«Paradigma allusivo» e «paradigma obiettivante»
I difetti di una valutazione “soggettiva” sono noti a tutti, anche ai non insegnanti, che ne hanno fatto esperienza diretta da studenti: la stereotipia (il diligente Stefano gode di un credito inscalfibile e prende 8 anche la volta in cui meriterebbe 6), l’«effetto alone» (il voto di Giulia stinge su quello della geniale Federica, sua compagna nell’interrogazione; ma Giulia, a parità di prestazione, la volta successiva verrà valutata diversamente, perché sarà confrontata con il pessimo Luca), l’opacità, che può, talvolta, sfociare in vero e proprio arbitrio (il professore è umorale e incoerente, così che lo studente non sa come prepararsi, perché non può compiere un’operazione essenziale a ogni essere umano, fare previsioni di regolarità).
Credo sinceramente che questi difetti siano a tal punto connaturati a questo tipo di valutazione che quasi tutti i giudizi espressi dentro le aule scolastiche ne abbiano portato e ne portino lo stigma. Una bella ingiustizia. Per quale ragione generazioni di uomini e donne l’hanno tollerata? Probabilmente per due ragioni: rispetto per il prestigio e timore per il potere dell’istituzione scolastica e dei suoi funzionari, gli insegnanti (il professore dà il voto, è il suo mandato sociale, e lo studente si assoggetta alla valutazione); un clima di fiducia sociale, per il quale professori, allievi, genitori, condividevano abbastanza spontaneamente responsabilità e obiettivi, e che faceva sì che gli errori di valutazione e piccole ingiustizie fossero più facilmente assorbiti.
Non sfugge la dimensione simbolica di questo dispositivo: l’istituzione e il professore hanno il potere di coloro che sanzionano, redimendo o condannando; la valutazione è sintetica, olistica e lo studente tende a essere identificato, ed egli stesso a identificarsi, con essa (un tema cui si attribuisca un 3 secco, se il voto non è scomposto in fattori – contenuto e forma; ideazione, struttura del testo, morfologia, sintassi, … – significa “lo studente non sa l’italiano”, anzi, ancor meglio, “lo studente è ignorante in italiano / io sono ignorante in italiano”). Chiamerei questo paradigma di valutazione «paradigma allusivo».
Quando la scuola è (mediamente) in cattive condizioni come oggi, la prerogativa di valutare s’indebolisce: il 3 dato da un insegnante viene ignorato da chi vive l’istituzione come un carcere privo di senso, o contestato da chi, pur concedendole il valore strumentale di luogo in cui acculturarsi, non è più disposto a riconoscerle il potere e il prestigio tradizionali. Ma con la loro fine (da cui è venuto anche qualche bene, ad esempio l’indisponibilità degli studenti a subire in silenzio vere e proprie prevaricazioni), è venuto meno anche il clima di fiducia, sostituito da perplessità reciproche e infinite cautele, a volte vera diffidenza, concretizzate nella richiesta di trasparenza e di verificabilità, che, in termini un po’ più cinici, può anche essere definita richiesta di rendicontazione del proprio operato. Non è strano perciò che gli insegnanti, davanti a ciò, non disdegnino di approfittare sempre più spesso di un nuovo surrogato della vecchia autorità perduta: l'”oggettività”.
Sarebbe facile muovere obiezioni a quest’ultima affermazione: la nostra scuola, anzi, non ha ancora sviluppato a sufficienza una cultura della valutazione e della trasparenza (accountability), gli insegnanti sono ben lungi dal fare massiccio ricorso a valutazioni oggettive, i tentativi di introdurre forme di rilevazione standardizzate degli apprendimenti (Invalsi) provocano resistenze. Ma se guardiamo le cose più da vicino, ci accorgiamo che non è così, perché l'”oggettività” è ricercata assai spesso, almeno in questa forma: la verifica contiene dieci esercizi? Si attribuisce un punteggio a ciascuno di essi, si contano gli errori, si fanno i calcoli, e il voto viene da sé: incontestabile. Due più due fa quattro e la matematica non è un’opinione. Il vecchio giudizio era troppo sfumato e reversibile e in una società in cui l’angoscia della complessità chiede costanti rassicurazioni, l'”oggettività” funziona da contenitore di perplessità.
Chiamerei questo secondo paradigma di valutazione «paradigma obiettivante». (Parlo di paradigmi, cioè di astrazioni, che servono per orientarsi nell’analisi della realtà, perché è evidente che in essa non sia mai avvenuta una netta successione di fasi, né che la tendenza all'”oggettività” sia ovunque diffusa, né che la condivisione di obiettivi e responsabilità non sia ancora possibile).
Qualità e uniformità
Nel dare i voti, la logica qualitativa della valutazione soggettiva può risultare certo arbitraria, ma è anche flessibile, mentre la logica quantitativa di una valutazione oggettiva ha una sua tipica rigidità, dovendo esercitare una “forza” uguale in tutti i suoi punti di applicazione: il suo scopo infatti è l’uniformità. Prenderò ad esempio l’ortografia.
Nella nostra scuola gli errori ortografici sono stati per lunghissimo tempo quelli maggiormente sanzionati: probabilmente in un tema o in un dettato di qualche decennio fa (mettiamo nel tema o nel dettato di Giuseppe), un apostrofo dimenticato o un trigramma sbagliato potevano costare la sufficienza o almeno far calare drasticamente il voto. Ad essi si riservava, evidentemente, un’attenzione particolare, una qualità d’attenzione particolare. Ma se un esercizio sull’ortografia viene oggi inserito come prova fra altre in un test (l’ho visto fare e l’ho fatto io stesso) e si calcolano gli errori come parte (minima) del punteggio totale, il nipote di Giuseppe potrebbe prendere un bel 7 scrivendo «scenziato», «bellidea», «cuadro», «tré». Il peso, materiale e simbolico, dell’ortografia ne risulta evidentemente assai ridimensionato. Lungi da me il credere che sia questa la causa dell’incompetenza ortografica dei nostri studenti, ma una scelta come questa qualche conseguenza l’avrà. Di certo la sanzione sociale tremenda per quello che una volta era un vituperoso errore oggi si è mutata in un venticello fresco, di cui i nostri studenti si preoccupano poco.
Facciamo un altro esempio: il sistema dei voti. Tradizionalmente in Italia esso si è fondato su tre principi (ancora seguiti nelle interrogazioni orali). Primo. Il perno del sistema è il 6: si ha un’idea di cosa rappresenti la sufficienza e si attribuiscono i voti allontandosi da essa in entrambe le direzioni. Secondo. Ai voti alti non si fa ricorso: il 10 è un voto irraggiungibile, il 9 una rara eccezione, l’8, 8½ la massima aspirazione. Terzo (conseguenza del secondo). Gli intervalli tra un voto e l’altro non sono equivalenti, perché più ampi quelli intorno alla sufficienza (5-6 e 6-7) e sempre più stretti mano a mano che da questa ci si allontana. Detto in altri termini: la quantità di studenti che si attesta negli intervalli «5-6» e «6-7» è superiore a quella che si attesta negli intervalli«4-5» e«7-8», a sua volta superiore a quella collocata tra il 2 e il 3 e l’8 e il 9. Questa scala decimale adattata mette a disposizione degli insegnanti tre voti sufficienti (6, 7, 8) e tre insufficienti (3, 4, 5, essendo l’1 e il 2 per lo più l’extrema ratio della dura severità).
Specie per la mancanza di descrittori espliciti, questi voti hanno una evidente valenza allusiva, perché a ciascuno si associa un significato tacitamente condiviso: si pensi solo a quello di un eccezionale 9, a quello di un frustrante 5/6, a quello del famigerato 7+, a quello del tremendo 2, ecc…
Ma oggi, in concorrenza con questo, esiste un altro sistema, matematico, “oggettivo” (tipico degli scritti con esercizi). In esso il voto deriva dalla somma dei punteggi attribuiti a ciascuno degli esercizi: il punteggio pieno merita il 10 e si va poi scalando (lungo intervalli uniformi, uno uguale all’altro per ampiezza) fino a raggiungere, ipoteticamente, lo 0. In verità, si tende a non ricorrere più ai voti troppo bassi (certamente il 2, ma anche il 3. In alcune scuole medie in cui ho lavorato, si preferisce, se possibile, non ricorrere neanche al 4, che «non è facilmente recuperabile»). In questo sistema, è quindi possibile conseguire il 9 e il 10, specie se la verifica non è particolarmente difficile: basta fare “tutto giusto”. (Forse si può aggiungere che la maggior generosità di 9 e 10 dipende anche dalla reazione degli insegnanti italiani – bizzarro senso di colpa? – alla polemica, non troppo lontana, contro la loro avarizia valutativa, nonché, alle superiori, dall’introduzione del bizantino sistema dei punti dell’Esame di Stato, che in buona sostanza obbliga a ricorrere ai voti alti per non penalizzare troppo gli studenti).
In questo nuovo sistema le cose che sono cambiate sono diverse, e non sempre ce ne siamo resi conto. Innanzitutto il significato allusivo, tradizionale, tacitamente noto dei voti viene del tutto perso, sostituito da una mera somma matematica. Il numero in sé, infatti, non significa nulla, finché non corrisponde a una descrizione (di conoscenze, di competenze, di comportamenti, di prestazioni attesi) e se è venuta meno la “narrazione” tradizionale dello “studente da 4” e dello “studente da 7”, occorrerà definirne una nuova, tanto più che la scala dei voti sufficienti si è ampliata (che differenza c’è tra un 8, un 9, un 10?) e quella dei voti insufficienti drasticamente ridotta (che differenza c’è tra il 5 di Luigi e il 5 di Sofia, se quello è l’unico voto insufficiente cui si può ricorrere?). Se un sistema di valutazione è anche un sistema predittivo, nel senso che dovrebbe dirci cosa aspettarci in termini di conoscenze, abilità, competenze per ciascun voto, qual è la forza predittiva di questo sistema?
Valutare cose semplici e valutare cose complesse
Il significato dei “nuovi voti” dovrebbe dunque essere definito. È quello che cercano di fare quanti provano a scomporre in indicatori e descrittori le competenze, siano esse generali o specifiche di una disciplina. Ma il problema di definire cosa sia un competenza e, soprattutto, come rilevarla, misurarla, valutarla, certificarla è un problema enorme. Come ha scritto il professor Israel pochi giorni fa su questo stesso blog , sono pochissime le cose che si possono misurare accuratamente, oggettivamente. Prendiamo l’esempio dei testi scritti e torniamo brevemente all’ortografia.
La fissazione quasi esclusiva per quest’aspetto della lingua è stata considerata in passato (l’ha fatto Tullio De Mauro) una dimostrazione eloquente della normatività della pedagogia linguistica delle nostre scuole: la superficie della lingua, il suo aspetto più arbitrario e convenzionale (per Petrarca scrivere «ne gliocchi» e «radevolte» non era strano) era quello corretto più ossessivamente, a scapito magari di tratti più profondi, come la sintassi, la coerenza testuale, in generale la chiarezza, l’appropriatezza e la precisione. Credo che l’accusa sia in parte vera e in parte un po’ ideologica. La preoccupazione per un aspetto così materiale e circoscritto della lingua, più che con la normatività, forse si spiega meglio con il fatto che esso è facile da rilevare e misurare: l’errore ortografico è inequivocabilmente individuabile e altrettanto inequivocabilmente correggibile. Invece, mano a mano che si considerano i livelli più complessi della lingua, la valutazione si fa sempre più spinosa: come valutare un periodo in cui l’effetto di opacità sintattica e semantica dipende da una quantità di fattori che si sommano fra loro, e che non sempre è possibile sceverare uno dall’altro? e quand’anche essi potessero essere considerati partitamente, che peso si dovrebbe dare a ciascuno? A gettare la luce dell’intelligenza su queste lande buie si ottiene uno strano effetto: invece di aumentare, la chiarezza diminuisce, perché emergono aspetti di complessità sempre nuovi.
Dunque gli insegnanti non hanno mai valutato questi aspetti e si sono limitati a sanzionare la mancanza di qualche accento? Non direi. Io direi piuttosto che tali aspetti sono stati lasciati al giudizio sintetico, intuitivo dell’insegnante. Una scrittura inviluppata, contorta, dal lessico impreciso, difficilmente raggiunge la sufficienza, anche se se ne dà un giudizio all’impronta. Si prenda ad esempio questo periodo, tratto dal testo fantastico di uno studente di prima liceo che cerca di descrivere la trasformazione di un vicino di banco in uccello:
Ora è a tutti gli effetti un uccello e lo si può capire anche solo da come si comporta visto che con il nuovo becco cerca di mangiare le penne confondendole con i vermiciattoli che di solito si trovano nelle zone paludose dove cacciano gli uccelli, più precisamente è un fenicottero, uccello che si contraddistingue per la colorazione rosea del suo corpo.
Tralasciando il fatto che sarebbe necessaria una revisione della punteggiatura e di altri errori puntuali (come il pleonastico suo prima di corpo), in questo testo l’effetto di ambiguità e involuzione nasce soprattutto da una cattiva organizzazione logica delle informazioni e dai troppi impliciti. Lo studente si trovava di fronte al difficile compito di descrivere una metamorfosi in atto e dal punto di vista di un osservatore interno, che dunque non sa che cosa stia succedendo e quale sarà l’esito della trasformazione, potendolo ipotizzare solo sulla base degli indizi che a mano a mano emergono. Così egli mescola confusamente dettagli dell’anatomia del compagno-uccello (piume, becco) e suoi gesti (il beccarsi le piume), cerca poi di riferirne contortamente uno stato mentale (scambiare le piume per vermi), e, forse pensando con questo di essere più chiaro, aggiunge una descrizione naturalistica (la caccia ai vermi nelle zone paludose). Un gliommero che andrebbe districato. Come valutarlo componente testuale per componente testuale?
Alcune conclusioni
Vorrei provare a trarre qualche conclusione, partendo dal fondo e procedendo a ritroso.
Valutazione come strumento di sanzione e valutazione come strumento euristico. Si potrebbe anche immaginare una griglia di valutazione coestensiva della complessità di una competenza (ad esempio quella di scrittura), organizzata in molteplici sottocompetenze, ciascuna coi suoi descrittori: ma sarebbe una griglia inservibile e nevrotizzante. Si potrebbe anche, come si fa sempre più spesso, attribuire un punteggio a ciascuna delle sottocompetenze (ideazione o contenuto, morfologia, coesione, proprietà lessicale, …) e derivare il voto dalla somma di quei punteggi, ma ci troveremmo probabilmente davanti a conti che non tornano mai. Ciascuna di quelle voci infatti non è qualitativamente equivalente alle altre, ed è necessario soppesarle volta per volta, tema per tema. Si potrebbero fare degli esempi, ma probabilmente a ogni insegnante di lettere ne verranno in mente molti. Forse è meglio continuare a usare, per la scrittura, i voti sintetici e “intuitivi” (in realtà basati su una serie di implicite analisi e valutazioni) cui gli insegnanti ricorrono da sempre. Questo quanto all’attribuzione del voto.
Piuttosto, la descrizione delle sottocompetenze potrebbe risultare utile come strumento euristico, sia all’insegnante, che così espliciterebbe (a se stesso) i criteri di quelle analisi e valutazioni implicite che lo guidano nel giudizio, sia allo studente, che comprenderebbe precisamente che cosa nei suoi testi funziona e che cosa no, che cosa deve correggere e migliorare: la punteggiatura ma magari non l’ortografia, l’uso della subordinazione ma non l’appropriatezza lessicale. In questo il «paradigma allusivo» non funzionava: lo studente sapeva solo di “essere” un 6 o un 4 in italiano e non molto di più, mentre con descrizioni più raffinate e analitiche egli può capire cosa va e cosa no nelle sue prestazioni, non in sé.
Significato dei voti e delle scale di valutazione. Nel sistema dei voti che ho definito «allusivo», i voti non erano in effetti enti matematici, ma giudizi. Abbiamo ricordato che cosa significasse, in termini di percezione della prestazione e della persona, il 7+. È solo quando si desume il voto dalla somma di punteggi, che esso diventa propriamente un ente matematico: solo allora, infatti, ne possiede l’uniformità. Ma si è anche detto che un numero in sé non significa nulla, se non se ne descrive il significato. Avere un sistema matematico di attribuzione del punteggio non significa affatto che la valutazione sia “oggettiva”. Si potrebbe infatti costruire una verifica come questa, basata su quattro domande, ciascuna del valore di 2,5 punti: dove è nato Dante, come si chiamava la donna da lui amata, qual è la sua opera più famosa, dove è morto. Non mi sentirei però di sostenere che lo studente che prendesse 10 in questa verifica oggettivamente conosca Dante.
È giunto quindi il momento di ammettere che in effetti ho abusato fin qui della parola «oggettività», perché nei nostri sistemi di attribuzione del punteggio non c’è in effetti nulla di “oggettivo”, c’è solo un calcolo matematico utile alla definizione del voto, non un accesso alla misurazione precisa di un sapere o di un saper fare. Ma si è detto delle ragioni per le quali questa necessità di “oggettività” si è fatta pressante: mi fermerei cautamente qui, visto che il tema della misurazione degli apprendimenti è complesso.
Penso che si possano trarre due morali. Prima. L’oggettività è più spesso un feticcio che un fatto, e l’odierna credulità in questa dea non è poi molto diversa da quella nell’indiscusso potere della Scuola e del Professore (il potere e l’oggettività sono entrambi degli «effetti»). Seconda. Perché il calcolo dei voti sia, più che oggettivo, almeno non troppo arbitrario e imprevedibile, occorre mettersi d’accordo su che cosa sappia e sappia fare, in ciascuna materia, uno studente che meriti 4, uno che meriti 6, uno che meriti 10. Una ridefinizione delle competenze oggi è necessaria. Ma penso che sarebbe bene evitare griglie troppo complicate e lavorare piuttosto a costruire nuove descrizioni, anzi, come ho già detto, nuove “narrazioni”, così che tutti sappiano qual è il profilo di uno studente che abbia l’8 in pagella, come nel vecchio «paradigma allusivo». In secondo luogo, volendo far ricorso al sistema del punteggio, occorre prestare attenzione soprattutto alla qualità delle domande e al peso (anche in termini di punteggio) attribuito a ciascuna di esse: “spalmare” in modo uniforme il punteggio su tutte non è un modo né oggettivo né valido per dare un voto. Va da sé che questo tipo di valutazione può farla solo l’insegnante, con la sua soggettività.
Difendere la valutazione qualitativa. Dopo aver rimuginato le critiche di De Mauro all’italica ossessione per l’ortografia, mi è capitato di dire ai miei studenti che in effetti essa è solo un sistema di bieco controllo sociale. Dunque, dicevo loro, ciò che conta è imparare a esprimere le proprie idee in modo lucido e appropriato. Eppure… si provi a consegnare al pubblico un testo che non brilla né per la profondità, né per la chiarezza, né per la precisione, ma ancora sufficientemente comprensibile e privo di errori d’ortografia: fatto salvo qualche personaggio particolarmente sensibile in fatto di lingua, probabilmente la si passerà liscia. Si provi poi a consegnare un testo d’esemplare chiarezza, pieno d’idee acute, profonde, ben espresse, ma in cui sia scappato un «qual’è»: si verrà etichettati come ignoranti. Così ero costretto ad aggiungere che la gente è spietata, e che un bellissimo viso, ma davvero bello, deturpato da una piccola cicatrice, attira l’attenzione più per quest’ultima che per lo splendido ovale: li avrei perciò castigati anche in ortografia, per il loro bene. Per questa ragione la voce «ortografia» continua, nella mia valutazione, ad avere un posto a parte e un suo peculiare sistema di sanzione. Ad essa vorrei che gli studenti prestassero una qualità d’attenzione particolare. Non è detto che essa sia l’unico oggetto su cui sarebbe bene esercitarla, ma non mi piacerebbe che il suo significato speciale venisse neutralizzato dall’omogenea compagnia delle mille altre voci di una griglia.
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