Sul buon uso dell’hashtag
Dopo l’articolo di Silvia Pareschi che si può leggere al seguente link, pubblichiamo l’intervento di Maria Anna Mariani sugli Stati Uniti oggi. Mariani insegna Letteratura italiana contemporanea alla University of Chicago, è autrice dei reportage narrativi “Dalla Corea del Sud. Tra neon e bandiere sciamaniche” (2017) e “Voci da Uber: Confessioni a motore” (2019) e dei saggi “Sull’autobiografia contemporanea. Nathalie Sarraute, Elias Canetti, Alice Munro, Primo Levi” (2012) e “Primo Levi e Anna Frank. Tra testimonianza e letteratura” (2018).
***
No such thing
as innocent
bystanding.
Sono tre versi di Seamus Heaney, cristallizzati in aforisma dopo che qualcuno li ha estratti dal loro contesto originario, Mycenae Lookout, una poesia che convoca la Grecia antica e l’Irlanda moderna su uno stesso sfondo di tragedia. In questi giorni atroci me li trovo rimbalzati addosso e ancora addosso dentro la mia bolla cinguettante. Sono versi che inquietano la condizione di bystander: di chi osserva un evento mentre accade, ma non vi prende parte in maniera attiva. Questi versi mi pungolano mentre guardo video di soprusi legalizzati e mi illudo di poter continuare a guardarli senza fare nulla. Credo forse che passività e innocenza siano sinonimi? Che guardare senza intervenire sia un atto neutrale? No such thing as innocent bystanding. E allora, con i versi di Seamus Heaney che mi vorticano in testa, comincio a ritwittarli quei video di soprusi. Comincio a ritwittarli quei video di manifestazioni a cui non vado, a cui non posso andare perché sono confinata in una casa di montagna distante da tutto, vicina solo a una banda di scoiattoli che dicono: rimozione. E allora ritwitto: compulsivamente. Come se ritwittare ciò che mi indigna o ciò che ammiro avesse la consistenza di un gesto politico. In realtà lo so bene che non è un gesto politico ma solo la sua scorza performativa: che mi serve soltanto a segnalare virtù, a esibire un’aureola pixelata. Ma è pur sempre meglio compiere quell’esile e facilissimo atto politico che non compierlo. È pur sempre una riduzione di quella quota di passività colpevole che incrina la neutralità del bystander.
Martedì scorso gli atti politici virtuali si sono coagulati attorno all’industria musicale, che ha proposto di sospendere per un giorno ogni attività promozionale e incanalare tutta l’attenzione sulle proteste seguite all’assassinio di George Floyd. Ma l’attivismo digitale è eslege e immemore. Nel giro di poche ore, l’iniziativa di mettere in pausa la macchina dello spettacolo per unirsi alle marce e raccogliere fondi si è tramutata in una solidarietà puramente semiotica: un quadrato nero postato su Instagram, abbinato all’hashtag #BlackLivesMatter. Successo esuberante di questa pratica. Non stupisce: come trovare un modo altrettanto rapido, altrettanto innocuo, per dimostrare il proprio sostegno alle manifestazioni senza alzarsi dal divano? E così il quadrato nero accoppiato all’hashtag è proliferato. Proliferando ha però danneggiato il movimento #BlackLivesMatter, perché invece di amplificarne le voci ha finito per silenziarle, occultandole sotto un patchwork monocromo e vuoto di contenuti.
Un hashtag è un segno di interpunzione bifido: contrassegna uno slogan politico, ma è anche la categoria di un archivio. Chi digita l’hashtag #BlackLivesMatter come uno slogan di solidarietà non deve dimenticare che al tempo stesso sta alimentando un gigantesco archivio digitale. È un archivio collettivo che raduna risorse utili per i manifestanti e che agita immagini e video di denuncia. Subissandolo di schermate nere lo si rende inservibile. Mai far prevalere lo slogan sull’archivio: ecco un comandamento per l’attivista digitale.
Ma l’attivista digitale può anche impugnare a suo favore questa coincidenza tra slogan e archivio, sabotando con scaltrezza gli hashtag perversi e riversandovi dentro contenuti del tutto estranei. È quello che hanno fatto le dive e i divi del K-pop all’hashtag razzista della supremazia bianca, #WhiteLivesMatter, che hanno messo fuori uso tramite un détournement situazionista, intasandolo con la malizia dei loro video musicali, con pantomime e sberleffi che ridicolizzano il mega-contenitore fomentatore di odio.
L’uso straniante dell’hasthtag praticato dal K-pop a sostegno di #BlackLivesMatter è più di una tattica: è un atto teorico che permette di riflettere su forme di solidarietà digitale che non si fondano sull’identificazione con le vittime, come le abusatissime proposizioni #WeAreAllGeorgeFloyd o #ICantBreathe. Lo si è detto più e più volte: enunciazioni come queste ci assimilano in automatico alla vittima, senza che la differenza vistosa della nostra posizione venga marchiata in alcun modo. Non siamo vittime. Non siamo neppure carnefici. Come può un hashtag segnalare il ruolo ambiguo che occupiamo: l’implicazione nelle strutture di potere che hanno contribuito all’assassinio di George Floyd? Già, perché innocenti non siamo, anche se non abbiamo commesso nessuna violenza, anche se non siamo criminalmente colpevoli. Esiste però una responsabilità vicaria per azioni che non abbiamo compiuto. È una zona grigia della responsabilità, che non viene mappata dalle categorie di vittime e carnefici, e neppure da quella di innocenti e non coinvolti bystander. A scriverlo è lo storico Michael Rothberg in un saggio importante, Implicated Subjects: Beyond Victims and Perpetrators (Stanford University Press, 2019). Le sue pagine sono animate dalla convinzione che il nostro vocabolario concettuale per comprendere il potere, il privilegio e la violenza non sia abbastanza capiente e preciso. Come definire la nostra compromissione con forme di sfruttamento lontane nello spazio e nel tempo? In che modo siamo implicati in eventi che sembrano porsi oltre la nostra capacità d’agire individuale? Sono le domande al centro del libro, che potrebbe benissimo accampare in epigrafe i versi di Seamus Heaney citati in apertura, che fanno da commento a chi in questi giorni di protesta è distante, a chi non agisce: ma che non per questo può dirsi innocente.
#NoSuchThingAsInnocentBystanding
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