche o ideologiche, oltre che di eventuali motivazioni pratiche che spingono verso l’attuazione di alcune scelte, che vengono occultate dietro una finta neutralità scientifica. Quando si dice, ad esempio, che gli insegnanti vogliono assegnare voti per sadismo o per desiderio di potere, si sta dando un’interpretazione piuttosto arbitraria della vita scolastica, a cui è del tutto legittimo opporne un’altra, quella secondo la quale l’assegnazione dei voti corrisponde a un’esigenza di chiarezza e di non confusività che parte dallo stesso bisogno delle persone in crescita. Come scrive lo psicoanalista Alessandro Zammarelli:
Una descrizione che non sia mai accompagnata dalla chiarezza di un voto può creare negli studenti una certa difficoltà a sintetizzare in un simbolo delle vicissitudini scolastiche complesse, come complessa è la loro identità, e un disorientamento senza appigli che non ha niente di evolutivo, mentre semmai appaga un certo pensiero pedagogico che si pone solo dal punto di vista degli adulti, senza tenere in conto la specificità dei bisogni delle persone in crescita.
Allo stesso modo, un confronto pubblico sul tema della valutazione che non sia fatto di affermazioni apodittiche della scienza chiarirebbe che non c’è motivo per cui voto e valutazione formativa debbano escludersi a vicenda: anzi, il voto, o un giudizio, per avere un’utilità devono poter essere compresi da chi li riceve; il che presuppone che non possa esistere nessun voto valido che non sia accompagnato da una spiegazione esauriente da parte dell’insegnante, nell’ambito della relazione educativa. È questo che la riflessione pedagogica dovrebbe semmai ribadire con forza. L’immagine dell’insegnante sadico che affibbia voti — naturalmente negativi — senza spiegarli, solo per il gusto di farlo, è invece uno straw man argument che ha poca o pochissima rispondenza con la realtà, e serve solo a rafforzare artificialmente la posizione di chi lo propone; così come sostituire l’insegnamento con “ambienti di apprendimento innovativi” richiede l’attivazione caricaturale di un’immagine di lezione frontale unidirezionale — pura trasmissione di nozioni — di cui sarebbe difficilissimo trovare esempi nelle nostre scuole.
E ancora: rendere sintetica, confrontabile la valutazione attraverso il voto o il giudizio (sempre accompagnato da adeguate spiegazioni) non è necessariamente legato alla promozione della “meritocrazia”, ma può essere un modo per mettere in prospettiva la crescita culturale dello studente, prefigurando spazi di miglioramento senza inchiodarlo a una descrizione schiacciata sullo stato di fatto, come ha scritto Davide Viero.
Infine, se il dibattito pubblico fosse veramente aperto e disinteressato, basato su un reale confronto, chi propone l’abolizione dei voti dovrebbe rendere conto del caos che l’abolizione di voti e giudizi ha provocato nella scuola primaria. Dovrebbe poi spiegare dettagliatamente come tale abolizione possa conciliarsi con il mantenimento del valore legale del titolo di studio e, prima ancora, se ritiene positivo tale valore. Non basta, come fatto recentemente in un comunicato del “Coordinamento per la valutazione educativa”, precisare che si vogliono abolire i voti intermedi, non quelli di fine percorso: se il voto è dannoso per gli studenti, come si può non pensare che un voto negativo assegnato a fine percorso sia molto peggiore di una serie di indicazioni chiare date nel corso dell’anno, quando è ancora possibile aggiustare il tiro e cambiare direzione?
Conclusioni
Resta da porsi una domanda: cosa significa la tendenza a porre la Pedagogia come scienza oggettiva, di cui si è tentato di dare qui qualche esempio? C’è da dire che negli ultimi anni abbiamo assistito, in molti campi dell’attività umana, alla sostituzione del pensiero e della riflessione con dati di fatto che si presentano come oggettivi senza esserlo, attraverso un’operazione di occultamento delle premesse ideologiche, politiche ed economiche che stanno dietro a quelli che non sono fatti inevitabili (secondo il violento principio liberista del “there’s no alternative”) ma frutto di precise scelte. Probabilmente nel campo dell’educazione stiamo assistendo allo stesso processo. Su questo, possiamo lasciare brevemente la parola a chi, tra i tanti, ha riflettuto a lungo sull’argomento:
l’apprendimento sembra essere al servizio di un’economia capitalista globale, che ha bisogno di forza lavoro flessibile e adattabile. In tale contesto, l’apprendimento è descritto come un atto adattivo, senza che ci si chieda a cosa ci si dovrebbe adattare e perché, prima di ‘decidere’ di farlo. La ‘libertà di apprendere’ dell’individuo […] sparisce, così come è assente una concezione dell’apprendimento al servizio della democrazia […]. L’apprendimento diventa un dovere al quale non ci si può sottrarre, il che conferisce una sfumatura ironica alla parola lifelong presente nell’espressione lifelong learning.[4]
«Nella costruzione delle ‘competenze’, i pedagogisti arrivano a giochi già fatti. Il loro ruolo prevalente è diventato quello di fornire — a posteriori — un quadro teorico di riferimento a un concetto che nasce, come abbiamo visto, su un terreno diverso rispetto a quello educativo. Per renderlo credibile, si cerca di costruire intorno ad esso una genealogia, alla ricerca di radici antiche e padri nobili, senza preoccuparsi troppo dell’eterogeneità delle correnti di pensiero chiamate in causa. Lo scopo è piuttosto quello di fornire una narrazione che ‘concili l’inconciliabile’, di legittimare il fatto che l’orientamento delle politiche educative sia spostato dal complesso delle dinamiche sociali a una loro declinazione specifica ed esclusiva: l’economia e l’impresa»[5], per cui «il neoliberismo scolastico ha fatto proprie le critiche alla pedagogia tradizionale sviluppando un’agenda “alternativa” finalizzata alla formazione del capitale umano messo al servizio dell’“economia della formazione”»[6].
Gruppo La Nostra Scuola
[1] Christian Laval e Francis Vergne, Educazione democratica Aprilia, Novalogos, 2022 (Éducation démocratique, Paris, Edition La Découverte, 2021.
[2] Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2022, pp. 56-57.
[3] Lucio Mastronardi, Il maestro di Vigevano, Torino, Einaudi, 1962, pp.112-113 (passim).
[4] Gert J.J.Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022, p. 43.
[5] Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Bari-Roma, Laterza, 2019, pp. 25-26.
[6] Christian Laval, Francis Vergne, Educazione democratica, Novalogos, 2022, p.156.
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Direttore
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Redazione
Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato
Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Ho apprezzato l’articolo, ben scritto, con chiarezza. Mi dispiacciono solo due cose. La prima. La paura di giungere a dire che la pedagogia è una pseudo disciplina, che vende aria fritta, poiché essa deve e può serenamente essere riassorbita da tutte le discipline (come teoria della conoscenza, psicologia o morale) che regolano i rapporti tra adulti che imparano. La seconda. La paura, il terrore dell’autore di discostarsi dal canone progressista dominante, che mette sotto accusa il merito nella scuola ed altrove. Questa posizione in spregio al senso comune è certamente un assist involontario a chi si batte per eliminare i voti a scuola
Sono Stefano Stefanel e ho trovato molto interessante l’argomentazione anche se le tesi potevano essere sostenute senza caricarle di aggettivi denigratori nei confronti di quello che io sostengo. Non sono d’accordo sull’impostazione e sulle tesi sostenuta, ma questa non credo sia una sorpresa. Mi spiace solo che mi si attacchi pesantemente ma non si mettano in nota gli articoli su cui sono stato attaccato. Così magari qualche lettore può leggerli a farsi un’idea. Sono così pessimo che devo essere confutato, ma non citato come in questi casi si usa fare.
Forse lei non ha percepito quanto sovraccarica e quanto ostile sia stata la sua intemerata contro i docenti. Ho letto il suo articolo, ho letto questo e non posso dire di essere del tutto d’accordo con Malgioglio, ma per la miseria, ho apprezzato che Malgioglio abbia riportato il dibattito su un piano diverso dal semplice scarico di frustrazione.
Sono un docente, non amo particolarmente il voto numerico in itinere (più per l’”in itinere” che per il “numerico”), non mi ritrovo nelle tirate contro il neoliberismo e sono convinto che la psicologia cognitiva contemporanea stia facendo un gran lavoro per capire come funziona l’apprendimento e come si possa strutturare la didattica per ottimizzarlo.
Non penso però che rovesciare una materia vaga come educazione civica, mal definita, di impianto moralistico, spezzettata nel lavoro disperso di tanti docenti diversi, senza un curriculum opaco e pulviscolare, possa essere accolto con buona grazia da qualunque docente che abbia a cuore il suo lavoro. Non prendere in considerazione gli enormi problemi che l’educazione civica pone -in termini di costi/benefici, efficacia didattica, costruzione del curricolo, ecc.- e scontare tutte le critiche in maniera così acrimoniosa è francamente stupefacente.
Inoltre: la differenza tra discipline non riguarda le classi di concorso, ma il fatto che l’infinita mole del sapere umano, anche soltanto quello di base, si gestisce meglio articolandolo in aree e argomenti che per comodità chiamiamo “materie”.
Non uso il voto come strumento di potere, cerco di fare valutazione formativa e riflessione meta-cognitiva continuamente, però sono perfettamente consapevole che l’istruzione è anche trasmissione di conoscenze. È così da prima che inventassimo la scrittura ed è ciò che ci distingue dall’eterno presente degli altri animali.
A buon rendere.
La polemica tra pedagogismo e disciplinarismo è davvero stucchevole e autoreferenziale, tutta interna al mondo della scuola, lasciando fuori quel che davvero conta ed è sotto gli occhi di tutti: gli insegnanti sono una categoria professionale che versa in pessime condizioni, da tanti punti di vista, compreso il fatto che non siano nella maggior parte dei casi in grado di svolgere il compito loro assegnato. Colpa loro o del sistema che non li mette nelle condizioni di farlo? Entrambe le cose. I filo-pedagogisti danno la colpa all’impostazione tradizionale della scuola, i disciplinaristi alle riforme che l’hanno coinvonta negli ultimi decenni e con questo scambio di accuse incrociate vanno avanti… anche basta! Fatto sta che su dieci insegnanti ce ne saranno tre-quattro che raggiungono livelli accettabili. Altrettanti fanno danni enormi. In mezzo la massa che oscilla. Colpa dei tagli alla scuola? delle riforme? del tradizionalismo? Purtroppo il cattivo insegnante si nasconde a seconda dei casi dietro un pedagogismo d’accatto o dietro un tradizionalismo ottuso e autoritario e hai voglia a continuare a dibattere… il problema è che rimane un cattivo insegnante ed è in nutrita compagnia.
Dovrebbe essere chiaro che, se la domanda specifica sullo statuto epistemologico e sul grado di falsificabilità della pedagogia è inscritta nella domanda più generale sulla funzione della scuola, allora essa (esse) va posta (vanno poste) in modo storico e che, non appena ciò accade, emerge in modo prepotente la natura di classe di questa problematica. Emerge, cioè, la natura contraddittoria della scuola in quanto espressione dei conflitti e degli antagonismi sociali: ecco perché la scuola rappresenta qualcosa di diverso a seconda che venga inserita in un progetto alternativo che ha la sua radice oggettiva nella sfera produttiva oppure che sia sganciata da esso e sublimata su un piano meramente intersoggettivo (e dunque pedagogico in senso deteriore). Se invece noi consideriamo come protagonisti della scuola semplicemente gli individui con i loro progetti di vita, ecco che le soggettività collettive, le classi, le forze sociali, scompaiono dall’orizzonte e la scuola perde il proprio aggancio ad un’idea di trasformazione della società che investa i metodi e i contenuti, la qualità e gli sbocchi della riproduzione del sapere, e che è irriducibile ai progetti riformatori della pedagogia di sinistra, laddove questi, essendo sempre incentrati sui problemi relativi ai diritti e alla loro violazione, alla discriminazione e all’inclusione, finiscono con l’occupare l’intero orizzonte della riflessione politica. D’altro canto, il fatto di focalizzare la natura conflittuale di ciò che avviene nella scuola come riflesso di ciò che avviene nella società dovrebbe spingere chi riflette sulla scuola, quale che sia il livello in cui ciò avviene, ad uscire dall’ottica formale, metodologica e ortopedica della pedagogia e a reintrodurre le questioni politiche, la storicità e la determinazione sociale del sapere nel dibattito educativo. In altri termini, vi è bisogno di un’ottica che, per essere progressista, dovrebbe tornare ad essere materiale e tendere a individuare gli elementi strutturali che determinano il contesto in cui le relazioni accadono, rendendole possibili. Quindi, se da un lato occorre, come si è auspicato a suo tempo, “riscolarizzare la scuola” liberandola dalla paccottiglia utopistica e regressiva dell’antipedagogia di matrice sessantottesca, dall’altro è fondamentale mantenere la tensione tra scuola e società senza ridurre i problemi scolastici a problemi didattico-relazionali. Il punto è che la durezza granitica dei rapporti di produzione blocca in partenza e distorce ogni tentativo di modificarne gli effetti a partire dalle relazioni infrascolastiche: le proposte pedagogiche (ad esempio, quelle riguardanti il voto) possono certo modificare questo o quell’aspetto, rendere più inclusiva la scuola sotto questo o quel punto di vista. Ma ogni volta che la causa dell’esclusione si lega ai rapporti di classe ecco che il limite dell’intervento pedagogico diventa evidente e negarlo ci proietta direttamente nelle sfere sublimi dell’idealismo e dell’utopismo, nel sogno ad occhi aperti di una democratizzazione senza conflitto o di una retorica astrattamente ideologica dei diritti. Sennonché la radice del male (dei mali) non sta nell’assenza dei diritti, ma nel capitalismo.
Gentile Stefanel, non mi sembra di aver usato parole offensive nei suoi confronti; preciso comunque, se ce ne fosse bisogno, che la mia critica si appuntava esclusivamente sulle sue parole (che ciascuno può leggere liberamente, visto che sono riportate nel link), non certo sulla persona: ma sembra ormai consuetudine scambiare il confronto anche aspro e la critica argomentata delle idee con un attacco personale; sembra anche che l’unica critica ammessa nel dibattito sulla scuola sia quella continua e unidirezionale all’operato degli insegnanti, su cui tanti si esercitano, come se l’insegnamento fosse un lavoro privo di difficoltà (spesso indotte) e di meriti.
Per come conosco la scuola, la spinta degli insegnanti a dare istruzione e conoscenze
agli studenti non ha affatto alla base un desiderio di potere (desiderio riscontrabile invece in molti altri luoghi e situazioni) ma la consapevolezza dell’importanza vitale della condivisione dei saperi, nell’esclusivo interesse della crescita umana e culturale delle nuove generazioni.
Per quanto concerne la formazione, l’innovazione e l’aggiornamento degli insegnanti, può essere opportuno rammentare una delle misure culturalmente più oscurantiste e professionalmente più regressive adottate, in nome della riduzione della spesa pubblica, dal secondo governo Prodi (2006-2008), sottolineando nel contempo che di tale misura improvvida e controproducente l’opinione pubblica fu tenuta del tutto all’oscuro: la soppressione dell’Indire (Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa) e degli Irre (Istituti Regionali di Ricerca Educativa). Sia i sindacati della scuola (tutti, nessuno escluso, dai confederali, che furono negli anni ’70 e ’80 fra i principali sostenitori della costituzione degli Irre, ai sindacati di base, dallo Snals alla Gilda) sia le associazioni professionali degli insegnanti (dal Cidi all’Uciim e a Ds) sia il ministro Fioroni non fecero una piega e non trovarono alcunché da obiettare ad un provvedimento che era in totale contrasto con la linea del rilancio e del potenziamento del sistema pubblico della ricerca educativa indicata, solo pochi anni prima, dal Dpr n. 190 del 6 marzo 2001 (provvedimento adottato, fra l’altro, da un governo di centro-sinistra), oltre che con il reclutamento del personale tecnico degli Irre, che fu posto in atto, per periodi di tempo variabili fra i tre e i cinque anni, mediante un concorso svoltosi nel 2004 fra gli insegnanti interessati a fare un’esperienza di ricerca e di formazione in campo educativo. Va detto che la chiusura degli Irre non solo tolse una preziosa opportunità professionale e culturale agli insegnanti italiani, ma si ripercosse altresì sulle scuole che avevano partecipato ai progetti avviati dagli Irre, progetti che furono interrotti e non più ripresi. Essa arrecò, inoltre, un grave danno alla stessa autonomia delle scuole, pur tanto decantata a parole (ma vanificata nei fatti) dalla retorica ministeriale e governativa, in quanto le privò dell’azione di supporto, di sostegno e di stimolo svolta dagli Irre sul terreno della ricerca educativa e della formazione degli insegnanti. Altrettanto grave fu, infine, il danno che venne inferto alle prospettive del sistema pubblico della ricerca educativa nel nostro paese con il chiaro intento di promuovere e incoraggiare la penetrazione delle agenzie formative private all’interno della scuola.
Condivido il commento di Eros Barone. Sopprimere gli IRRE è stato un crimine culturale.
In questa interessante analisi e nel dibattito complessivo manca il sottolineare che l’ idea di scuola ” innovativa” al servizio delle lobby della formazione è strettamente correlata all’ eliminazione dei voti: va da sé che la debug della prima, per non essere palese, deve prevedere l’ assenza di una valutazione numerica che è particolarmente esplicita e comprensibile a tutti. Credo che i fautori della scuola del petaloso intrattenimento abbiano cominciato a prendere atto che qualcuno stia aprendo gli occhi sull’ imbonimento che hanno perpetrato per anni e stiano correndo ai ripari con l’ attacco alla valutazione. Se il fallimento non appare non c’ è. Questo è.
sono anni che dico-dove insegno e fuori- queste cose, accolto da indifferenza. Poi dopo un po’ di boutade varie dall’alto (un alto basso, medio , altissimo) incontri nei corridoi colleghe/i “come avevi ragione, ma che roba!” etc. . C’è un piccolo particolare: questi colleghi sono i meno assenti, i più impegnati, quelli che ottengono i risultati migliori… bah! Mi spiace per Stefanel, ma le controrisposte hanno ragione: l’insegnante autentico e esperto è disprezzato, paternalisticamente indottrinato (o per lo meno, si tenta di farlo), poi, di fronte a roba tosta che cita libri, posizioni, fatti, si fa marcia indietro. La comunicazione è un’opinione solo a livelli quotidiani e bassi; in altri ambiti deve essere rispettosa, attenta e molto meno AUTOREFERENZIALE. Paolo – SP