Il potere dell’Amore. Giacomo notaio di Federico II
Crociate
Verso la fine del secolo XI, nelle corti della Francia meridionale, sboccia la poesia trobadorica che deve la sua originalità alla elaborazione della fin’amors: «una delle creazioni certamente più singolari del codice morale cavalleresco» (M. Bloch).
Ma fu la ferocia della guerra, in cui sono specializzati i cavalieri, a spazzare via la langue d’oc e la voce della lirica. Una sporca guerra per vent’anni insanguinò il Mezzogiorno francese in nome della difesa dell’ortodossia insultata dai Catari.
L’eco di quella voce ancora viva fu raccolta da Federico II, che volle, con un implicito ed evidente valore polemico, farne il modello su cui edificare la sua corte di poeti.
La scuola poetica siciliana nasce, infatti, nel 1230: l’anno successivo alla conclusione della crociata contro gli Albigesi, l’anno della sconfitta militare e politica di Gregorio IX, costretto a San Germano a togliere la scomunica al condottiero della sesta crociata e a consentirgli l’unificazione della corona imperiale, di Germania e di Sicilia. Il fatto che Federico, nuovo re di Gerusalemme, nel momento in cui ha sbaragliato il suo acerrimo avversario, decida di dar corso ad una ‘scuola poetica’ potrebbe forse considerarsi casuale, ma sarebbe difficile credere che lo sia richiamarsi alla lirica nata nella terra di eretici sconfitti e massacrati in una crociata voluta dal papa.
Tenzoni
L’invenzione del sonetto è attribuita a Giacomo da Lentini, il più famoso dei lirici siciliani, che, come è noto, di professione faceva il notaio, ed era funzionario presso la corte dell’imperatore come Jacopo Mostacci e Pier delle Vigne. A questi tre giurisperiti dalle capacità poetiche dobbiamo la tenzone sulla natura dell’amore, che può svelarci qualcosa di uomini, di cui sostanzialmente non sappiamo nulla.
Jacopo Mostacci propone agli altri due «un dubio»: tutti dicono che amore «ha potere» e costringe i cuori ad amare, ma «amore no parse ni pare». Ciò che gli uomini chiamano amore è, invece, «una amorositate / la qual par che nasca da piacere». Non ne conosce «altra qualitate», ma lascia agli altri il compito di sentenziare «zo che è» amore.
Bisogna fare attenzione alle parole, poiché siamo di fronte a retori di professione: se fare qualcuno «sentenz[i]atore» significa renderlo arbitro di una questione, non dobbiamo dimenticare che a scrivere è un notaio che si rivolge ad altri uomini di legge, esperti di ars dictandi. Ciò che letteralmente vuole Jacopo è una sentenza e dunque la tenzone è un giudizio, un processo, che Jacopo istruisce «vogliendo dilettare» «meo savere». La quaestio è dunque che cosa è amore, ma nasce dall’esigenza di stabilire se in realtà «ha potere»: il che è un problema giuridico tipicamente medievale.
Pier delle Vigne comincia con l’accusare di follia coloro (tra cui evidentemente Jacopo) «che credono ch’amor sia niente» perché «no si pò vedere / e no si tratta corporalemente». Ma, poiché si fa sentire «signoreggiar la gente» «dentro dal cor», amore «deve avere» «molto maggior presio» «che se ’l vedessen visibilmente». Non si vede come «la calamita» «at[i]ra» «lo ferro», tuttavia «lo tira signorevolmente» per effetto della sua «vertute»: questo lo invita «a credere» «ch’amore sia» e il fatto «che tuttor sia creduto fra la gente» gli dà «grande fede».
Pier delle Vigne, che crede all’amore, si dichiara, dunque, appartenente alla schiera dei fedeli d’amore e adombra il legame vassallatico-cortese nella calamita (la donna), che «signorevolmente» attira il ferro (l’uomo), grazie alla sua virtù (amore). Tuttavia, contestata l’opinione di chi pensa «ch’amor sia niente», perché non si può vedere e toccare, rimane irrisolto il problema della sostanza di amore. Alla richiesta di certezza di Jacopo, «zo che è» amore, Pier non sa rispondere che con un dubitoso congiuntivo: è indotto a credere «ch’amor sia». La certezza, espressa in sintagmi retti dall’indicativo, è riservata a definire, non semplicemente che amore ha potere, ma la qualità del potere di amore, che è signorile.
Il sistema culturale di riferimento ha per base l’esperienza concreta. La posizione (scettica) di Jacopo Mostacci è la più radicale: ciò che non si vede e non si è mai visto, semplicemente, non esiste; quella di Pier delle Vigne è più articolata, ed è, aristotelicamente, attinente all’ambito naturalistico (esempio della calamita).
Amor è un (laico) desio
Amor è un[o] desio che ven da core
per abondanza di gran piacimento;
e li occhi in prima genera[n] l’amore
e lo core li dà nutricamento.
Ben è alcuna fiata om amatore
senza vedere so ’namoramento,
ma quell’amor che stringe con furore
da la vista de li occhi ha nas[ci]mento:
ché li occhi rappresenta[n] a lo core
d’onni cosa che veden bono e rio,
com’è formata natural[e]mente;
e lo cor, che di zo è concepitore,
imagina, e [li] piace quel desio:
e questo amore regna tra la gente.
Il sonetto di Giacomo da Lentini si chiude con il medesimo sintagma utilizzato da Pier delle Vigne: «tra la gente». Ma, mentre Pier si rifugiava in un ambito fideistico, Giacomo recisamente afferma, in indicativo, che l’amore di cui ha parlato ha il potere di re («regna»). E con questo risolve un ambito della quaestio: a chi non voleva «consentire» che amore «ha potere», risponde non semplicemente che amore ha potere signorile (come dice Pier delle Vigne), ma che è addirittura re. Il mancato riconoscimento del potere di amore si configura, dunque, non semplicemente come fellonia feudale, ma come ben più grave delitto di lesa maestà, registrato nel Liber Augustalis (1231).
Non bisogna discutere del giudizio, delle decisioni e delle disposizioni del re. Rientra infatti nella fattispecie del reato di lesa maestà discutere dei suoi giudizi, delle sue azioni, delle sue decisioni e delle sue disposizioni […] (trad. in F. Gaeta – P. Villani,1979)
Il processo, intentato contro amore, da Jacopo Mostacci, si risolve in un verdetto di condanna contro chi aveva sostenuto l’accusa: esito paradossale (possibile solo nella fantasia di bizzarri uomini di legge medievali), che naturalmente doveva molto divertire i funzionari e la corte, che variamente avevano collaborato alla stesura delle Costituzioni melfitane.
Il gioco e il riso ‘siciliano’ sono dunque qualcosa di molto di più rispetto a ciò che usualmente si pensa, ed hanno a che fare con la specificità dell’ambiente e degli autori. Resta ora da esaminare il sollazzo amoroso.
Il sonetto è costruito su un ferreo sistema logico-formale, di tipo aristotelico, e il lessico è quello tecnico, cortese, di ascendenza occitanica (che ha in Andrea Cappellano l’indiscussa auctoritas).
Il punto di partenza della tesi di Giacomo è l’esistenza evidente, perciò sottintesa come assioma, della Natura, che forma ogni cosa, dotandola di qualità variabili e opposte («bono e rio»). L’oggetto viene percepito per mezzo degli occhi, organo di senso, dando luogo alla sensazione, che viene trasmessa al cuore. Il processo sensitivo risulta descritto come infallibile (gli occhi trasmettono la forma percepibile sua propria «d’onni cosa», così come è «formata» da natura) e, dunque, indiscutibilmente vero. Gli occhi, infatti, sono un canale di comunicazione, non alterano ciò che percepiscono, sia esso buono o cattivo, risultando, per questo aspetto, assolutamente passivi. È il cuore che elabora la percezione, «imagina» (ovvero, all’immagine dell’oggetto percepito lega altre immagini depositate nell’esperienza, presumibilmente stabilendo differenze e aspetti comuni tra la cosa percepita e le altre cose), e se è estremamente piacevole, il risultato della fusione di ciò che è percepito, con ciò che è immaginato, è quel desiderio, che è questo amore. La forma specifica di amore, in altre parole, è il fine di un processo dinamico necessario. Secondo il dettato di Andrea Cappellano, l’amore nasce dalla vista, gli occhi «genera[n]», ma essi, come padre, sono attivi soltanto nel momento iniziale, «in prima», quando trasmettono al cuore, mediante la percezione, una forma, che è un’immagine. Il cuore svolge una funzione materna, costruita in hysteron proteron: «dà nutricamento» – «è concepitore», e, come ente femminile, conduce al fine la forma trasmessa dal padre.
L’amore è una realtà naturale, una sostanza, ed è perciò possibile individuare le cause aristoteliche per cui esso si produce così come è:
Causa materiale: cuore.
Causa efficiente: occhi.
Causa formale: forma specifica della «cosa», già esistente nella natura.
Causa finale: amore (figlio di occhi e cuore).
L’amore-desio, l’amore-re, dunque, è il risultato di una modificazione necessaria che rientra in un processo scientificamente schematizzabile.
Ma, esiste un’altra realtà, di cui Giacomo si occupa nei vv.5-6.
Si tratta, e bisogna fare attenzione alle parole utilizzate, proprio di una realtà, «Ben è», ma solo «alcuna fiata». Dunque, non è una realtà autonoma e necessaria, e ciò che esiste come eventualità, è, secondo Aristotele, essere accidentale, che «non accade né sempre e di necessità, né per lo più: tuttavia, talvolta può accadere.» (Metafisica, trad. Reale). Il fatto che si sia «amatore» – «senza vedere so ’namoramento» – stabilisce una differenza specifica, tra due desideri che provengono entrambi dal cuore, in modo da caratterizzare il genere proprio di amore.
Magna Curia
Mi limito qui a ricordare il dato storico, senza entrare nel merito di questioni specificatamente filosofiche: alla corte federiciana si tradusse Aristotele (come anche Averroè e Avicenna) sotto la guida di Michele Scoto, astrologo e filosofo di corte. Giacomo ragiona in termini aristotelici, dunque, perché la cultura del tempo è aristotelica, perché la specificità degli studi giuridici è fondata sulla conoscenza di Aristotele e sulla logica aristotelica, perché la corte di Federico promuove una più diretta conoscenza di Aristotele. Dal momento che Giacomo non ha intenti specificatamente filosofici, sarà sufficiente accordargli una conoscenza attinente a indubitabile interdiscorsività, oppure fare riferimento ad una cultura di contesto presente nel testo.
Rispetto alla realtà naturale dell’amore-re, che rientra nell’ambito dell’esperienza percettiva, l’innamoramento per fama risulta essere una sorta di simulacro dell’amore, nato per partenogenesi senza esperienza dei sensi. Si tratta di un amore, per definizione, non naturale, che tende leggermente al mostruoso nel momento in cui si riflette sull’assenza della causa formale e sulla non distinzione della causa efficiente. Se l’amore che legittimamente «regna tra la gente» è figlio degli occhi (causa efficiente, padre) e del cuore (causa materiale, madre), quell’altro risulta un figlio senza padre: un bastardo, che non può aspirare a nessun ruolo sociale, ma che minaccia, con la sua sola esistenza, i legittimi eredi.
Per noi, a distanza di quasi ottocento anni, «cuore» e «amore» sono trite parole, proprio perché otto secoli di letteratura, al di là del nostro grado di cultura, sono in noi. Ma nel momento in cui Giacomo le inventava, nel senso retorico di inventio, erano i baluardi laici da opporre alla concezione sacramentale e spiritualistica dell’amore che la Chiesa voleva imporre alle irrequietudini dei cavalieri.
Lo scontro tra potere imperiale e potere papale per Giacomo, per Federico II, per i ‘siciliani’, è scottante attualità. Il sonetto è esplicito: se gli occhi non percepiscono alcun oggetto, nessun desiderio può essere mosso dal cuore, in quanto non si pone la condizione espressa nella prima terzina. Se, tuttavia, si è amanti, senza vedere ciò che si ama, non si è dominati da un potere forte e si rimane esclusi dal civile consesso. In altri termini, è possibile essere fedeli ad un usurpatore, debole, deforme, mostruoso, ma se si vuole rimanere all’interno dell’alveo naturale si riconoscerà il legittimo potere del re. Il discorso amoroso segna la distanza tra guelfi e ghibellini.
Si potrebbe perfino ipotizzare che quanto afferma Giacomo determini un’importante conseguenza: la negazione dell’esistenza, come fatto naturale, dell’amore nei confronti di Dio. Proprio in quanto nessun occhio lo percepisce, l’amore verso Dio non può stringere «con furore» e non è «questo amore» che «regna tra la gente». La radicalità dell’affermazione si nasconde dietro una sottile distinzione: non si nega che esistano uomini amatori di Dio, si afferma, soltanto, che l’amore nei confronti di Dio non domina gli uomini. Come negare che ciò sia vero, se chierici, vescovi, monaci, teologi e santi affermano la stessa cosa? Non è l’accusa ricorrente del mondo ecclesiastico rivolta al mondo laico?
Costringere il proprio nemico ad essere d’accordo con quanto si afferma, usare le parole, le accuse stesse dell’avversario, per colpirlo, è il più raffinato modo di difendersi e di offendere senza dar adito ad una giustificabile reazione. È un divertimento.
Così si divertiva la corte di Federico.
Il poeta, non ancora saltimbanco e non più giullare, ci fa sentire la sua voce: è Iacobus de Lentino domini Imperatoris notarius.
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