Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia di Enrico Macioci
Pubblichiamo un estratto da Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia di Enrico Macioci uscito in questi giorni per TerraRossa Edizioni. Ringraziamo l’autore e l’editore per la gentile concessione.
Per sempre e mai più
I fatidici giorni della metà di giugno del 1981 mi educarono all’essenza del transito umano sulla Terra: nascere, poi morire. Mi basta tornare a quella manciata di giorni, a quei dadi lanciati sul tavolo del destino da una mano misteriosa, per capire tutto ciò che occorre: la vita è l’equivalente di una stanza buia.
Uscii di casa dopo pranzo e i miei non se ne accorsero.
Non ricordo se mio padre fosse andato al lavoro dopo avere zittito il notiziario. Ricordo che mia madre sistemò la cucina: per lei forse costituiva un’attività rassicurante, una sorta di muto rosario domestico. L’eco delle parole di Badaloni aveva lasciato sulle pareti e il soffitto lunghe bave d’inquietudine – la brutta storia del bimbo, un bimbo dell’età mia e di Christian, un bimbo che presto avrebbero tratto in salvo ma che ora giaceva nel pozzo, con le ossa rotte, sbirciando verso l’alto uno spicchio del medesimo cielo che splendeva fuori dalla finestra di fronte a me. Mia madre sciacquò i piatti in un luccichio di bolle di sapone: la osservavo e mi ripetevo l’ordine di papà di non uscire da solo, rivedevo i suoi baffi neri intorno alla bocca aperta per l’angoscia, l’angoscia di smarrire il controllo, l’angoscia che i bambini di sei anni spariscano o caschino nei pozzi senza che i padri e le madri possano fare nulla per impedirlo, l’angoscia di guardare nella
stanza buia. Sfondate la porta ed entrate nella
botola che attenta a ogni nostro passo.
Uscii dal cancello aspettando che mi ghermisse il richiamo stridulo di mamma o quello iroso di papà: «Torna indietro, Francesco!». Indietro, magari fosse possibile! Sui balconi e alle finestre del palazzo non vidi nessuno; probabile che gl’inquilini se ne stessero incollati alla tv.
Non sapevo dove andare, tuttavia seguii la direzione presa da Christian la sera innanzi. Il mio passo era tranquillo e il mio animo agitato. La ghiaia del marciapiede parlottava sotto le mie scarpe da ginnastica. Le auto non badavano a me. Fosse accaduto oggi, qualche automobilista avrebbe rischiato d’uscire fuori strada, navigando su internet alla ricerca del nome Alfredo o del cognome Rampi, compulsando minuto per minuto gli sviluppi della vicenda e dimenticandoli con altrettanta velocità. Ma nel 1981 l’idea stessa del web, perlomeno in Italia, rappresentava un azzardo paragonabile alla base spaziale che Christian e io volevamo tirar su all’interno di una delle tantissime doline della campagna appenninica, cosicché gli automobilisti si limitavano a tenere lo sguardo sulla linea d’asfalto luccicante e a sventolare un dépliant contro la calura. Era nelle case che la gente pendeva dalle immagini televisive, era là che si consumava la prima invasione del virtuale. Era là, forse, che iniziò a srotolarsi la coda della modernità che oggi avvolge e stritola il nostro Paese.
Scrivo forse perché non ho le prove. La storia cambia sotto i nostri occhi. A volte ce ne accorgiamo e a volte no. L’11 settembre del 2001, osservando nella cornice dei nostri schermi il crollo dei grattacieli più prestigiosi d’Occidente, tutti percepimmo la certezza di un mutamento traumatico ed enorme, ma nessuno comprese gli sviluppi di quel mutamento. Nel marzo del 2020 abbiamo sperimentato di nuovo una certezza simile: dai nostri schermi la pandemia è straripata nelle nostre case e nelle nostre anime. Quale sarà il prossimo choc globale? Quando e da dove arriverà?
Nel giugno del 1981 ci limitammo a guardare l’imbocco del pozzo che aveva inghiottito Alfredo Rampi. Guardavamo l’occhio stolto di un pozzo artesiano e speravamo, dolcemente perversi e drammaticamente ingenui, di continuare a guardarlo per sempre e di non doverlo guardare mai più.
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