C’era una volta il salotto della contessa Maffei
Da tempo il web ha conquistato territori di incontro e di confronto una volta dominati dalla parola detta, dal gesto agito, dagli sguardi, dalla prossemica; e questo è accaduto anche ai circoli di lettura, trasformati in forum di discussione online. Tuttavia forse in pochissimi casi come in questo è evidente quanto una conquista del genere sia in realtà una vittoria di Pirro. Vero è che un forum online è potenzialmente in grado di mettere in dialogo una cerchia di lettrici e lettori oltremodo varia per numero, estrazione, età, provenienza geografica etc.; ma è innegabile che – pure nella ipotesi felice di un dibattito qualitativamente importante (che non si risolva, cioè, in quello che Filippo La Porta definisce caustico karaoke della recensione) – manchi e mancherà sempre un elemento fondamentale della relazione: la condivisione hinc et nunc, la condivisione dello spazio e del tempo. Prova ne sia che piattaforme telematiche con migliaia di iscritti, come Il club dei lettori, annoverino tra le loro prerogative quella di mettere in contatto persone geograficamente vicine, che possano incontrarsi anche fisicamente per parlar di libri.
Probabilmente è anche per rispondere a questa esigenza che oggi sono moltissime le librerie, le biblioteche, le associazioni, le fondazioni che ospitano circoli di lettura – iniziative spesso notevoli per la consistenza e la varietà delle proposte, ma anche proprio per la opportunità che offrono: alle grandi città, di ricreare ambienti di incontro meno dispersivi e impersonali; alle piccole, di costituire centri di aggregazione stimolanti, in assenza di realtà culturali solitamente trainanti come (ad esempio) le sedi universitarie. Bisogna dire però che questo tipo di iniziative non va esente dalla (comprensibile) aspettativa di un ritorno in termini di utenti, iscritti, acquirenti, clienti; e che quindi a volte resta deluso chi vi cerca l’allure, le istanze, l’impronta intellettuale, la tensione politica che contrassegnarono non solo il salotto milanese di Clara Maffei o quello fiorentino di Ludmilla Assing, non solo le accese discussioni al caffè Gambrinus o i dibattiti del Bloomsbury group, ma anche, e fino a non molto tempo fa (è la storia anche della mia giovinezza), le riunioni di partito, i gruppi di impegno sociale, i cineforum nelle sedi strategiche dei sindacati o degli oratori. Si direbbe che i circoli di lettura siano sorti come quelle piccole isole che, sotto la distesa del mare, nascondono un corpo immenso, inabissatosi pesantemente e irrimediabilmente dopo una scossa epocale: residui di una dimensione intellettuale collettiva e testimoni – tuttavia – di un’aspirazione tenace al confronto, esperimenti non trascurabili di socialità, laboratori di ripensamento valoriale. Una volta la formazione politica, la formazione religiosa, scolastica, familiare avevano il potere di orientare e perfino di imporre letture dominanti e condivise; oggi il progressivo (e non certo casuale) svuotamento di senso di ognuna di queste “agenzie formative”, travolte e soggiogate dall’imperativo economico, impone al lettore di ritirarsi in spazi privati per potersi dichiarare innocente alla chiamata in correo che lo designa strumento e complice del mercato editoriale, delle lobbies, dei social. Ma se la lettura può essere un evento privato, un libro non lo è: una volta pubblicato, un libro è di tutti. È questo incastro tra pubblico e privato che fa il bugnato di un circolo di lettura, il perimetro di uno spazio, alternativo a quello sconfinato della rete o del mercato globale, nel quale è ancora possibile misurarsi alla pari intorno a un oggetto di interesse comune, per trarne vantaggi che sono di ognuno e di tutti.
Breve storia del mio circolo di lettura (a mo’ di esempio)
Anch’io vengo dall’esperienza forte, intensa e duratura di un centro sociale; e anch’io (e non credo sia una semplice coincidenza) faccio parte di un circolo di lettura, che però non si riunisce in una biblioteca o in una libreria, ma in casa mia, e non in salotto, ma intorno a un tavolo (rotondo): una cosa tra amici e non tra artisti e intellettuali blasonati – benché una volta abbia condiviso con noi libro, discussione e pizza Romano Luperini. Questo circolo nacque poco dopo i miei figli, e non fu un caso. Trascorrevo le mie giornate tra scuola, casa, saggi di nuoto e di ginnastica, festicciole, recite, merende, cartoni animati; e libri: compravo dozzine di libri. Per bambini. E presto furono così tanti che dovetti dotarmi di una grande libreria dedicata che li contenesse. Compravo anche dozzine di libri per me, che invece trovavano subito posto: in pericolanti pile malinconiche, prima sulla scrivania, poi sul pavimento del mio studio; non riuscivo a leggerne che uno ogni tanto, con fatica. Ero per questo molto triste. Capitò che, durante le vacanze di Natale, mi ritrovassi a trascorrere con degli amici una di quelle serate in cui i papà e le mamme chiacchierano sommessamente, scompostamente buttati sui divani, fingendo di credere che, nella stanza attigua, i figli ancora piccoli giochino in perfetta letizia onorando l’antica amicizia dei loro genitori; una di quelle serate che dovrebbero essere di relax, e che invece, sottotraccia, covano le imminenti fatiche della notte (bastagiochi, lavaidentini, mettilpigiamino, filalettocheètardi etc.); una di quelle serate in cui, sommersi dalle necessità pratiche, a rivelare agli amici i propri bisogni intellettuali ci si sente come peccatori dal confessore o pazienti dallo psicanalista: in attesa di assoluzione o di terapia. E io confessai: dissi che amavo leggere ai miei figli i loro libri, ma che mi mancavano moltissimo i miei, che mi mancavano il tempo per leggerli, le persone con cui discuterne, le occasioni per conoscerne di nuovi. Quella sera di persone ne trovai tre; e insieme riscoprimmo il tempo per leggere e ci inventammo le occasioni per discutere. Ognuno si incaricò di coinvolgere almeno un altro lettore e incominciammo così, in otto (mai numero chiuso). Le regole (rimaste immutate in oltre quindici anni) furono fissate velocemente: ogni partecipante propone un libro, presentandone qualche aspetto, dichiarando perché desidera leggerlo o rileggerlo; finito il giro, a ciascuno è consentito esprimere una sola preferenza per uno dei libri presentati, a eccezione del “proprio”; il libro più votato deve essere letto da tutti, solitamente nell’arco di un mese; e per la pausa estiva si propongono solo quelli che vengono affettuosamente definiti “i classiconi”, libri poderosi, consegnati alla tradizione, bisognosi di una lettura paziente e continuativa. Il primo libro, votato praticamente all’unanimità, fu In Patagonia di Bruce Chatwin; e nemmeno questo, a ripensarci oggi, credo sia stato un caso. Il circolo si chiamò Patagonia.
Il circolo Patagonia e gli altri
Il circolo Patagonia continua a riunirsi con autentica gioia, nonostante i componenti non siano rimasti sempre esattamente gli stessi (ma sempre diversissimi per formazione e professione) e i figli siano ormai grandi. Evidentemente non era soltanto la risposta al bisogno momentaneo di un sollievo: quella che appariva un’urgenza del tutto personale e contingente ha rivelato, invece, quell’esigenza più profonda di cui si diceva all’inizio, che definirei sociale; perfino politica. Nel tempo si è istaurata infatti – spontaneamente, naturalmente, senza alcuna forzatura – una sorta di nuova e rassicurante ritualità: la lettura solitaria, le annotazioni veloci a margine della pagina – col tratto di matita o l’orecchietta –, l’attesa della riunione, i pensieri rimuginati a lungo, cui finalmente si dà la stura mentre si stura la bottiglia del vino, e quei tratti letti a voce alta, che letti da un altro suonano diversi da come risuonavano dentro ciascuno (la sera, a letto, o raggomitolati sul divano sotto la lampada), quelle parole smozzicate per celia con la pizza, e ripetute, poi, senza più briciole, senza più filtri; senza timore o ambizione o presunzione di giudizio. Il racconto di sé, mentre insieme ci si racconta nuovamente la storia che s’è letta, a turno, a brani, a spizzichi. E poi il giro delle novità, la votazione, scoperta, nient’affatto segreta – segreta piuttosto la speranza che sia scelto un libro che non avremmo letto mai, per metterci alla prova. L’appuntamento e il giuramento solenne: non parleremo del libro se non tutti insieme, tra un mese, dovessimo pure incontrarci, a lungo o per caso, fuori da qui. Un rito laico: discreto e spregiudicato, privato e pubblico.
In tanti anni sono passati in Patagonia i libri più diversi – imponenti (I Buddenbrook, Le illusioni perdute, Il conte di Montecristo…), spiazzanti(Il libro delle illusioni, Domani nella battaglia pensa a me…), esilaranti (Vita con l’alce, Roderick Duddle…), sconvolgenti (Vita e destino…), nuovissimi (Stradario aggiornato di tutti i miei baci…), semidimenticati (Rubé…), ma tutti, sempre, in qualche modo, indimenticabili; resi indimenticabili dall’essere stati letti nella consapevolezza deliziosa che altri li leggevano mentre io li leggevo, dall’attesa della discussione e dalla discussione. Mentre ripercorro con la mente questo elenco, ormai sterminato, di libri, ripercorro tratti della mia vita, della mia vita mentre li leggevo, della mia vita così come l’associavo allora a quelle pagine e della mia vita come oggi è; ripercorro le storie dei libri e le storie degli amici, i racconti del racconto e i racconti sul racconto. E aspetto con trasporto e tenerezza il prossimo incontro.
Lo stesso immagino accada anche in altri circoli longevi, che si riuniscono con modalità di tal genere, se non tali appunto, liberando la parola circolo dagli attributi mortificanti cui solitamente la si associa (vizioso, esclusivo, ristretto…), restituendole, piuttosto, la meravigliosa rotondità del cerchio, l’equidistanza dei suoi punti dal centro. Riunirsi intorno a un libro, per un libro, mentre impazzano riunioni di lavoro, riunioni su Meet, riunioni di partito, riunioni di ex compagni – di scuola, di squadra, di viaggio… – riscatta il significato stesso della ri-unione: ricomposizione di parti, nuova coesione, il cui collante non è il narcisismo autoreferenziale della setta, ma la ricerca della propria identità nella alterità; non è la celebrazione ottusa di un’entità accentratrice, dispotica, omologante (il partito più forte, la squadra vincente, la classe migliore, il salotto più cool…), ma la riscoperta della lettura come esercizio democratico. Libro al centro e largo a tutti e tutte coloro che hanno voglia di prendere posto, senza sgomitare, non al primo banco, ma in circolo. Largo a questa estrema utopia minimalista:
Viviamo in tempi di utopie minimaliste. Ne coltivo una, dalla parte dei lettori. Credo in un lettore più esigente e inquieto. Esiste anche se disperso nella folla. Dove si può formare? Anche e soprattutto nei tantissimi gruppi spontanei di lettura che esistono nel nostro paese: biblioteche, case private, scuole, librerie… Sono l’equivalente di associazioni e organismi di base in cui nella democrazia – secondo Tocqueville – si forma il cittadino consapevole e responsabile. Sono questi lettori a prendere sul serio la letteratura e così a farla tornare a essere pericolosa, sovversiva. (Filippo La Porta in Estremo contemporaneo a cura di E. Zinato, Treccani 2020, p.180).
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