
L’algoritmo e Dostoevskij
In questi giorni di preoccupata attesa per le sorti di un conflitto di difficile interpretazione una notizia, apparentemente collaterale, ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica, destando da più parti stupore e indignazione. Mi riferisco a quanto accaduto a Milano presso l’Università Bicocca, dove Paolo Nori avrebbe dovuto tenere un ciclo di quattro lezioni su Dostoevskij, lezioni poi cancellate su richiesta della stessa Università per evitare (così riporterebbe l’email da lui ricevuta) «ogni forma di polemica anche interna». Il moto di proteste che si è alzato dopo la circolazione della notizia ha portato alla riammissione frettolosa del corso e l’Università ha cercato di minimizzare, definendo quanto accaduto «un malinteso». Alla fine è stato Nori a porre fine alla questione, anche perché in disaccordo con la richiesta, pervenuta dall’Ateneo, di allargare il discorso anche ad autori ucraini.
Questi i fatti, almeno per quanto è possibile ricostruire dai quotidiani e dalle notizie online. La querelle ha suscitato molte proteste ed anche il mondo politico ha mostrato qualche attenzione per l’argomento, magari sfruttando l’occasione per aumentare la propria visibilità o, magari, per sincero interesse verso la vicenda; difficile dirlo. DI sicuro quanto è accaduto è grave, anche perché Dostoevskij rappresenta per la modernità ciò che Omero ha rappresentato per i Greci e Dante per il Medioevo. Il modo in cui ha restituito la dimensione interiore, percorsa dal dialogico intreccio di voci messo in evidenza nel Novecento da Bachtin, non solo è ancora attuale ma descrive i meandri della coscienza e quanto questa sia ambigua, oscura, in grado di orientare i nostri atti, al di là delle più dichiarate intenzioni. Da questo punto di vista Dostoevskij parla ancora di noi. Di tutti noi.
Da subito è stata adoperata la parola censura. Non mi interessa soffermarmi su questo termine né stabilire se è stato correttamente adoperato. Esso appartiene ad una prima reazione, che senz’altro trovo giustificata, ma istintiva. Mi interessa invece provare ad esaminare le ragioni della scelta compiuta dalla Bicocca: cosa ha spinto un’università italiana a domandarsi se fosse lecito o non lecito insegnare un autore in un dato momento storico? Chi voleva rassicurare? Mi sembrano queste le domande che possono alimentare un dibattito. E mi sembrano le domande che possono aiutare ad interpretare gli eventi. Per rispondere alla prima, la mia sensazione è che non si sia trattato di censura: chi ha chiesto di eliminare il corso su Dostoevskij ha dimostrato di avere come unica misura di interpretazione il presente; un presente fondato non sulla certezza del sapere ma sull’onda delle opinioni. Il cortocircuito di concause per cui l’autore di Delitto e castigo può apparire inappropriato, deriva dalla resa al senso comune, un senso comune che non scaturisce dall’analisi dei fatti, ma che risponde ad una logica algoritmica, fatta di parole chiave che in breve si tramutano in parole d’ordine. Sembra quasi (e potrebbe essere questa la risposta alla seconda domanda) che l’Università abbia cercato di intuire un trend maggioritario di proteste, ed abbia così cercato di difendere la propria immagine da un sentiment diffuso. Da qui la paura. La paura di alimentare un dibattito? Di avere manifestazioni e proteste sotto le facoltà? Non credo, e spero davvero di sbagliarmi; ma la paura principale è stata la pubblicità. La cattiva pubblicità. Insomma, alla fine dei conti, visto il momento storico, Dostoevskij non è una buona operazione di marketing.
Trend, sentiment, marketing: ho adoperato volutamente parole orribili, soprattutto perché applicate al campo letterario: ma le insidie stanno proprio nel linguaggio, come dimostra la richiesta di “allargare” il discorso agli autori ucraini: una mentalità da talk-show che poco ha a che fare con una istituzione culturale, che si preoccupa di suggerire a un docente di applicare una sorta di par condicio televisiva. E allora, se la scelta fosse stata operata attraverso queste categorie di pensiero il problema non è la censura; se questa è la modalità con cui si è arrivati alla richiesta di non fare le lezioni, trovo più preoccupante la resa agli umori potenziali, agli sbalzi ansiogeni dell’opinione. Questo è il segno di una condizione debole della cultura costretta a rincorrere il contingente, a rimbalzare tra modelli conoscitivi più adatti alle analisi di mercato, alle Borse, ai sondaggi. E se è così, vuol dire che quanto accaduto a Nori non è un caso isolato ma è solo quello più eclatante, ingigantito dall’ombra del conflitto. E non è forse questo il vero problema?
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Articolo chiaro e profondo. Concordo in tutto. Grazie, Marco Rustioni.