Perché leggere Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta
Ma prima raccontiamo la storiella
(…) racconterò ogni cosa con una storiella. Vi è (…) un giovine che ama ed è riamato da una fanciulla onesta. Egli vuole sposarla e si presenta al padre di lei col suo vero nome. Tutto è stabilito per le nozze. Ma questo giovine è figlio di un signore, di un nobile signore, che, disgraziatamente, ama la stessa fanciulla; però egli non vuole sposarla, né può sposarla, perché i suoi nobili parenti vi si oppongono. E che cosa fa? Sotto un falso nome si reca spesso in quella casa, e, incontratovi il figlio, gli dice: Io non do conto a voi delle mie azioni!… — Ebbene! (…) ditemi francamente chi vi sembra più onesto dei due: il padre o il figlio?
(E. Scarpetta, Miseria e nobiltà, III, 6 in Il teatro italiano, La commedia e il dramma borghese dell’Ottocento a cura di S. Ferrone, Einaudi 1979, p.110)
La storiella che Eugenio Favetti racconta nel sottofinale di Miseria e nobiltà esaurisce solo in parte la vicenda che costituisce l’ossatura della notissima commedia di Eduardo Scarpetta. Manca qualche dettaglio, nient’affatto irrilevante, che vediamo di ricucire. Il giovane che ama ed è riamato senza troppo sforzo si intuisce essere lo stesso Eugenio, mentre il nobile signore che disgraziatamente ama la stessa fanciulla è il padre di Eugenio, il marchese Ottavio. La fanciulla onesta, Gemma, fa la ballerina al San Carlo di Napoli, mentre il padre di lei, Gaetano, è un ex cuoco che si è arricchito improvvisamente ricevendo la strabiliante e inattesa eredità del suo padrone. Eugenio, desideroso di ottenere da Gaetano la mano di Gemma, allo scopo di scavalcare tanto il non expedit del suo casato quanto l’aut aut del suocero, d’accordo con la fidanzata convince a vestire i sussiegosi panni dei nobili parenti una intera famiglia di miseri popolani: Pasquale, un salassatore, la moglie Concetta e la figlia Pupella; della quale è innamorato Luigino, fratello di Gemma, ragazzo un poco fatuo, ma munifico protettore. La famiglia però condivide la miseria, la fame e l’affitto di una squallida abitazione con un secondo nucleo di tre: Felice, uno scrivano, Luisella, la sua amante, e Peppeniello, il bambino che Felice ha avuto da Bettina, la moglie abbandonata che, per mantenersi, fa da cameriera a Gemma. Tutti costoro, ad eccezione di Luisella e della ignara Bettina, vengono ingaggiati per la improbabile messa in scena della visita ufficiale dei nobili parenti a casa di don Gaetano, che diventa centro di un inevitabile cortocircuito: arriva per ripicca Luisella in ghingheri, fingendosi la principessa zia, che invece è ammalata; arriva Bettina, che, con la più classica delle agnizioni, riconosce il figlioletto; arriva il marchese Ottavio che, moralista e intransigente col figlio, in realtà, sotto il ridicolo nom de plume di don Bebé, frequenta assiduamente Gemma, e senza le intenzioni oneste di Eugenio. A quel punto diventa inevitabile la resa dei conti e lo scioglimento, un appariscente lieto fine che possiamo raccontare senza problemi, non solo perché è notissimo (come tante battute della commedia), ma perché addomestica e accomoda le tensioni e i conflitti di una vicenda che comoda non è. Dunque: il marchese Ottavio acconsente al matrimonio tra il figlio Eugenio e la ballerina Gemma, Luigino sposa Pupella e la tira fuori dalla miseria con la famiglia sua, Felice torna con Bettina e Peppeniello non ha più ragione di dire «Vicienzo m’è patre a me!».
Perché è uno sberleffo alla retorica postunitaria (e non solo)
Il film (bello) che Mario Martone ha dedicato al genio prepotente di Scarpetta (Qui rido io) ha riportato l’attenzione anche sulla più conosciuta tra le sue commedie, questa Miseria e nobiltà che mio padre mi aveva insegnato ad amare, ancora bambina, nella rivisitazione cinematografica di Mario Mattoli (1954), interpretata, tra gli altri, da Antonio De’ Curtis. La maschera straordinaria di Totò da tempo è stata messa in salvo da giudizi frettolosi e dunque la sua comicità, spesso dolente, non rischia più fraintendimenti, pure al servizio delle battute irresistibili di Felice Sciosciammocca. E tuttavia, a sottrarre Miseria e nobiltà alle valutazioni sommarie (le solite: quelle che fanno della commedia e della risata il veicolo di contenuti meno importanti, meno urgenti – se non minori tout court), a suggerirne ancora oggi la forza, la vitalità e qualche buona ragione per continuare a leggerla, forse basterebbe ricollocarla nell’epoca in cui fu scritta; quell’epoca, con i suoi eccezionali protagonisti (da Salvatore di Giacomo a D’Annunzio a Croce), che anche il film di Martone assume come sostrato irrinunciabile. Miseria e nobiltà (composta tra il 1887 e il 1888, ma edita soltanto nel 1900) appartiene alla stessa generazione di drammi diversamente blasonati come Cavalleria rusticana di Verga, Come le foglie di Giacosa, Il rosario di De Roberto, o di celeberrimi libretti d’opera come Madama Butterfly ancora di Giacosa nel duo pucciniano con Illica; e, nonostante la differenza di pedigree, condivide con le opere sue coetanee un irripetibile denominatore comune: un pubblico nuovo e bisognoso di un teatro diverso, che fosse, come più tardi avrebbe scritto Gramsci, non «discorso di propaganda», ma «teatro di idee» [1]. Così scrive Capuana, che sapeva talvolta essere miglior critico che narratore:
Il pubblico vuole a ogni costo un teatro nazionale (…). Quando si vede una nazione invasata in tal modo da un’idea, sembra ragionevole supporre che questa rappresenti un bisogno vivo, reale dello spirito nazionale, un’attività intima, funzionale, che presto o tardi dovrà attuarsi e intanto ne cerca la via (L. Capuana, Libri e teatro, Giannotta 1892, p.252-253)
Il rischio era che il pubblico e, prima ancora del pubblico, i drammaturghi cadessero nella rete di un’operazione politica che il marchese Trevisani, incaricato già nel 1867 di redigere una relazione sullo stato del teatro italiano, aveva delineato con fervore:
Si vedrà quanto importi a un Governo dirigere questa imponente forza intellettuale (le compagnie e i teatri già esistenti) verso il suo retto sentiero, adoperando tutti i legittimi mezzi, perché la civiltà, la libertà, la coscienza, la famiglia e la patria non vi ricevano la minima scossa, il bello si riannodi col vero e col buono in un amplesso finale.
In realtà il teatro migliore di quegli anni fu grande proprio nella misura in cui lavorò su quei temi (civiltà, libertà, coscienza, patria, famiglia), ma in direzione perfettamente contraria a quella indicata dal retto sentiero, rappresentando (piuttosto che assorbendo) ogni possibile scossa e mostrando la disgregazione (piuttosto che l’amplesso finale) proprio di quei valori che il nascente stato italiano indicava ufficialmente come pilastri su cui edificare la propria attendibilità. Tuttavia, fuori dal retto sentiero, i drammaturghi non si mossero con gli stessi mezzi: Verga (per fare, con Cavalleria rusticana, l’esempio forse più noto) sceglie la misura obbligante e tragica dell’atto unico per inchiodare ai suoi fallimenti l’istituto familiare come le dinamiche sociali; Giacosa inaugura i toni pensosi del dramma borghese; e Scarpetta si inserisce di prepotenza con lo sberleffo e l’ironia della commedia, senza nemmeno bisogno della mezza maschera nera, del berretto, del goffo completo bianco di calzoni e camicione di Pulcinella. Basterebbe osservare i nuclei familiari intorno a cui ruota la vicenda: per un motivo o per un altro, sono tutti “irregolari” o addirittura strampalati e, quando si riconducono alla “normalità”, è conquista (o riconquista) precaria o discutibile – e non necessariamente virtuosa, non necessariamente foriera di un miglioramento delle relazioni interpersonali e sociali. Ce lo dicono le battute finali della commedia, che segnano la ricomposizione del nucleo spezzato di Sciosciammocca: la (ri)conquista della dimensione familiare è o convenzione o cumbinazione, come ammette con semplicità Bettina («Simme state spartute seie anne, e mo pe’ sta cumbinazione nce simme ncuntrate» III, 9, p.118); ma soprattutto non risolve – per il nucleo di Felice e Bettina come per tutti gli altri nuclei della vicenda, aristocratici e non – il conflitto di fondo, i tante guaie, fra la miseria vera e la falsa nobiltà che Felice dichiara un attimo prima che cali la tela (III, 10, p.118).
Perché mette in scena la metamorfosi dei ruoli uomo-donna
Benché Miseria e nobiltà abbia il suo mattatore in Felice Sciosciammocca (il personaggio interpretato in primis dallo stesso Scarpetta e poi anche da Totò, con molte licenze rispetto al testo), benché, nell’economia della commedia, le decisioni “ufficiali”, quelle destinate a incidere nel tessuto sociale (siano esse un contratto d’affitto come un consenso matrimoniale) si direbbero prerogativa unicamente maschile, di fatto tutti gli uomini della commedia sono figure inaffidabili per debolezza o superficialità o inettitudine – tre controvirtù cui il blasone e il denaro sembrano conferire un volume ulteriore. Vediamone alcune, a cominciare dalla nobiltà. Ecco il marchese Ottavio, alias Signor Bebé, in un significativo aside:
Ah!Ah!Ah!…Che tipo curioso!… Per forza vuol sapere come mi chiamo. Dire il mio vero nome a lui!… Dovrei essere pazzo! Se mio fratello, il principe di Casador, e mia sorella, la contessa del Pero, venissero a scoprire che io faccio la corte ad una ballerina, povero me!… Starei fresco!… Se non avessi sciupato quasi un milioncino con queste ragazze, non darei conto a nessuno delle mie azioni; ma oggi, purtroppo, ho bisogno dei miei parenti, e debbo agire con molta cautela. Tanto più che faccio sempre delle lezioni di moralità a mio figlio Eugenio!… Se egli sapesse che vengo in questa casa, povero me!… Povero me! (II, 2, p.75)
Non va meglio indagando fra i danarosi parvenu che costituiscono la famiglia della ballerina Gemma: una sorta di grossolano Trimalchione il padre, l’ex cuoco don Gaetano (un «piezzo de battilocchio», di sciocco credulone, III, 9), un gagà ozioso e viziato il fratello, Luigino. Ma è indagando nella miseria che Scarpetta sferra agli uomini l’attacco più doloroso, negando loro lo status di padri. Così Vicienzo, il cameriere di don Gaetano, che ha “adottato” Peppeniello per poterlo tenere a servizio in casa del padrone, parla di Felice a Felice, credendolo il principe di Casador e ignorando che di quel ragazzino sia invece il padre:
Chillu guaglione steva mmiezo a na strada, abbandunato da tutte quante, e pe lo fa’ sta’ dinta a sta casa a servi’, io lo presentaie a lo padrone comme a figlio mio, e v’assicuro, illustrissimo, che le voglio bene proprio comme a nu figlio, pecché se lu mmereta, pecché è na povera criatura… E si potesse sape’ chi è lu padre, le vularria dicere: «Piezze de nfame, galiota, cu qua’ core haie pututo abbanduna’ na povera criatura?!… Sì nu puorco!… Sì na carogna! » E si me rispunnesse, a parola mia, principe, passaria lo guaio!… Vi’ che nfame assassino!.. Ppuh! pe la faccia soia! (III, 3, p.101)
Così Concetta parla alla figlia del proprio marito, Pasquale:
Mannaggia quanno maie me iette a spusa’ a chillu disperatone! Me fosse rotte li gamme primme de i’ ncoppa a lo municipio! Da che m’aggio spusato a isso, sto passanno nu sacco de guaie! Mo nc’ ha cumbinato chist’auto piattino. Steveme sule de casa, e chellu ppoco che tenevemo, nce lo sparteveme a magna’ nuie sule, puteveme sfuca’ na chiacchiera senza che nisciuno nce senteva; a maggio truvaie sti doie cammere e se vulette auni’ cu chill’auto disperatone de don Felice, ma stasera la faccio feruta, vi’! (I, 1, p.36)
Più che della miseria, Concetta fa carico a Pasquale del tradimento dei suoi doveri di pater familias, che non lo obbligherebbero soltanto al mantenimento economico del nucleo, ma fondamentalmente a garantirgli solidità e intimità. Considerando fallito Pasquale come capo-famiglia, Concetta si appropria dichiaratamente del ruolo educativo: «E poi tu si’ figlia a me, haie da da’ cunto sulo a me dinto a sta casa e a nisciuno chiù!» (I, 1, p.136). Non molto diversamente Bettina, scoperta la tresca del marito con la sarta Luisella, rifiuta prima di tutto l’umiliazione del silenzio, senza temere di rivelarsi a tutti come moglie tradita. L’umiliazione si ribalta così su Felice, che ne porta ancora i segni:
FELICE: (…)Ero stato due o tre volte in casa sua, sì, è vero, questo non lo nego; ma sarebbe tutto finito, se voi non aveste fatta quella scenata. Quando voi avanti alle sue discepole mi faceste quel mazziatone, fu tale lo scuorno e la mortificazione che giurai di non vedervi mai più. Dopo 6 mesi di silenzio, mi mandaste a chiedere nostro figlio… cioè, nostro, vostro!… (Chillo ha ditto: Vicienzo m’è padre a me… Io saccio sti fatte!…) Io ve lo negai…. Ma sapete perché ve lo negai? Perché dissi: «Solamente così Bettina verrà da me per far pace». Questo, Bettina non lo fece… E allora, currivato, ritornai da Luisella. Il resto lo sapete!
BETTINA: Che bella discolpa!… E chella povera criatura, senza cammisa!… Ma comme! Nu padre che fa sta’ lu figlio senza cammisa!
FELICE: E che direste se neanche il patre teneva la… cammisa?
BETTINA: Bella cosa! (III, 2, pp.99-100)
Ma è nella giovane Gemma che s’intravede, più che nelle altre, la scintilla di una nuova consapevolezza femminile. Così risponde al marchese Ottavio-Bebé:
OTTAVIO: (…) Anch’io stanotte non ho potuto riposare, e pensando a voi, dicevo fra me: chi sa se mi accorderà una sola parola di speranza, quella parola che non ho potuto mai ottenere, e non so perché…
GEMMA: Ma scusate, signore, io credo che v’aggio parlato chiaro bastantemente. Site vuie che ve piace de perdere lo tiempo. Quanno venisteve la primma vota, e me dicisteve tante belle parole, e me facisteve tanta belle promesse senza mai parlare della cosa più essenziale, io subito capii, e che ve rispunnette?… «Signor Bebè, voi avete sbagliato, io non voglio diventare chella che me vulite fa’ diventa’ vuie. Si veramente tenite na gran premura pe me, spusateme, chesto è chello che desidero». A sta parola «spusateme» che v aggio ripetuto cchiù de ciento vote, vuie nun parlate cchiù, e v’arreffreddate. Ma pecché vurria sape’?
OTTAVIO: Ecco qua, Gemma mia, vi dirò… Io appartengo ad una nobile famiglia… e i miei parenti, capisci…
GEMMA: Capisco… i vostri parenti… la vostra nobile famiglia, nun vedarrieno buono ‘stu matrimonio, pecché io so’ na ballerina… e siccome chesta ballerina amerà sulamente a chillo che le parlarrà de matrimonio, così, caro signor Bebè, scusate se vi dico che dovete battere la ritirata. (Bettina canterella il motivo della ritirata, e Gemma le fa coro. Tutte e due ridono con aria di scherno.)
OTTAVIO (dopo una pausa): E mi lasciate così barbaramente?… Non mi dite altro?
GEMMA: Nient’altro, non ho altro da dirvi (II, 3, p.77)
Anche per la ballerina il matrimonio rimane traguardo sociale e sinonimo di unione stabile; e tuttavia Gemma gioca a carte scoperte, nella disinibita sicurezza di sé: io non voglio diventare chella che me vulite fa’ diventa’ vuie. «Buona ed onesta», come la definisce il suo innamoratissimo fidanzato Eugenio (III, 6, p.109), non esita tuttavia ad assecondarlo con disinvoltura nella “mascherata” inscenata per don Gaetano, che pure lei ama e rispetta. Del suo nucleo familiare, orfano di madre, è lei il perno e il punto d’equilibrio e dunque agisce senza temere alcunché né dal padre né dal fratello, piuttosto esercitando un diritto che s’è conquistata col suo lavoro, con la sua schiettezza, con la sua arguzia.
Perché fa ridere
Si vorrebbe lasciarlo così, questo perché. Che bisogno c’è di precisarlo? Nessuno dovrebbe dubitare dell’importanza del riso, nella vita; e se una commedia è capace di strappare le risate, bisognerebbe renderle onore e non guardarla con la diffidenza del vecchio e terribile Jorge de Il nome della rosa. E però, nel timore che la comicità di Miseria e nobiltà venga assimilata tout court a quella di una farsa, val la pena di ripercorrere almeno un giudizio interessante, quello di Domenico Rea:
Penso che per Scarpetta non si possa parlare di verismo. Sarei più d’accordo se si parlasse di surrealismo avant la lettre. (…) Si tratta sempre di situazioni e condizioni paradossali. Non viene mai fuori quel che è Napoli, l’atroce realtà in cui vivono più di mezzo milione di uomini (…). È probabile anche che il pessimismo di fondo, la monade costante dell’anima napoletana, impedisca, come un ostacolo tangibile, non di raggiungere la verità, ma di evitarla di proposito (…) evadendo nel ridere per siglare un disprezzo, una rinuncia conscia di non poter sperare in alcuna speranza, in alcuna aspettativa (D. Rea, Il teatro napoletano dall’unità alla fine dell’Ottocento in Il teatro dell’Italia unita, Il Saggiatore 1980, pp.132-133)
[1] cfr. A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi 1966, pp-112-113
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