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La morte di Pinelli. Iconografia di una strage: la radiografia di un’epoca

Quella sera a Milano era caldo

ma che caldo, che caldo faceva.

«Brigadiere, apra un po’ la finestra»

 ad un tratto Pinelli cascò.

Sono passati cinquantatré anni dalla notte del 15 dicembre 1969, quando il ferroviere Giuseppe Pinelli precipita dal terzo piano della Questura di Milano perdendo la vita. Quel tragico evento, collegato con la strage di Piazza Fontana, segna l’avvio di un decennio scadenzato da omicidi, violenza e terrore. Eppure, quell’epoca fu caratterizzata anche da una diffusa vitalità politica e culturale, letta però sempre in rapporto ossimorico, senza la possibilità di operare una sintesi che restituisca, prima di tutto sul piano storico, una narrazione complessa. Tra gli inciampi della memoria, sempre più veicolata da un’informazione tesa a privilegiare l’effetto emozionale con accenni moraleggianti, la figura di Pinelli continua a emergere come controcanto della brutalità del potere, delle macchinazioni e dei soprusi, da cui è possibile ripartire per articolare una riflessione che non operi un restringimento di campo, ma restituisca le dinamiche storiche nella loro completezza.

Dalla notte del 15 dicembre parte il saggio di Lucia Pessina, La morte di Pinelli. Iconografia di una strage, edito da Quodlibet, che si pone l’obiettivo di studiare il panorama artistico-iconografico legato alla figura del ferroviere anarchico, «attraverso l’analisi di dipinti, mostre d’arte, film, spettacoli teatrali, libri, manifesti e fumetti comparsi fra il 1969 e il 1975». Il taglio cronologico scelto è particolarmente rilevante nell’evidenziare fin da subito una serie di questioni significative del periodo trattato: da una parte il ’75 rispetta una cesura storica ormai consolidata, che divide in due il decennio, tra l’iniziale spinta rivoluzionaria e la violenza seguente efferata che avrebbe portato alla degenerazione le istante politiche iniziali – di ciò sarebbe testimonianza anche l’affievolimento della figura di Pinelli nel panorama culturale; dall’altra il quinquennio preso in considerazione rappresenta una parabola di breve durata, durante la quale si respira una permeabilità tra i campi del vivere sociale che unisce senza soluzione di continuità di gesto politico con quello artistico. La periodizzazione proposta si giustifica quindi con la volontà di intrecciare lo sfondo storico con il materiale artistico che, sebbene eterogeneo, converge nel delineare una rappresentazione ben precisa di Pinelli: quella del martire, corredata con tanto di attributi identificativi del luogo e degli elementi della morte, veicolata da una narrazione piuttosto uniforme, se non altro nelle conclusioni e nelle finalità, tesa a denunciare la morte dolosa (non un suicidio) del ferroviere. Icona di un’epoca, la figura di Pinelli finisce per ricoprire una funzione metastorica, incarnando i molti anarchici uccisi nel corso dei decenni (si veda la conclusione del corto Tre ipotesi sull’omicidio di Pinelli) e allo stesso tempo i segni della sua morte si ritrovano anche in storie del passato (come in Sacco e Vanzetti). Con il passare degli anni quindi Pinelli diventa il centro di una pragmatica politico-artistica tesa a evidenziare l’onnipresenza del sopruso e delle derive fasciste nella società italiana, fondendo l’intendo didascalico con il piano simbolico.

Il saggio di Lucia Pessina, per quanto sia focalizzato su Pinelli, si apre alla ricostruzione del panorama culturale segnato da percorsi artistici diversi, basati però sulla comune ricerca di una coscienza politica collettiva: in ragione di ciò, escluso il caso di Enrico Baj, a cui è dedicato interamente il capitolo 1972, l’autrice non opera una differenziazione dei profili, per privilegiare la coralità dell’agire politico. Si compone un quadro in cui ogni parte è leggibile singolarmente ma che acquista pregnanza proprio all’interno di un racconto plurale, in divenire, che non vuole chiudere ma rilanciare il dibattito e estendere l’azione politica, in testimonianza di una vitalità solo successivamente stroncata. Era il tentativo di plasmare l’intervento intellettuale, equilibrando il bisogno di denuncia con la trasposizione artistica: anche in ragione di ciò, le opere trattate comunicano ancora oggi una potenza espressiva oltre la soglia del mero evento storico, senza, ripeto, dimenticare l’accaduto. Non è difficile notare un disallineamento rispetto all’edonismo e al narcisismo dell’epoca presente, dominata dall’io e dal ricorso a narrazioni che esauriscono il loro potenziale nel giro di poche settimane. È da questa distanza siderale che è possibile comprendere il valore storico-sociale delle opere analizzate, che funzionano sia come sonda dell’immaginario politico, sia come fonte storica che ci permette di ricostruire quegli anni.

L’analisi del materiale segue pertanto il decorso degli eventi successivi a Piazza Fontana, di pari passo con le vicende personali dei singoli protagonisti, da Pio Baldelli a Enrico Baj, che hanno affrontato la denuncia, i processi e i tentativi di censura. Dalla ricostruzione emergono le caratteristiche principali dell’epoca, attraverso le quali poter interpretare tanto le rappresentazioni artistiche su Pinelli, quanto le modalità di abitare lo spazio culturale, non dimenticando i canali di distribuzione e le modalità di fruizione. Per quanto ogni lettura retrospettiva rischi di assolutizzare un approccio deduttivo, ciò non deve scoraggiare, e non scoraggia l’autrice, dal delineare i contorni del quinquennio, mettendo a sistema l’articolo di giornale, con le vignette satiriche di «Lotta continua», film, controinchieste fino ad arrivare alla pittura. Il dialogo tra storia e rappresentazione viene armonizzato con lucidità da Pessina, solo a tratti risulta appesantito dall’elevato elenco di dati che sono però un reperto prezioso per chiunque voglia studiare e approfondire il periodo. In conclusione, va segnalato il materiale documentario che correla il saggio, composto da un ricco repertorio di immagini e da un apparato di documenti molto interessanti.

Passati gli anni Settanta, Pinelli diventa icona dei soprusi del potere, della violenza stragista, fascista e statale, ma allo stesso tempo oggi non può non rappresentare per metonimia quella stessa stagione, con il suo portato di problemi, di questioni irrisolte, tanto vitale quanto violenta. Nella speranza che il suo nome rimanga vivo per le generazioni future, la memoria di quel passato e dell’agire politico, che trova nella comunità e nella complessità artistica la sua cifra identitaria ed espressiva, deve fare i conti con il presente ormai mutato: la sua figura rimane la pietra d’inciampo capace di indicare la strada per quella conciliazione storica da molti invocata, senza però ricorrere a bozzetti emozionali e senza annacquare il contesto storico, ma fedele alla convivenza tra arte e politica, come si evince dal libro di Pessina.

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