Ecco il vaccino: Filastrocche in cielo e in terra di Gianni Rodari
Difese immunitarie e anticorpi
Feticcio della mia infanzia, quando me le recitava mia madre e non sapevo ancora nemmeno leggere, poi deposito prezioso nella mia memoria, le Filastrocche in cielo e in terra di Gianni Rodari (Einaudi Ragazzi) sono la colonna sonora della mia vita, perché davvero non ricordo un altro libro che mi abbia accompagnato continuativamente per tanto tempo, senza che mai io me ne sia scusata, vergognata, ricreduta, schernita. Eredità contesa fra mia sorella, mio fratello e me, l’edizione originale non ce l’ho. L’ho ricomprata ai miei figli e poi ne ho comprata una tutta per me, che tengo sulla scrivania; e a volte mi basta gettare uno sguardo ai disegni irresistibili di Bruno Munari per provare quel sollievo che è l’unica esperienza che io ricordi come vagamente simile alla leggerezza auspicata da Calvino (molto spesso – ahinoi – sepolta sotto gli strati pesanti di troppe letture abusive). Mi torna in mente sempre e sempre opportuna. Anche adesso.
In questi mesi abbiamo cercato nella lettura protezione e difesa; difesa dal virus, ma anche protezione dalla (altrettanto allarmante e assai più incresciosa) recrudescenza di virus-altri: l’emarginazione, il sovranismo, il cinismo del mercato, la retorica a buon mercato, la pezza sul buco, giusto per citare i più aggressivi. Abbiamo ripreso in mano Boccaccio e Manzoni, De Filippo e Saramago, e Tucidide e Lucrezio e Camus e quanti e quante ancora sapessero mostrarci, spiegarci, raccontarci degli esseri umani e delle loro pesti, ma anche degli esseri umani e delle loro cure. E loro ci hanno curato.
Adesso io vorrei proporre di cercare nella lettura di queste Filastrocche cura immunizzante contro l’ipocrisia, anticorpi alle mistificazioni, corroboranti del pensiero; vorrei cercare strumenti per restituire alla dimensione della complessità una fisionomia dignitosa, liberandola dall’equivoco grottesco che basti affastellare domande per dirsi complessi, liberandola dalla mortificante funzione di alibi, perché quando le domande diventano troppe, ci si sente anche legittimati a non dare risposte, o a darle sbagliate. Rodari sa essere complesso, perché guarda all’essenza.
Qui di seguito vi segnalo sei questioni soltanto, sei questioni complesse – a partire proprio dalla stessa Complessità – nelle quali Rodari indaga con semplicità disarmante, e mai con intenti semplificatori. E non aggiungo altro, perché non c’è proprio cosa aggiungere. Se non: rileggetele tutte.
Complessità
La testa del chiodo
(m’è venuta in mente per ognuno dei disastri – nella sanità, nella giustizia, nella scuola, nella economia – che abbiamo potuto imputare a riforme mancate, e sepolte sotto un’invalicabile montagna di distinguo speciosi o – che è lo stesso – affrontate con semplificazioni oltraggiose).
La palma della mano
i datteri non fa,
sulla pianta del piede
chi si arrampicherà?
Non porta scarpe il tavolo,
su quattro piedi sta:
il treno non scodinzola
ma la coda ce l’ha.
Anche il chiodo ha una testa,
però non ci ragiona:
la stessa cosa càpita
a più d’una persona.
Emarginazione
Il trionfo dello Zero
(m’è venuta in mente pensando a tutti gli zero che nella storia hanno sempre fatto la differenza; ai migranti che non hanno smesso di migrare; a un esercito silenzioso di infermieri, badanti, cooperanti, edicolanti…; e un poco anche a chi, insegnante nullafacente come me, ha continuato a insegnare).
C’era una volta
un povero Zero
tondo come un o,
tanto buono ma però
contava proprio zero
e nessuno lo voleva in compagnia
per non buttarsi via.
Una volta per caso
trovò il numero Uno
di cattivo umore perché
non riusciva contare
fino a tre.
Vedendolo così nero
il piccolo Zero
si fece coraggio,
sulla sua macchina
gli offerse un passaggio,
e schiacciò l’acceleratore,
fiero assai dell’onore
di avere a bordo
un simile personaggio.
D’un tratto chi si vede
fermo sul marciapiede?
Il signor Tre che si leva il cappello
e fa un inchino…
E poi, per Giove,
il Sette, l’Otto, il Nove
che fanno lo stesso.
Ma cosa era successo?
Che l’Uno e lo Zero
seduti vicini,
uno qua l’altro là
formavano un gran Dieci:
nientemeno, un’autorità!
Da quel giorno lo Zero
fu molto rispettato,
anzi da tutti i numeri
ricercato e corteggiato:
gli cedevano la destra
con zelo e premura,
(di tenerlo a sinistra
avevano paura),
lo invitavano a cena,
gli pagavano il cinemà,
per il piccolo Zero
fu la felicità.
Welfare State
La scuola dei grandi
(m’è venuta in mente di fronte al tabellone istituzionale delle priorità, tutte le volte che mi sono sentita come nel Monopoli, tornate indietro senza passare dal Via).
Anche i grandi a scuola vanno
tutti i giorni di tutto l’anno.
Una scuola senza banchi,
senza grembiuli né fiocchi bianchi.
E che problemi, quei poveretti,
a risolvere sono costretti:
«In questo stipendio fateci stare
vitto, alloggio e un po’ di mare».
La lezione è un vero guaio:
«Studiare il conto del calzolaio».
Che mal di testa il compito in classe:
«C’è l’esattore delle tasse».
Proletariato
Il gregario
(m’è venuta in mente constatando il livore dei campioni di mestiere costretti dalle circostanze a correre com’è abituato a fare un gregario).
Filastrocca del gregario
corridore proletario,
che ai campioni di mestiere
deve far da cameriere,
e sul piatto, senza gloria,
serve loro la vittoria.
Al traguardo, quando arriva,
non ha applausi, non evviva.
Col salario che si piglia
fa campare la famiglia
e da vecchio poi acquista
un negozio da ciclista
o un baretto, anche più spesso,
con la macchina per l’espresso.
Sovranismo
Il dittatore
(m’è venuta in mente non solo guardando le uscite quotidiane di superbi e iracondi notissimi italici dittatorelli, ma leggendo un profluvio di post e chat e news – e fake – grondanti narcisismo delirante e pernicioso da maitre-a-penser-de-noantri).
Un punto piccoletto,
superbo e iracondo,
«Dopo di me» – gridava –
«verrà la fine del mondo!».
Le parole protestarono:
«Ma che grilli ha pel capo?
Si crede un Punto-e-basta,
e non è che un Punto-e-a-capo».
Tutto solo a mezza pagina
lo piantarono in asso
e il mondo continuò
una riga più in basso.
#ANDRÀTUTTOBENE
La galleria
(m’è venuta in mente perché – belli gli arcobaleni contro la paura, belli i canti al balcone, belli i cestini appesi alle ringhiere – ma la notte, anzi, ‘a nuttata, pure se passa, è stata – è – scura scura).
La galleria è una notte per gioco,
è corta corta e dura poco.
Che piccola notte scura scura!
Non si fa in tempo ad avere paura.
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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Come non condividere?
Come non condividere questa carrellata di filastrocche che in casa mia, dopo quarantacinque anni dalla prima di quattro figli e otto nipoti al nostro attivo, ancora si tirano fuori a celebrare, commentare, sottolineare, smitizzare o rendere “nostri” momenti familiari?
Se è vero, com’è vero, che ancora, con qualche nipotino in auto, recito “la galleria è una notte per gioco” ogni volta che ne incontriamo una (anche fra Pisa e Lucca, quindi [b]molto[/b] spesso!), è anche vero che oggi rileggere quelle che Luisa Mirone ha offerto come antidoto o vaccino a questo tremendo periodo, pieno, sì, di tragedie sanitarie ed economiche, di solitudini e sconforto, di esempi edificanti e luminosi che invitano a sperare, di flash mob dai balconi e di ore passate su Skype a vederci a distanza, ma pieno, purtroppo, anche di voci sguaiate, folli e irresponsabili, di comportamenti incivili e pericolosi, di manifestazioni da vergogna, questa carrellata di saggezza semplice e profonda – come solo i grandi come Rodari sanno offrire – è stata davvero un balsamo e, insieme, un incoraggiamento: ce la faremo.
Grazie Luisa!